Il caso Garofani, dal cognome del consigliere del presidente della Repubblica ascoltato e forse anche registrato mentre “chiacchierava” di politica in spirito di opposizione, diciamo così, con amici sportivi al ristorante, rimane nelle cronache politiche nonostante sia stato chiuso da Sergio Mattarella in persona e da Giorgia Meloni in un incontro chiarificatore. Che, non essendosi rivelato sufficiente per qualche ora, è stato seguito da un comunicato ufficiale del partito della premier di una chiusura ancora più esplicita, con la conferma della fiducia al Capo dello Stat, pur se non votato dalla destra -se non ricordo male- né la prima volta né dopo, al rinnovo del mandato.
Perché il caso sopravvive nelle cronache e nelle polemiche che si alimentano a vicenda? Esse saranno magari superate, augurabilmente, lunedì dai risultati delle elezioni regionali in Puglia, Campania e Veneto e dalle discussioni che ne deriveranno a livello nazionale perché chiudono un turno di votazioni locali in cui tutti i partiti si sono spesi come in una prova significativa di metà legislatura. Una metà un po’ abbondante perché sono ormai passati più di tre dei cinque anni della legislatura a maggioranza di centrodestra. O di destra-centro, come preferiscono dire orgogliosi a destra e preoccupati a sinistra.
Perché, ripeto, tanta ostinazione ad allungare il brodo di quella cena galeotta di Francesco Saverio Garofani? Per la speranza e quant’altro dei giornali di migliorare le vendite in edicole peraltro in calo anch’esse? Per i soliti esercizi muscolari di partiti e relative correnti? O, più semplicemente e sconsolatamente, per la responsabilità che abbiamo un po’ tutti noi del mestiere, diciamo così, chi più e chi meno, chi ingenuamente e chi malevolmente, di dipingere sempre più di giallo, in senso non cinese ma letterario, la politica e le sue cronache. Che pure nascono professionalmente bianche. In Cronaca, con la maiuscola, dove la generalità dei giornalisti si è fatta le ossa ce n’erano e dovrebbero essercene ancora di due colori: nera per raccontare i fattacci e bianca, appunto, per raccontare i fatti e fattacci politici e amministrativi locali. Un bianco diventato a livello anche nazionale sempre più giallo, né cinese -come ho già scritto- né pontificio. Cui posso avere contribuito anch’io, per carità, almeno una decina di migliaia di volte in una sessantina d’anni di professione.
In politica tutto ha, deve avere, anche se in realtà non lo ha o non l’ha più, un sommerso: una cronaca senza retroscena, senza sospetti, senza problematicità, senza un peccato di indovinamento di memoria andreottiana, è considerata una minestra sciapa, senza sale.
Così il Garofani dello “scossone”, o qualcosa di simile, di cui avrebbe bisogno l’opposizione, al singolare, per diventare davvero alternativa e scongiurare prima la vittoria elettorale della Meloni fra due anni e poi, dopo altri due, la sua ascesa in carne e ossa, non in spirito, al Colle più alto di Roma, si è materializzato in una mail di un certo banale, banalissimo Mario Rossi alle redazioni dei giornali per riconoscere, sottolineare e quant’altro la debolezza della segretaria del Pd Elly Schlein nell’allestimento del cosiddetto campo largo. Di cui del resto il potenziale alleato Giuseppe Conte, con l’aureola delle cinque stelle del suo movimento, non vuol sentire neppure parlare. O si è forse voluto fare emergere, capire la sofferenza che costerebbe al presidente della Repubblica la dovuta convivenza istituzionale con una Meloni carina ma troppo di destra e persino borgatara. O si è cercato di mettere una zeppa clamorosa fra presidente e premier facendo perdere la testa al capogruppo parlamentare della destra alla Camera Galeazzo Bignami, che ha fatto sostanzialmente da sponda a un “piano”, complotto e simili avvertiti o denunciati dalla Verità di Maurizio Belpietro. O addirittura -udite, udite- si è voluto fare esplodere all’interno del centrodestra una concorrenza spietata fra gli aspiranti al Quirinale del 2029: la Meloni, il suo ministro della Difesa e collega di partito Guido Crosetto, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, il ministro della Giustizia Carlo Nordio, specie se la sua riforma della magistratura dovesse superare il referendum confermativo di primavera. Nordio, d’altronde, è già stato una volta il candidato cosiddetto “di bandiera” della destra al Quirinale.
La squadra di centrodestra della prossima corsa al Quirinale, sempre stando alla cronaca gialla della politica, è ancora più nutrita. Mi fermo qui solo per ragioni di spazio, non per fare torto a qualcuno.
Pubblicato sul Dubbio