Quelle partite curiosamente parallele del Conte 3 e del Casalino 2

         La nuova avventura umana e professionale dell’ormai ex portavoce di Giuseppe Conte, Rocco Casalino, non è ancora cominciata, ferma agli annunci e alle promozioni più o meno amichevoli, e già si avvertono segnali non dico critici, ma problematici. O che tali potrebbero diventare.

         Andrea Iervolino, il produttore cinematografico che sarà l’editore del giornale on line, forse anche in edizione cartacea in un secondo momento, ha concesso a Repubblica un’intervista nella quale ha tenuto a precisare, assicurare e quant’altro che “io non fare mai un giornale di partito”. Come qualcuno sospetta invece pensando naturalmente al MoVimento 5 Stelle e al suo presidente già premier due volte e in corsa per una terza edizione, se e quando dovesse realizzarsi l’alternativa al centrodestra per la quale lavora con dichiarata “testardaggine unitaria” la segretaria del Pd Elly Schlein pensando di poterla guidare lei stessa.

         “Io voglio un giornale onesto, che dica le cose come devono essere dette con piena libertà”, ha aggiunto l’editore. Che tuttavia -va osservato con onestà pensando alle tentazioni che potrà avere Casalino da direttore- ha usato parole di una certa, evidente elasticità, diciamo. “Le cose vanno dette” non per come sono realmente, magari separando i fatti delle opinioni secondo una vecchia regola della professione giornalistica e dell’editoria, ma “come devono essere dette con piena libertà”. Che è anche quella -la libertà- di vedere le cose come si vuole, come si preferisce, come conviene. Cosa che fanno appunto i giornali di partito.  

Andrea Iervolino, 37 anni, ha già viste e vissute situazioni personali difficili -nella cui rappresentazione critica da parte di chi non gli vuole bene, o non gliene vuole abbastanza, ha tenuto a lamentarsi anche nell’intervista concessa a Repubblica– e si presume che altre potrà sperimentarne come editore. Gli potrà quindi anche toccare l’esperienza di dovere rispettare la libertà, ripeto, di Rocco Casalino di ritrovarsi, se mai ha smesso, in sintonia con Conte, col quale del resto ha tenuto in questi giorni a confermare condivisione e simpatia conoscendone le ambizioni.

         Staremo naturalmente a vedere, sentire e scrivere.  Starà a vedere e pensare naturalmente anche Conte, penso, seguendo e vivendo il suo Casalino 2, come il Conte 2 di cui Rocco fu portavoce tentando persino, già allora, di promuoverne e gestirne un terzo, senza però riuscirvi perché a Palazzo Chigi arrivò, anzi irruppe, non avvertito come la Schlein al Nazareno, un certo Mario Draghi reduce dall’esperienza di presidente della Banca Centrale Europea. Draghi detto anche semplicemente Supermario, tutta una parola.  

Il Pantheon minore del no referendario alla riforma della giustizia

I falsi e le manipolazioni cui sono ricorsi i sostenitori del no referendario alla riforma della giustizia approvata dalle Camere derivano dal Pantheon minore di cui in realtà essi dispongono nella campagna avviata con largo anticipo rispetto ai tempi di legge.

         Se togliete dal Pantheon referendario figure eccellenti ed eroiche come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ai vari Gratteri, Bruti Liberati, Caselli e dirigenti attivi dell’associazione nazionale dei magistrati rimane solo il ricordo o il fantasma dello scomparso presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Non il massimo per essere stato fra i capi dello Stato succedutisi al Quirinale, e alla presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, fra i meno popolari per la torre d’avorio in cui aveva finito per chiudersi nell’esercizio delle sue funzioni. Una torre che aveva aperto, proprio avviando il suo mandato presidenziale con la gestione della prima crisi di governo capitatagli in sorte, all’allora capo della Procura della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli. Il quale, figlio peraltro di un amico e collega di Scalfaro in magistratura, salì sul Colle per le consultazioni pur non essendo un segretario di partito, capogruppo parlamentare e affini. Era solo il più alto in grado della squadra giudiziaria delle cosiddette mani pulite, impegnata contro il finanziamento tanto illegale quanto generalizzato della politica e sulla corruzione che poteva esserne scaturita: molto meno delle accuse, visto l’esito dei processi che ne sarebbero derivati. Per non parlare di quelli ai quali neppure si arrivò pur dopo il ricorso a clamorosi arresti “cautelari”, eseguiti sotto i riflettori di truppe televisive allertate in tempo. Storie, allora, di ordinaria macelleria mediatica al cui solo ricordo mi chiedo ancora perchè e come non fosse stata impedita da chi poteva e doveva.

         Quando qualcuno tentò di intervenire, come la buonanima dell’allora ministro della Giustizia Filippo Mancuso, alto magistrato ormai in pensione, disponendo un’ispezione ministeriale presso la Procura milanese e uffici limitrofi, Scalfaro fu tra i primi a dissentire, non lasciando solo Borrelli che protestava e annunciava un sostanziale boicottaggio di quella che lui considerava una incursione. Le polemiche che ne derivarono sfociarono al Senato in una mozione di sfiducia personale contro il guardasigilli, scaricato anche dal presidente del Consiglio Lamberto Dini, e alla fine rimosso col beneplacito della Corte Costituzionale cui Mancuso aveva fatto inutilmente ricorso.

         Ebbene, è stato proprio Dini a rivelare in questi giorni, in una intervista a favore del sì alla riforma della giustizia sottoposta a procedura referendaria, di avere condiviso -evidentemente a prescindere dal caso increscioso di Mancuso, che del resto non gli aveva fatto sconti nelle polemiche- la prospettiva di una separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri per coerenza con il processo penale di rito cosiddetto accusatorio introdotto negli anni passati. Egli arrivò a parlarne con Scalfaro, che gli disse di non occuparsene essendo materia troppo delicata per un governo sostanzialmente tecnico com’era quello che gli aveva permesso di fare, dopo la prima caduta di Silvio Berlusconi, per ritardare le elezioni anticipate che il Cavaliere reclamava entro qualche mese. E arrivarono invece dopo più di un anno, quando le opposizioni si sentirono abbastanza preparate all’ombra dell’Ulivo– ricordate?- e dell’investitura di Romano Prodi a candidato a Palazzo Chigi. Che infatti vinse, anche se governò per meno di due anni. E dopo altri dieci sarebbe poi tornato, sempre per beve tempo.

         Il coperchio sulla pentola del no opposto a Dini tentato dalla separazione delle carriere Scalfaro lo mise promettendo pubblicamente ai magistrati, ospite di un loro congresso, che mai, dico mai, avrebbe controfirmato e promulgato una legge sulla separazione delle loro carriere. Sono trascorsi trent’anni. Che sono tanti, anche troppi, ma forse passati non inutilmente se in primavera prevarrà il sì referendario.

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