La disinvolta celebrazione di Giorgio Forattini sulla Repubblica di carta

         Li aspettavo al varco e sono arrivati puntuali come i treni svizzeri sui quali la buonanima di Giulio Andreotti scherzava quando scriveva del “Napoleone di turno” che si proponeva di imitarli in Italia.

I colleghi di Repubblica -quella di carta, distinta e distante da quella rappresentata e vigilata al Quirinale dal presidente Sergio Mattarella con i suoi corazzieri- hanno celebrato con disinvoltura olimpica il vignettista Giorgio Forattini scomparso a 94 anni. Lo hanno celebrato in due pagine richiamate in una “spalletta” in prima, tipograficamente parlando, come se lui avesse fatto parte della loro squadra sino all’ultimo. E non costretto invece nel 1999 ad allontanarsene dopo un po’ di vignette censurate dal fondatore, direttore e quant’altro Eugenio Scalfari. Che non ne poteva più di sopportare le reazioni di amici soprattutto eccellenti che si lamentavano di essere messi alla berlina dall’ormai re indiscusso della satira, alcuni cercando persino di guadagnarci sopra con querele. La più famosa delle quali resta quella dell’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema, sprezzante come al solito della impopolarità che poteva derivargli. E ne derivò, anch’essa puntuale come un treno svizzero, piacendo al pubblico lo scapigliato Forattini molto di più di lui, per quanto primo e unico post-comunista passato per Palazzo Chigi nella storia della Repubblica, quella vera.      

Quando D’Alema alla Bicamerale delle riforme sostenne la separazione della carriere giudiziarie

In una lunga intervista stesa su due pagine del Corriere della Sera ben meritate, per carità, trattandosi di un esponente storico della sinistra italiana, Massimo D’Alema ha ritrovato una memoria altrettanto lunga di politica internazionale. Carente tuttavia, a dir poco, di politica interna, con particolare riferimento agli argomenti, anzi all’argomento di maggiore attualità in questi giorni: il referendum in arrivo sulla riforma costituzionale della giustizia approvata in via definitiva la settimana scorsa con la quarta votazione del Senato.

         In politica estera, ancora orgoglioso della recente partecipazione come invitato personale al raduno a Pechino dei vertici dell’”ottanta per cento dell’umanità”, per cui gli assenti avrebbero dovuto vergognarsi piuttosto che stupirsi e polemizzare sulla sua presenza, D’Alema ha raccontato i bei tempi in cui anche grazie a lui l’Italia sarebbe stata fra i protagonisti. Altro che adesso -ha sarcasticamente osservato- con la premier Giorgia Meloni “infilata” nelle foto dei vertici internazionali.

         In particolare, l’ex presidente del Consiglio, a capo di due governi in meno di due anni, fra l’autunno del 1998 e la primavera del 2000, portò l’Italia alla partecipazione alla guerra della Nato nei Balcani, quando da sinistra lo accusarono di avere aggirato il Parlamento. Poi la portò  ad intervento di tutela e rafforzamento della pace in Libano ricorrentemente esposto ai conflitti. Infine ad una partecipazione, per quanto di turno, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Bei tempi, certo, anche sorprendenti per un uomo del passato di D’Alema, “formatosi” alla scuola comunista, come lui stesso ha voluto ricordare parlando del suo presente di “pensionato indipendente”. Come Giuseppe Conte dice abitualmente di sé come “progressista”.

         In politica interna, dicevo, la memoria dell’ex premier -l’unico post-comunista riuscito a passare per Palazzo Chigi, spintovi nel 1998 dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga- la memoria di D’Alema si è accorciata, o spenta.  Non una parola, in particolare, egli ha voluto spendere sul tempo in cui, su designazione persino di Silvio Berlusconi dal fronte opposto, gli capitò di presiedere una commissione bicamerale sulla riforma della Costituzione, fra il 1997 e il 1998. Quando, confortato dall’adesione di compagni di partito come Claudio Petruccioli e Cesare Salvi, che ne sono anche di recente vantati, e guardato a vista con sorpresa e disappunto dall’ancora potente Procura della Repubblica di Milano, egli aprì alla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Si, proprio la separazione, con altri aspetti della riforma arrivata sul binario referendario, su cui stanno guerreggiando tutti i partiti, alcuni dividendosi pur dietro una facciata rumorosa di no. Come proprio il Pd, dove D’Alema è tornato dopo esserne uscito contestando l’allora segretario Matteo Renzi.

         Mi sarebbe personalmente piaciuto leggere D’Alema oggi sulla giustizia e dintorni, diciamo così. Ma la curiosità mi è rimasta nel gozzo. E non posso neppure pensare di poterla soddisfare arrampicandomi sugli specchi di una interpretazione estensiva di un passaggio dell’intervista di D’Alema sul suo ritrovato Pd. Dove egli riconosce alla segretaria in carica Elly Schlein, per quanto contraria alla separazione delle carriere, o forse proprio per questo, “passione e spirito unitario”, ma osserva sconsolato che “il Pd farebbe bene a elaborare una risposta ai problemi molto seri che abbiano avanti”. Una risposta evidentemente mancante. E ditemi voi se è poco. E se la Schlein, leggendo anche lei, non abbia avuto motivo di rimanere in fondo sorpresa. Diavolo di un D’Alema sempre imprevedibile.

Pubblicato su Libero

Grazie a Giorgio Forattini per i suoi…racconti ironici e garbati della politica

         Riconosco al compianto Giorgio Forattini, appena scomparso a 94 anni, il merito di averci- scusandomi del presuntuoso plurale- tanto a lungo fatto sorridere, non ridere della politica. Che lui raccontava e insieme spiegava e commentava nelle sue vignette impietosamente ma con tanto garbo quanto acume, ironia, mai sarcasmo ostile. Che invece qualche volta il pur amico ed estimatore Eugenio Scalfari, sulla sua Repubblica, avvertiva e gradiva così poco da censurarlo.

         Non c’era in lui sconcezza neppure quando avvolgeva nella sua abbondante nudità l’amico Giovanni Spadolini. Che, per quanto spesso permaloso nel sentirsi criticare o attaccare, a Forattini chiedeva addirittura gli originali delle vignette che lo riguardavano per conservarle e gustarsele perché riconosceva in quella nudità quasi fanciullesca “l’odore di bucato” raccontato da Indro Montanelli nel sostenerlo elettoralmente a Milano come candidato al Senato. Prima che gli preferisse, e facesse preferire a molti suoi lettori la Dc, pur turandosi il naso, per evitarne il sorpasso da parte del Pci.

         Un altro che chiedeva, o faceva chiedere a Forattini gli originali di qualche vignetta in cui era disegnato particolarmente curvo nelle sue spalle, con una gobba allusiva ai segreti che custodiva, era Giulio Andreotti. Che ogni tanto si guadagnava dal vignettista anche una coda rossa di Belzebù sporgente dal suo abito rigorosamente nero.

         Non gradì invece, sino a denunciarlo e a farlo allontanare da Repubblica, Massimo D’Alema di vedersi proposto al pubblico come un presidente del Consiglio impegnato a sbianchettare una lista di ex spie politiche italiane dei tempi dell’Unione Sovietica. Se ne scrisse e se ne parlò per qualche mese per i documenti che uscivano ogni tanto dagli archivi segreti di Mosca pagandone i custodi con qualche centinaio o migliaia di dollari.

         Non aveva gradito nel 1974 neppure Amintore Fanfani, disegnato da Forattini come il tappo di una bottiglia di champagne saltato via con la conferma del divorzio nel referendum abrogativo fortemente voluto e sostenuto dall’allora segretario della Dc. Che il predecessore ed ex delfino Arnaldo Forlani, sempre come segretario del partito scudocrociato, aveva prudentemente fatto rinviare due anni prima, sino a preferirgli le elezioni anticipate.

         Non avrebbe gradito più di venti anni dopo neppure il segretario del Pci Enrico Berlinguer avvolto da Forattini in una vestaglia molto borghese, e spaventato con i capelli irti appunto di paura, sentendo arrivare dalla finestra i fischi e le urla di un corteo di protesta dei metalmeccanici in sciopero contro un governo di Andreotti interamente democristiano e sostenuto dai comunisti con l’astensione. Che poi sarebbe paradossalmente diventato voto di fiducia vero e proprio a chiusura di una crisi aperta dallo stesso Berlinguer per far sentire di più il peso del suo partito nella cosiddetta maggioranza di “solidarietà nazionale”. Che era la versione riduttiva del “compromesso storico” proposto dal Pci per partecipare al governo, non per appoggiarlo da fuori.

         Grazie, carissimo Giorgio, di averci così tanto e così a lungo divertiti con la misura del tuo stile inconfondibile e  l’acutezza, ripeto, superiore a tante nostre  cronache, a tanti nostri retroscena, a tanti nostri editoriali. Grazie anche di avere a suo tempo rimproverato alla sinistra di essere stata l’unica ad attaccarlo e a creargli problemi.

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