Il processo di Travaglio a Di Pietro per il suo sì alla riforma Nordio

         Asserragliato nel suo archivio come in trincea, senza neppure togliersi il casco trattandosi di una guerra di carta, Marco Travaglio ha sparato un po’ di proiettili o di chiodi contro Antonio Di Pietro, che una volta sommergeva di elogi e di ammirazione ospitandolo come un eroe alle feste del suo Fatto Quotidiano. Dove raccontavano in due, passandosi la palla, segreti e meraviglie di “mani pulite”. Così si chiamavano, e si chiamano ancora, le inchieste giudiziarie dei primi anni Novanta sull’abituale, generalizzato finanziamento illegale dei partiti e sulla corruzione che poteva averlo spesso, non sempre accompagnato, come da assoluzioni ottenute poi nei processi da parecchi imputati.

         A Di Pietro un Travaglio appuntito e, lo ammetto, documentatissimo dalla testa ai piedi, ha rinfacciato dichiarazioni e quant’altro, fra il 2000 e il 2013, contro la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Che oggi invece l’ex magistrato un po’ simbolo delle già ricordate “mani pulite” sta difendendo anche nella campagna referendaria ormai giù cominciata contro la riforma costituzionale della giustizia approvata dal Parlamento. O riforma della magistrratura, come preferisce definirla Di Pietro,  Una difesa animata, come tutte le cose di “Tonino”, tra parole, concetti e smorfie, dagli attacchi dell’associazione nazionale dei magistrati, di cui l’ex sostituto procuratore della Repubblica si vanta di non avere mai fatto parte, conoscendone la politicizzazione derivante dalle correnti simili a partiti.

         Pur con tutta la sua documentazione, o proprio a causa di essa, e con la vigilanza professionale che esercita, Travaglio alla fine della sua rassegna dei no di Di Pietro alla riforma che invece oggi sostiene, si è chiesto chi, come e perché abbia convinto del contrario l’ex magistrato. Al quale ha quindi negato la capacità, possibilità e quant’altro di cambiare opinione da solo. Magari convinto solo dagli errori, eccessi eccetera compiuti dagli ex colleghi almeno da dodici anni a questa parte, risalendo al 2013, ripeto, le sue ultime dichiarazioni contro la separazione delle carriere. Cui  si  è aggiunto dell’altro nella riforma intestatasi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio –“Mezzolitro”, lo chiama il direttore del Fatto Quotidiano– e definita orgogliosamente “storica” dalla premier Giorgia Meloni.

         “Chissà cosa è successo”, si è chiesto Travaglio prima di firmarsi. E’ successo semplicemente, o odiosamente per il sorpreso, incredulo giornalista, che Di Pietro ci ha ripensato, essendo un uomo dotato di cervello e non un paracarri dotato solo di cemento, magari armato.  

Più che sui magistrati, si voterà su chi deve governare l’Italia

A prima vista, considerandone i titoli, il referendum in arrivo sulla giustizia si ricollega a quello del 1987 sulla responsabilità civile delle toghe. Per evitare il qualela Dc di Ciriaco De Mica provocò la crisi del governo di Bettino Craxi e la fece chiudere, con l‘aiuto del Pci di Alessandro Natta, con le elezioni anticipate.

Seguì il rinvio della prova referendaria, ma di pochi mesi, con uno strappo alla regola di almeno un anno imposto dal pur perdente Craxi. Che si prese la rivincita, con i radicali di Marco Pannella che lo avevano promosso assieme ai socialisti, vincendo il referendum voluto per far cessare il privilegio dei magistrati di non rispondere dei danni che procuravano.  Ma fu purtroppo una rivincita effimera, perché la irresponsabilità civile dei magistrati fu di fatto reintrodotta con una legge scrittasi dai magistrati al Ministero della Giustizia col permesso della buonanima del guardasigilli pur socialista Giuliano Vassalli.

         A prima vista, dicevo, si torna al 1987. Ma, se non ci si lascia distrarre dai titoli e si scende alla sostanza delle cose, il referendum in arrivo sulla riforma intestata a Carlo Nordio che la premier Giorgia Meloni ha giustamente definito “storica”, è paragonabile a quello del 1985 su tutt’altro argomento apparente: i tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari, apportati nel 1984 dal governo Craxi. Più che su quei tagli, peraltro modesti quantitativamente ma contestati dal Pci ancora di Enrico Berlinguer sino ad imporre al pur recalcitrante segretario generale della Cgil Luciano Lama la promozione di un referendum abrogativo, il referendum era su chi potesse e dovesse governare in Italia. Se il governo, appunto, in un sistema parlamentare, con la fiducia delle Camere, o per i temi sociali i sindacati e il Pci. Vinse l’anno dopo, anzi stravinse Craxi, con Berlinguer ormai morto.  Fra le poche località in cui Craxi non vinse cu fu Nusco, il paese irpino di De Mita, che nella campagna referendaria aveva speso poche parole, anzi nessuna.  

 Seguì una crisi irrecuperabile del Pci, finito poi fra le macerie del muro di Berlino pur dopo gli effimeri guadagni politici ricavati della rivoluzione giudiziaria delle cosiddette mani pulite.

         Meloni con questo referendum in arrivo, 40 anni dopo una stagione che la vedevano allora solo bambina, cresciuta però in fretta e abbastanza, intende ristabilire col referendum in arrivo chi governa in Italia in tutti i sensi: se il governo, appunto, o i magistrati e corifei che l’accusano di volere “pieni poteri”. Quelli che il primo sottosegretario della premier, Alfredo Mantovano, con l’esperienza che gli deriva anche dalla professione giudiziaria a lungo esercitata, ha spiegato bene in cinque minuti, l’altra sera con Bruno Vespa dopo il Tg1, detiene ed esercita invece la magistratura con la carriera unica di giudici e pubblici ministeri. E con il Consiglio Superiore della Magistratura praticamente gestito dalle correnti del sindacato-partito delle toghe, anche nei suoi aspetti disciplinari.

         E’ questa realtà, nella quale la magistratura è cresciuta dopo aver messo nell’angolo la politica una trentina d‘anni fa col pretesto di combattere la corruzione derivante direttamente o indirettamente dal finanziamento illegale dei partiti; è questa realtà, dicevo, che la Meloni ha deciso di mettere in discussione con la riforma appena approvata in Parlamento e col referendum che seguirà.  E lo ha fatto con più coraggio ancora di Craxi sul piano sociale e sindacale, perché questo referendum è confermativo, senza quorum e altre assicurazioni, e non abrogativo, come quello di 40 anni fa sui tagli alla scala mobile dei salari. Avete capito la premier, anzi il presidente del Consiglio come la Meloni vuole essere chiamata, al maschile? Cammina nella politica interna con lo stesso passo della politica estera. E il Pd cammina come il Pci del 1984-85, anche se la segretaria Elly Schlein mostra di non accorgersene. E fa spallucce a chi invece se ne accorge e lamenta al Nazareno e dintorni.

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