Cairo d’Italia e buon senso d’ Egitto nel salotto televisivo della Gruber

         Cairo, non la capitale d’Egitto, ma il Cairo d’Italia, 68 anni compiuti sei mesi fa, può ben essere considerato, senza volere fare torto ai tanti eredi attribuiti alla buonanima di Silvio Berlusconi, il più riuscito della scuderia del Biscione. Da segretario temporaneo del proprietario dell’ancora Fininvest, poi evoluta in Mediaset, Cairo è stato capace, nel tempo libero lasciatogli dalla passione sportiva, di diventare editore del Corriere della Sera, senza subire i danni subiti da chi lo aveva preceduto nella scalata al maggiore quotidiano italiano, e di una rete televisiva piccola di certo rispetto alla Rai , cioè La 7, ma più agile e spesso capace di fare opinione di più, specie nel salotto di Lilli Gruber. Alla quale basta la mezz’ora assegnatale dal palinsesto per lasciare il segno più delle maratone di Enrico Mentana. Al quale adesso riuscirò magari più antipatico del solito, temo.

         Nel salotto della Gruber si trovano spesso, per carità, giornalisti del Corriere, anche di vasta cultura ed esperienza, ma il più frequente e il più loquace, direi anche il più rispettato e assecondato dalla conduttrice, collegato dalla sua postazione di direttore del Fatto Quotidiano, è Marco Travaglio. Che finisce quasi sistematicamente per risultare, quanto meno, quello che dà la linea, come si dice nel nostro mestiere. O lascia il segno, per volere essere rispettosi, o meno irrispettosi della Gruber e del direttore del telegiornale de La 7.  E non è il segno, naturalmente, del Corriere dell’editore Cairo e del direttore Luciano Fontana.

         Ieri sera, collegato con la Gruber appunto, tra i sorrisi sarcastici e le interruzioni del corrierista Beppe Severgnini, un ancora più sarcastico Travaglio ha dato lezioni di guerra, e persino di diplomazia, assegnando la vittoria della guerra in Ucraina a Putin. Che l’aveva cominciata quasi quattro anni fa, ormai, per concluderla entro una quindicina di giorni   con la fuga o la cattura di Zelensky, e la sta ancora continuando alla ricerca di qualche altro uno o due per cento di territorio ucraino da occupare e annettere.

         Con l’aria di volersene dolere e di essere loro solidale, Travaglio ha rappresentato gli ucraini non dico, per carità, tutti nazisti come li considera Putin dal momento in cui si è proposto dichiaratamente di “denazificare” il paese sfortunatamente limitrofo alla Russia, ma ingenui. Caduti nella trappola prima di Biden, quando era presidente degli Stati Uniti, e poi di noi europei, che sembriamo decisi a insistere anche contro il successore di Biden alla Casa Bianca, di resistere a un Putin armato fino ai denti. E deciso anche non tanto all’uso quanto al suicidio del nucleare.

          Mi chiedo con sommesso scetticismo se Cairo ha il tempo e la voglia di vedere e sentire questo spettacolo sulla “sua” rete. E se il suo televisore resiste agli oggetti che il buon senso vorrebbe che lui gli lanciasse contro prima di cercare di cambiare canale.

Ripreso da http://www.startmag.it    

L’antidoto all’astensionismo è il sistema elettorale proporzionale

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, scrisse Giuseppe Ungaretti raccontando la prima guerra mondiale alla quale partecipava.

Non siamo in guerra in Italia, anche vi si gioca ogni tanto nelle città fra le proteste di qualche sindaco contro il ministro dell’Interno intenzionato non a scappare ma a vincerla, una volta che l’amministrazione locale l’ha di fatto incoraggiata condividendo le motivazioni degli agitatori ormai professionisti, e a tempo perso pure razzisti.

         No, ripeto. Non siano in guerra. Ne siano solo circondati. Ma quelle foglie che cadono dagli alberi, spesso anche fuori stagione, nelle primavere elettorali e non solo nell’autunno di questa stagione conclusasi col voto in Veneto, Puglia e Calabria, sono un po’ come gli elettori che non votano. E non occasionalmente ma a posto, votando in fondo anch’essi ma a modo loro, contro tutti indistintamente i partiti e gli schieramenti nei quali si collocano.

         L’assenteismo è arrivato ormai alla consistenza di una maggioranza non relativa ma assoluta, come Giuseppe Conte, Roberto Fico ed Elly Schlein, in ordine alfabetico, più comprimari, hanno dimenticato  saltellando allegramente per la vittoria a Napoli, dove la partecipazione alle urne è scesa sotto il 40 per cento.  E per effetto di questo fenomeno la sinistra nel suo complesso ha potuto vincere un turno elettorale in una regione dove ha perso 800.000 voti: ottocentomila in lettere.   

         Un fenomeno, dicevo. Che non è di ordine sociale o persino penale, come l’ho visto trattare di recente su un cosiddetto grande giornale proponendo di ripristinare l’obbligatorietà del voto e la sanzionabilità di chi si sottrae. Magari riempiendo i campi di calcio requisiti come prigioni. Il fenomeno è solo e tutto politico. E i politici, professionisti o dilettanti che siano, di sinistra ma anche di destra, e pure del fantomatico centro letteralmente incapace di vivere da solo, in qualsiasi combinazione improvvisata a ridosso del voto, debbono decidersi ad affrontarlo.

         Poiché non si può naturalmente tornare alle pratiche clientelari del compianto armatore Achille Lauro proprio a Napoli, distribuendo una scarpa prima del voto e l’altra dopo, bisogna affrontare il toro per le corna. Cioè decidersi, ripeto, all’ennesima riforma della legge elettorale, anche a costo di fare rivoltare le ceneri di Indro Montanelli. Che di legge elettorale non voleva sentir parlare. E quando Mario Segni gli strappò l’attenzione e lo convinse a sostenerlo prima per l’’abolizione delle preferenze e poi per il passaggio al sistema maggioritario da quello proporzionale, gli procurò l’ultima, forse, e più grave crisi di depressione della sua vita.

         Nel marasma seguito a quella riforma con tanto di timbro, visto o permesso referendario il povero Montanelli cercò di trovare qualche consolazione personale, politica e culturale in qualche festa addirittura  dell’Unità, piuttosto che tornare a parlarne con l’ormai odiato, respinto Silvio Berlusconi, che pure gli aveva salvato il Giornale nel momento più difficile e pericoloso della sua diffusione.

Nell’ultima chiacchierata telefonica con Montanelli, le cui ceneri perciò penso che possano resistere alla scossa, raccolsi il pentimento per l’avventura maggioritaria e il rimpianto del proporzionale cui poteva e doveva bastare il premio di maggioranza voluto da Alcide De Gasperi, scambiato per “truffa” dai comunisti e non scattato per una manciata di voti di regolarità sospetta. Su cui il ministro dell’Interno Mario Scelba voleva che si facessero accertamenti nei modi dovuti, trattenuto però dallo stesso De Gasperi più per stanchezza forse che per paura, visto che sarebbe morto di lì a poco

         Il proporzionale, si dice ancora con una certa approssimazione, restituirebbe i partiti agli intrighi di palazzo, alle spalle degli elettori, facendone dipendere la formazione poi dei governi, generalmente di breve durata. Eppure di tutte le elezioni politiche alle quali mi è toccato di partecipare all’epoca del proporzionale, non ho mai visto il partito scelto nella cabina elettorale finire in una combinazione di governo che non avessi previsto, messo nel conto, condiviso.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.statmag.it il 29 novembre

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