La scommessa di Bersani sulla “generosità”…di Conte

Pier Luigi Bersani, che mi riesce dannatamente simpatico anche quando non mi trovo d’accordo, con lui, con o senza le metafore che produce o replica nei salotti televisivi, fra mucche nei corridoi e nelle stanze del Pd, tacchini sui tetti, bambole da pettinare e giaguari da smacchiare sugli scogli come se fossero pinguini pluricolorati, si è appena guadagnato l’ironia del nostro Massimo Costa per la gara che ha aperto, in una intervista a Repubblica, su come chiamare  l’aspirazione       all’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Non certamente “campo largo” perché troppo “campestre”, per quanto in linea col richiamo alla natura agreste della quercia al posto della falce e martello, o dell’ulivo di Romano Prodi dal raccolto sempre magro, e dal sapore un po’ acido, data la durata abitudinariamente breve dei governi del professore, lesto a vincere su Berlusconi ma anche a cadere in Parlamento con inutili sfide ai numeri delle sue maggioranze.

         Ma più che sulla scommessa sul nuovo nome da dare, ripeto, all’ambizioso progetto dell’alternativa, mi ha colpito del penultimo Bersani – mettendone nel conto un altro, forse prima ancora della pubblicazione di questo articolo- la scommessa che ha fatto sulla “generosità” di amici e compagni per venire a capo anche del problema della leadership antimeloniana. Che è oggi contesa almeno fra la segretaria del pd Elly Schlein e il presidente del movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, per non scrivere e parlare di tutti gli altri che vengono fuori da cronache e retroscena come funghi dal bosco dopo una pioggia.

         Alla voce generosità corrisponde nel dizionario di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli “nobiltà d’animo che comporta il sacrificio dell’interesse o della soddisfazione personale di fronte al bene altrui”. Non quindi di fronte al bene generale, ma più semplicemente, banalmente “altrui”, cioè di un altro. Vasto programma, diceva dall’alto dei suoi quasi due metri di altezza la buonanima del generale e presidente francese Charles De Gaulle.

         Se non proprio al binomio volgare di “sangue e merda” evocato a suo tempo dall’allora ministro socialista Rino Formica per rappresentarla, la politica va quando meno abbinata quanto meno ad un pranzo per niente di gala. E’ lotta di forza e astuzia, generalmente senza sconti e senza gratitudine, che rimane “il sentimento del giorno prima”, come lo chiamò Enrico De Nicola. Figuriamoci quindi se si può scommettere, come vorrebbe Bersani, sulla generosità.  Che è qualcosa di privato, di intimo, non di pubblico o di politico.

         Anche Alcide Gasperi, di cui si ricorda sempre la rinuncia storica a usare da solo il grandissimo patrimonio elettorale della Dc nel 1948 preferendo governare con gli alleati di centro, non fu certo mosso dalla generosità. Piuttosto dalla lungimiranza, che coniugava e coniuga generosità e convenienza. Applicata poi al centrosinistra, con e senza trattino, alla “solidarietà nazionale” costata ad Aldo Moro persino la vita nel 1978, e alla stagione del pentapartito, estesa ai librali e troncata dal sostanziale ghigliottinamento giudiziario della cosiddetta prima Repubblica. Un’altra stagione, quella della ghigliottina, in cui nessuno praticò la generosità, tutti solo la convenienza.

         Stento francamente a immaginare, nonostante la bonomia di Bersani e le sue metafore ad una soluzione caritatevole dei problemi che angustiano il campo largo, o come altro finirà per essere chiamato seguendo gli auspici dell’ex segretario del Pd. Che a suo tempo, spiazzato dall’irruzione della comicità nella politica col successo delle 5 stelle grilline, si inventò da presidente del Consiglio incaricato -o “pre-incaricato”, come precisò il presidente della Repubblica Gorgio Napolitano passando ad un altro- il progetto di un governo di “minoranza e combattimento”. I grillini gli risero praticamente in faccia. Napolitano invece divenne ancora più calvo, pur rimanendo amico di Bersani.  E Bersani, credo, amico suo ed ex compagno.

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Quegli occhi sempre puntati sul Quirinale di Sergio Mattarella

         Abbiamo rischiato un altro caso Garofani, ma più grave e clamoroso dell’altro chiuso con un chiarimento diretto fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. E con la blindatura del consigliere del Capo dello Stato, Francesco Saverio Garofani appunto, sorpreso in un ristorante romano terrazzato con vista su Piazza Navona, a “chiacchierare” di politica -parola sua- con un po’ di amici tifosi della Roma calcistica.  E di come sventare, scongiurare e quant’altro la successione della Meloni a Mattarella fra quattro anni, quando scadrà il secondo mandato del presidente.

         Questa volta non Garofani ma lo stesso Mattarella è stato tirato in causa, in particolare dall’ex ministro Gianfranco Rotondi, irriducibile democristiano rifugiato parlamentarmente nei fratelli d’Italia della Meloni. Che ha raccontato ad Augusto Minzolini, un confessore laico notissimo nell’ambiente politico, di un incontro con ex deputati e senatori ai quali Mattarella avrebbe confidato la indisponibilità a controfirmare un’altra legge elettorale a ridosso di elezioni, ordinarie o anticipate che possano essere. In effetti -va riconosciuto- è una pratica che contrasta anche con direttive europee, o simili.

         Il Quirinale stavolta ha smentito seccamente con una lettera al Giornale senza farselo chiedere da nessuno, né in privato né in pubblico, magari fra quanti stanno lavorando neppure tanto dietro le quinte per varare l’ennesima riforma elettorale alla vigilia delle ennesime votazioni per il rinnovo delle Camere.

Per difetto di comunicazioni fra amici e colleghi di area, diciamo così, il direttore della Verità Maurizio Belpietro ha ignorato la smentita al Giornale e costruito sul racconto di Rotondi un’altra puntata di prima pagina sui “piani” d’intralcio del Quirinale contro percorsi, progetti, interessi di governo, veri o presunti sia gli uni che gli altri. Uno scoop improprio, diciamo così, moltiplicato dall’assenza in edicola di molti altri giornali per uno sciopero di protesta contro il mancato rinnovo, da una decina d’anni, del contratto di lavoro, ma un po’ anche contro il governo per la coincidenza col blocco del traffico locale ed altro motivato dai sindacati cosiddetti di base con argomenti contro la politica economica, sociale, internazionale della Meloni.

Il venerdì nero, anzi nerissimo, del giornalismo italiano

         Già infelicemente, a dir poco, programmato nello stesso giorno dello sciopero generale dei trasporti e altro contro il governo, scegliendo peraltro il solito venerdì di allungamento del week end, lo sciopero dei giornalisti per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro scaduto dieci anni fa avrebbe dovuto essere sospeso immediatamente alla notizia dell’assalto alla sede della Stampa a Torino, Che è stato compiuto da un centinaio di dimostranti staccatisi da un corteo di sostegno allo sciopero generale.  Dimostranti provvisti di letame e bastoni che hanno aggiunto alle motivazioni dell’ignobile iniziativa contro una redazione peraltro vuota proprio per lo sciopero dei giornalisti in corso la rivendicazione della liberta della Palestina dal Giordano al mare, con annessi e connessi. Compresa la difesa di un iman fondamentalista.

         Il sindacato dei giornalisti oltre alla protesta levatasi anche dalle istituzioni e dalla politica, avrebbe dovuto revocare lo sciopero per consentire anche solo simbolicamente, con poche copie di un numero straordinario dei giornali, a cominciare dalla stessa Stampa, la dignità e la forza della professione. Lo sciopero d’altronde aveva già diviso la categoria in numerose redazioni dove si è regolarmente lavorato non condividendo anche il momento scelto per l’astensione dal lavoro. Un momento di commistione per niente opportuna con una campagna in corso contro il governo che sfocerà in uno sciopero generale proclamato dalla Cgil per il 12 dicembre, sempre di venerdì. 

         Ma oltre che di venerdì, il 12 dicembre prossimo sarà il 54.mo anniversario preciso della famosa strategia della tensione esplosa con la bomba che provocò nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura 17 morti e 88 feriti. 

         Il calendario è semplicemente da brividi, nel quale è tanto incredibile quanto grave che il sindacato dei giornalisti sia finito coinvolto scioperando nel contesto, ripeto, di un’offensiva politica contro il governo. E ciò mentre la controparte dei giornalisti per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro è costituita non dal governo ma dagli editori. Non tutti, per giunta, perché tra di loro ce ne sono alcuni, come quello della Sicilia di Catania, difesi dai giornalisti rifiutando di scioperare. Con molti altri di testate di diffusione nazionale.  

         Quello appena trascorso può ben essere considerato e definito il venerdì nero del giornalismo italiano. Nerissimo.

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Fra gli scacchi della Meloni e della Schlein e le mine di Conte

Seguivo ieri la cronaca quasi in diretta di Mario Sechi della partita a scacchi fra la premier Giorgia Meloni e la segretaria del Pd Elly Schlein e cercavo nei miei ricordi, di cui sono un po’ prigioniero, lo confesso, qualcosa che le assomigliasse. Una ricerca intensificata con la richiesta amichevole e incoraggiante del direttore di “storicizzare” lo scacco matto subìto dalla Schlein, che pensava di guadagnarsi con la partecipazione alla prossima festa nazionale della destra meloniana e il confronto diretto chiesto con la premier i gradi, diciamo così, di antagonista principale o addirittura solitaria, e si è invece procurata la conferma di un’aspirante alquanto improbabile a Palazzo Chigi.

         Ho cercato e ricercato nella memoria fra le tante crisi di governo e di partiti che mi è toccato di seguire, raccontare e commentare in una sessantina d’anni di professione, e non vi ho trovato, per brevità della partita e chiarezza del risultato, qualcosa di analogo.  La Meloni ha sorpassato persino il mio amico Pier Ferdinando Casini, celebrato ancora nella letteratura politica, fra interviste, chiacchierate e libri, come Piefurby, il campione cioè della furbizia, che lo ha portato a diventare il decano del Parlamento a 70 anni neppure compiuti. Li festeggerà fra pochi giorni, il 3 dicembre. Per cui profitto dell’occasione per fargli gli auguri e ricordarlo ancora quando mi raccontava con una mimica eccezionale le riunioni di corrente della Dc in cui riusciva con una battuta, o una domanda indiscreta, a far perdere letteralmente la testa all’allora segretario del partito Flaminio Piccoli, che già era un po’ fumantino di suo per carattere.

         Eppure di volate, inseguimenti, sgambetti, agguati e simili ne ho visti. Nella Dc di Casini, ripeto, ma soprattutto di Fanfani, Moro, Andreotti, De Mita, Donat-Cattin. Nel Pci, pur protetto dal famoso “centralismo democratico”, e dalla relativa disciplina, di Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Alessandro Natta e Achille Occhetto, ultimo segretario. Non parliamo poi del Psi di Pietro Nenni, Giacomo Mancini,  Francesco De Martino e persino Bettino Craxi, in cui le correnti furono a tratti ancora più numerose ed effervescenti, a dir poco, di quelle della Dc di tre volte più votata. Persino nel Psdi di Giuseppe Saragat, nel Pri di Ugo La Malfa e nel Pli di Giovanni Malagodi le correnti facevano avvertire i loro spifferi e far saltare la pazienza ai rispettivi leader.

         Non parliamo neppure di tutti questi partiti alle prese non con qualcuna delle ricorrenti crisi interne o di governo, ma con le corse al Quirinale che finivano con l’elezione, spesso imprevista, di un Presidente della Repubblica, con tutte le maiuscole dovute, ma ricominciavano già il giorno dopo, o quasi, giusto per non far passare nella monotonia i sette anni del mandato. Arrivati al record di quattordici con Sergio Mattarella.

         Ma bando ai ricordi e alle chiacchiere. E vediamo con i piedi ben piantati nell’attualità l’effetto ottenuto dalla Meloni prima invitando la Schlein alla festa dei fratelli d’Italia, poi accettandone la sfida a un confronto in diretta, come se fosse- ripeto- la sua unica o principale antagonista,poi chiedendo di estendere per logica e cortesia il confronto anche a Giuseppe Conte, che a Palazzo Chigi già c’è stato due volte e vuole quanto meno tentare di tornarci, e infine provocando una specie di crisi di nervi politici -tutti politici, per carità- della segretaria del Pd. Che ha avvertito il rischio per niente “ridicolo”, come ha detto, di uscire malconcia da un confronto a tre e si è tirata indietro fra i sorrisi compiacuti e muti, naturalmente, del presidente del movimento 5 Stelle già su di giri per avere portato Roberto Fico alla presidenza della regione Campania in condizioni un po’ migliori, francamente, di Alessandra Todde in Sardegna l’anno scorso.

         Il campo largo già sgradito dal diffidente Conte, che lo vorrebbe solo “giusto” per le sue ambizioni politiche, è soprattutto un campo minato. Minatissimo.

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La vignetta è di ItaliaOggi

Una partita clamorosa di trappole e reti fra Meloni, Schlein e Conte

         Pur alle prese con uno scenario internazionale da brividi, in cui si intrecciano paci improbabili e gravi allarmi, come il possibile ritorno in Europa alla leva militare, si vedrà poi se e come soltanto volontaria, Giorgia Meloni non si distrae di certo dalla politica interna. Dove ha segnato in poche ore, in una tempesta che sembrava in un bicchiere d’acqua, una rete da manuale infilandosi nella partita del campo largo che festeggiava con la solita enfasi le pur scontate vittorie della sinistra nelle elezioni regionali di Puglia e Campania.

         Quando la segretaria del Pd Elly Schlein, invitata a partecipare alla festa nazionale del partito di Giorgia Meloni a Roma, ha posto come condizione un confronto diretto con la premier, pensando di segnare con ciò un punto nella partita con Giuseppe Conte per la leadership della pur improbabile alternativa al governo, la Meloni le ha tirato un tiro in porta, ripeto, di quelli imparabili.

         In particolare, la premier ha controproposto alla Schlein, come condizione, di allargare il confronto a Conte, essendo anche lui un candidato alla sua successione a Palazzo Chigi, e non volendogli fare il torto, di calcolo o di cortesia, di agevolare l’immagine e la corsa della segretaria del Pd.  Che, anziché fare buon viso a cattivo gioco, come qualcuno al Nazareno avrebbe dovuto forse suggerirle, ha ceduto alla paura di uscire male da un confronto a tre, a vantaggio contemporaneamente della Meloni e di Conte come veri antagonisti. Ha ceduto sottraendosi alla partita come a una trappola e definendo “ridicola” la proposta della Meloni nel frattempo accettata da Conte. Al quale non era parsa vera l’occasione offertagli.

         Le tribune del campo cosiddetto largo si sono improvvisamente svuotate, un po’ come le urne elettorali, e la Schlein si è ritrovata a guardarsi più da Conte che dalla Meloni.

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Quel frutto dannatamente tossico dell’albero elettorale di Mario Segni

A Mario Segni, 86 anni compiuti a maggio, Mariotto come lo chiamava il padre Antonio, presidente della Repubblica fra il 1962 e il 1964, e come lo chiamano tuttora familiari e amici, fra i quali il sottoscritto, saranno fischiate le orecchie in questi giorni in cui si sprecano analisi e proposte per l’astensionismo elettorale tradottosi nel partito di maggioranza assoluta dell’Italia. Una scalata non molto onorevole, francamente, per la rivoluzione che Segni volle, o si intestò nei primi anni Novanta insieme con Marco Pannella, facendo passare il sistema politico italiano dal metodo proporzionale a quello maggioritario. E  cominciando con la lotta ai voti di preferenza,  prima ridotti a uno solo e poi aboliti del tutto per non dare agli elettori l’occasione di sbagliare o addirittura di corrompersi.

         Lo avevo detto a Mariotto, mentre riusciva a convincere persino Indro Montanelli -che prima di conoscerlo e frequentarlo non voleva neppure sentir parlare di legge elettorale per paura di confondere la testa ai lettori-  che le cose non avrebbero funzionato sulla sua strada. Lui, ostinatissimo, da sardo a tutto tondo, era irriducibilmente ottimista. Ma gli elettori, a parte la prima botta del referendum abrogativo delle preferenze plurime, al quale parteciparono largamente facendolo vincere ai promotori tra la sorpresa di politici vecchi e nuovi, vecchi come Bettino Craxi e nuovi come Umberto Bossi, accomunati dall’appello a non votare; gli elettori, dicevo, sono andati via via, inesorabilmente contromano, diciamo così, rispetto al senso unico di Mariotto.

         Mescolata peraltro alla rivoluzione giudiziaria delle cosiddette mani pulite, basata sul sostanziale, presupposto che fossero sporche tutte quelle dei partiti e delle loro correnti generalmente finanziati in modo irregolare, diciamo pure illegale, la rivoluzione di Segni -e di Pannella, ripeto, ormai scomparso da tempo- ha portato il pubblico alla disaffezione, come si dice in gergo quasi scientifico. Piuttosto che riconoscersi non solo nei partiti, ma anche o soprattutto negli schieramenti in qualche modo obbligati dalla logica del sistema maggioritario, gli elettori non vanno neppure al mare o in montagna, come veniva loro consigliato dal Craxi o Bossi di turno, ma semplicemente sono rimasti a casa, preferita ai seggi elettorali.

         A spingere gli italiani ormai refrattari alle urne in maggioranza assoluta -ripeto- non sarà certamente la paura della sanzione proposta dal furbo di turno aprendo su di essa persino un dibattito, o qualcosa che gli assomiglia. A far tornare la voglia e l’interesse al voto, senza criminalizzarlo come interesse al malaffare, potrò essere solo, a mio modesto avviso, il ripristino del sistema proporzionale, che comincia del resto ad essere pubblicamente rimpianto anche da parti politiche che lo avevano ripudiato. Un sistema che già uno statista come Alcide Gasperi aveva proposto negli anni Cinquanta di correggere o compensare con un premio di maggioranza liquidato come una truffa dai comunisti. Che forse se ne saranno pentiti giù prima di cambiare nome, simbolo e altro ancora al partito travolto dalle macerie del muro di Berlino. Altre sono state forse le truffe seguite a quella immaginaria.

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Ripreso da http://www.startmag.it il 30 novembre

La lezione di logica e di diritto di Augusto Barbera al Pd

         Intervistato dal Corriere della Sera, Augusto Barbera, 87 anni, siciliano di origine e formazione e bolognese d’adozione, presidente emerito, cioè ex, della Corte Costituzionale, ha voluto rilanciare con forza il sì alla conferma referendaria della riforma delle giustizia, o della magistratura, già annunciato e spiegato in un lungo articolo sul Foglio, Che gli ha procurato l’accusa, raccolta dall’intervistatore del Corriere, di tradire la sua appartenenza alla sinistra e di fare “il gioco della destra”.

         “Qualcuno sicuramente lo pensa, finora nessuno me lo ha detto”, ha risposto Barbera. Che ha precisato anzi di avere ricevuto “dal Pd diverse chiamate di apprezzamento”. Sicuramente perà non dalla segretaria Elly Schlein, penso.

“Molti in quell’area- ha detto ancora Barbera- hanno la mia medesima opinione, anche se alcuni preferiscono non esporsi” lasciando rappresentare il Pd contro la riforma. “Io -ha continuato il costituzionalista con una ventina d’anni di attività parlamentare e ancor di più di attività partitica sulle spalle, dal Pci alle edizioni successive- rimango coerente col voto che diedi, da parlamentare comunista, a favore del nuovo processo” di rito cosiddetto accusatorio. Trasferito nell’articolo 111 della Costituzione, nel 1999, con la formula del “contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Terzo rispetto anche al pubblico ministero in una carriera però che è rimasta unica e che la riforma finalmente separerà se verrà confermata nel referendum.

         All’argomento speso contro questa riforma attribuendola al famoso “piano” massonico di Licio Gelli, scoperto nella propaganda anche da Giuseppe Conte e sodali, il presidente emerito della Corte Costituzionale ha opposto questa osservazione, o questo ricordo: “Non mi risulta che quando è stata attuata la riduzione dei parlamentari”, promossa dai grillini e subìta dal Pd che partecipava al secondo governo di Conte, “sia stato contestato ai 5 Stelle che era prevista nel piano di Gelli”. “Il punto è che ci dobbiamo liberarci di certi fantasmi”, ha detto Barbera.  

I fantasmi non sono solo quelli dei morti. Sono anche quelli dei vivi che usano argomenti morti, contraddetti dalla realtà, come quello dei pubblici ministeri che con la separazione delle carriere perderebbero la loro indipendenza tutelata dalla Costituzione anche nel testo modificato dalla riforma. Pubblici ministeri che tuttavia si sostiene siano condannati anche a diventare più forti di adesso. Di che cosa allora hanno paura?

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Cairo d’Italia e buon senso d’ Egitto nel salotto televisivo della Gruber

         Cairo, non la capitale d’Egitto, ma il Cairo d’Italia, 68 anni compiuti sei mesi fa, può ben essere considerato, senza volere fare torto ai tanti eredi attribuiti alla buonanima di Silvio Berlusconi, il più riuscito della scuderia del Biscione. Da segretario temporaneo del proprietario dell’ancora Fininvest, poi evoluta in Mediaset, Cairo è stato capace, nel tempo libero lasciatogli dalla passione sportiva, di diventare editore del Corriere della Sera, senza subire i danni subiti da chi lo aveva preceduto nella scalata al maggiore quotidiano italiano, e di una rete televisiva piccola di certo rispetto alla Rai , cioè La 7, ma più agile e spesso capace di fare opinione di più, specie nel salotto di Lilli Gruber. Alla quale basta la mezz’ora assegnatale dal palinsesto per lasciare il segno più delle maratone di Enrico Mentana. Al quale adesso riuscirò magari più antipatico del solito, temo.

         Nel salotto della Gruber si trovano spesso, per carità, giornalisti del Corriere, anche di vasta cultura ed esperienza, ma il più frequente e il più loquace, direi anche il più rispettato e assecondato dalla conduttrice, collegato dalla sua postazione di direttore del Fatto Quotidiano, è Marco Travaglio. Che finisce quasi sistematicamente per risultare, quanto meno, quello che dà la linea, come si dice nel nostro mestiere. O lascia il segno, per volere essere rispettosi, o meno irrispettosi della Gruber e del direttore del telegiornale de La 7.  E non è il segno, naturalmente, del Corriere dell’editore Cairo e del direttore Luciano Fontana.

         Ieri sera, collegato con la Gruber appunto, tra i sorrisi sarcastici e le interruzioni del corrierista Beppe Severgnini, un ancora più sarcastico Travaglio ha dato lezioni di guerra, e persino di diplomazia, assegnando la vittoria della guerra in Ucraina a Putin. Che l’aveva cominciata quasi quattro anni fa, ormai, per concluderla entro una quindicina di giorni   con la fuga o la cattura di Zelensky, e la sta ancora continuando alla ricerca di qualche altro uno o due per cento di territorio ucraino da occupare e annettere.

         Con l’aria di volersene dolere e di essere loro solidale, Travaglio ha rappresentato gli ucraini non dico, per carità, tutti nazisti come li considera Putin dal momento in cui si è proposto dichiaratamente di “denazificare” il paese sfortunatamente limitrofo alla Russia, ma ingenui. Caduti nella trappola prima di Biden, quando era presidente degli Stati Uniti, e poi di noi europei, che sembriamo decisi a insistere anche contro il successore di Biden alla Casa Bianca, di resistere a un Putin armato fino ai denti. E deciso anche non tanto all’uso quanto al suicidio del nucleare.

          Mi chiedo con sommesso scetticismo se Cairo ha il tempo e la voglia di vedere e sentire questo spettacolo sulla “sua” rete. E se il suo televisore resiste agli oggetti che il buon senso vorrebbe che lui gli lanciasse contro prima di cercare di cambiare canale.

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L’antidoto all’astensionismo è il sistema elettorale proporzionale

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, scrisse Giuseppe Ungaretti raccontando la prima guerra mondiale alla quale partecipava.

Non siamo in guerra in Italia, anche vi si gioca ogni tanto nelle città fra le proteste di qualche sindaco contro il ministro dell’Interno intenzionato non a scappare ma a vincerla, una volta che l’amministrazione locale l’ha di fatto incoraggiata condividendo le motivazioni degli agitatori ormai professionisti, e a tempo perso pure razzisti.

         No, ripeto. Non siano in guerra. Ne siano solo circondati. Ma quelle foglie che cadono dagli alberi, spesso anche fuori stagione, nelle primavere elettorali e non solo nell’autunno di questa stagione conclusasi col voto in Veneto, Puglia e Calabria, sono un po’ come gli elettori che non votano. E non occasionalmente ma a posto, votando in fondo anch’essi ma a modo loro, contro tutti indistintamente i partiti e gli schieramenti nei quali si collocano.

         L’assenteismo è arrivato ormai alla consistenza di una maggioranza non relativa ma assoluta, come Giuseppe Conte, Roberto Fico ed Elly Schlein, in ordine alfabetico, più comprimari, hanno dimenticato  saltellando allegramente per la vittoria a Napoli, dove la partecipazione alle urne è scesa sotto il 40 per cento.  E per effetto di questo fenomeno la sinistra nel suo complesso ha potuto vincere un turno elettorale in una regione dove ha perso 800.000 voti: ottocentomila in lettere.   

         Un fenomeno, dicevo. Che non è di ordine sociale o persino penale, come l’ho visto trattare di recente su un cosiddetto grande giornale proponendo di ripristinare l’obbligatorietà del voto e la sanzionabilità di chi si sottrae. Magari riempiendo i campi di calcio requisiti come prigioni. Il fenomeno è solo e tutto politico. E i politici, professionisti o dilettanti che siano, di sinistra ma anche di destra, e pure del fantomatico centro letteralmente incapace di vivere da solo, in qualsiasi combinazione improvvisata a ridosso del voto, debbono decidersi ad affrontarlo.

         Poiché non si può naturalmente tornare alle pratiche clientelari del compianto armatore Achille Lauro proprio a Napoli, distribuendo una scarpa prima del voto e l’altra dopo, bisogna affrontare il toro per le corna. Cioè decidersi, ripeto, all’ennesima riforma della legge elettorale, anche a costo di fare rivoltare le ceneri di Indro Montanelli. Che di legge elettorale non voleva sentir parlare. E quando Mario Segni gli strappò l’attenzione e lo convinse a sostenerlo prima per l’’abolizione delle preferenze e poi per il passaggio al sistema maggioritario da quello proporzionale, gli procurò l’ultima, forse, e più grave crisi di depressione della sua vita.

         Nel marasma seguito a quella riforma con tanto di timbro, visto o permesso referendario il povero Montanelli cercò di trovare qualche consolazione personale, politica e culturale in qualche festa addirittura  dell’Unità, piuttosto che tornare a parlarne con l’ormai odiato, respinto Silvio Berlusconi, che pure gli aveva salvato il Giornale nel momento più difficile e pericoloso della sua diffusione.

Nell’ultima chiacchierata telefonica con Montanelli, le cui ceneri perciò penso che possano resistere alla scossa, raccolsi il pentimento per l’avventura maggioritaria e il rimpianto del proporzionale cui poteva e doveva bastare il premio di maggioranza voluto da Alcide De Gasperi, scambiato per “truffa” dai comunisti e non scattato per una manciata di voti di regolarità sospetta. Su cui il ministro dell’Interno Mario Scelba voleva che si facessero accertamenti nei modi dovuti, trattenuto però dallo stesso De Gasperi più per stanchezza forse che per paura, visto che sarebbe morto di lì a poco

         Il proporzionale, si dice ancora con una certa approssimazione, restituirebbe i partiti agli intrighi di palazzo, alle spalle degli elettori, facendone dipendere la formazione poi dei governi, generalmente di breve durata. Eppure di tutte le elezioni politiche alle quali mi è toccato di partecipare all’epoca del proporzionale, non ho mai visto il partito scelto nella cabina elettorale finire in una combinazione di governo che non avessi previsto, messo nel conto, condiviso.

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Ripreso da http://www.statmag.it il 29 novembre

La Coppa Davis di Giorgia Meloni…senza racchetta

Non credo che Giorgia Meloni pratichi il tennis. Non ne ho trovate tracce negli archivi mediatici. E credo non abbia ora il tempo, tra governo, partito, figlia e burraco, per cominciare in pantaloni corti, maglietta e racchetta in qualche campo ben protetto, magari nel circolo di Montecitorio all’Acqua Acetosa. E rischiando di essere chiamata dalle opposizioni a risponderne in aula, come fanno ad ogni sfrondar di foglie o, in questo caso, di palline. Eppure anche lei cerca di conquistare la sua Coppa Davis nel torneo geopolitico in corso sulla sorte da riservare all’Ucraina aggredita tre anni e mezzo fa dalla Russia e messa tuttora a ferro e fuoco.

         Nemmeno a lei, credo a dispetto del suo soddisfatto vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, piacciono i 28 punti documentali di sostanziale resa dell’Ucraina predisposti da americani e russi solo in ordine alfabetico, perché sembrano che siano più i russi che gli americani. Ma la premier italiana si è mossa fra i primi in Europa, e nella trasferta del G20 in Sudafrica, per fare di quei 28 punti l’inizio non l’arrivo, tanto meno ultimativo, di una trattativa che non può riguardare solo la Russia e gli Stati Uniti.

Con una telefonata in asse col presidente finlandese, ma anche puntando su un aiuto, al momento giusto, della Turchia di Erdogan, la Meloni ha tirato giù del letto Trump e spedito il proprio consigliere diplomatico a un vertice ginevrino per aiutare ancora l’Ucraina. E garantirle una pace un pochettino più vera, o meno falsa, di quella preferita al Cremlino e perseguita contando sul presidente americano dei giorni e delle ore dispari nei rapporti con quelli che pure sono ancora i suoi alleati politici e militari in quello comunemente chiamato ancora Occidente.

         Se la Meloni vincesse questa Coppa Davis non l’attenderebbe solo la visita di gratificazione al Quirinale, come per i tennisti italiani invitati telefonicamente dall’entusiasta Mattarella dopo il trionfo di ieri sera a Bologna. L’attenderebbe una prenotazione rafforzata quanto meno della vittoria elettorale nelle elezioni politiche del 2027, se non anche del Quirinale due anni dopo, alla scadenza del mandato di Mattarella. E, naturalmente, del consigliere alla Difesa Francesco Saverio Garofani, restituito per intero alle sue legittime e personali simpatie politiche, per carità,  e alla sua passione giallorossa, senza più rischi a quel punto di trovarsi al momemto sbagliato nel posto ancora più sbagliato. Come in quella cena galeotta con vista su Piazza Navona che ha fatto versare i classici fiumi di inchiostro giallo.

         In un contesto del genere i risultati delle elezioni regionali appena svoltesi in Campania, Puglia e Veneto, in ordine rigorosamente alfabetico, sono per la premier, ma anche per i suoi avversari, più una distrazione che altro.

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