La penultima versione di Giuseppe Conte alla Camera è ingraiana

Adottato politicamente da Beppe Grillo, inconsapevole dei guai che si sarebbe procurati e spingendolo addirittura verso Palazzo Chigi, Giuseppe Conte ha sempre zigzagato nei suoi riferimenti storici o solo empatici.

Le origini pugliesi, in una terra -Volturara Appula- chiamata come le vipere che l’hanno a lungo occupata, hanno contribuito a dividere Conte fra la devozione anche familiare a Padre Pio e la curiosità, quanto meno, verso la figura e il lascito di Aldo Moro. Del quale tuttavia mi sembra non abbia avuto ancora l’occasione di celebrare pubblicamente il ricordo, come invece gli è capitato in un teatro in Campania, su invito di Gianfranco Rotondi e alla presenza dell’ancor vivo Ciriaco De Mita, per Fiorentino Sullo: il ministro dei lavori pubblici del già citato Moro che gli fece crescere ancora di più l’indimenticabile  ciuffo di capelli bianchi proponendogli una riforma del suolo, addirittura, che ne avrebbe trasformato la proprietà in concessione.   

Al termine della celebrazione di Sullo ai democristiani, ma anche a qualcuno non democristiano che andò a complimentarsi con lui Conte si disse attrezzato a commemorare anche altri morti eccellenti dello scudo crociato e dintorni. Poi però ebbe o trovò altro da fare.

A furia di studiare e di immedesimarsi nelle condizioni esplorate anche con un po’ di fantasia, che non guasta mai, aiutato anche da un consigliere sempre più frequentato ed ascoltato come Goffredo Bettini, l’ex presidente del Consiglio si è autodefinito “progressista indipendente”. Indipendente, tempo,  persino da se stesso e non solo dai partiti o leader a lui associati nella coltivazione della pianta della cosiddetta alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Alla cui leadership egli ha appena riconosciuto, parlandone anche alla Camera dopo qualche dichiarazione o comizio, i limiti geografici e politici del Colle Oppio. A Roma, di fronte al Colosseo. Una cosa più da battutista, francamente, che da protagonista politico come lui pensa forse di essere. O per come lo scambiano i tifosi sognando di rivederlo prima o poi di nuovo a Palazzo Chigi, quando “il destino cinico e baro” di cui si lamentava già  Giuseppe Saragat si sarà stancato di aiutare la premier in carica, prima di spingerla sino al Quirinale facendola entrare  nella lista dei successori del compianto leader socialdemocratico.

Proprio alla Camera, e parlando proprio del Colle Oppio della Meloni nel contesto di un dibattito e relative  votazioni sulle guerre di Gaza, al plurale perché ve ne sono tante di strumentali accanto a quella vera o principale, Conte ha toccato un’altra tappa della sua evoluzione politica e ideologica. Egli è approdato, in particolare, alla sinistra non solo romantica, visto ciò che riuscì a produrre negli anni di piombo, del comunistissimo Pietro Ingrao. Del quale ha voluto sposare la visione del mondo “terribilmente diviso in opulenti e affamati”. Per superare il quale, anche a rischio di distruggerlo in entrambe le parti, “l’appello all’unità è ridicolo”, ha detto, anche o soprattutto se formulato dal governo in carica, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal Papa, e attrattivo per una parte del Pd ancora dichiaratamente e orgogliosamente riformista, “ridicolmente” aperta -ha detto sempre Conte- alla “parte sbagliata della storia”.

Prima ancora di leggere di questo discorso di Conte oltre ogni ostacolo, ormai, persino il buon Goffredo Bettini già citato ha mostrato segni di delusione e preoccupazione avvertendo non il decollo ma la esplosione in pista dell’alternativa al governo. A un giornalista che lo intervistava sulle divisioni e sulle confusioni a sinistra su Gaza e dintorni Bettini ha chiesto, immagino con le mani giunte come in preghiera per un credente, di non insistere. Per carità.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.statmag.it il 5 ottobre

Il ponte lungo di Landini sul campo largo della Schlein e di Conte

         Grazie o a causa, come preferite, di una guerra dolorosa, anzi feroce anche per l’uso, anzi gli usi strumentali cui si presta come quella di Gaza, il segretario della Cgil Maurizio Landini ha aggiunto un altro dei suoi punti lunghi  sul campo largo del Pd di Elly Schlein, del Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e minori. Che magari non riusciranno a realizzare l’alternativa propostasi al centrodestra della Meloni, come hanno appena sperimentato nelle Marche perdendo le elezioni regionali, e come stanno per sperimentare in Calabria, ma garantiranno -si fa per dire- lunghi week end, proclamando scioperi di venerdì, a chi ha la voglia e la possibilità di goderne. E pazienza per gli altri che potranno o dovranno solo subirli, sentendosi dare dei provocatori o disumani al solo accenno di una protesta. O solo di una riserva.

Non parliamo poi di quando la protesta si traduce in un titolo di giornale o in qualche dichiarazione di parte governativa. Come è accaduto al ministro delle Infrastrutture e vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini quando si è lasciato tentare dall’idea di contrastare con le precettazioni lo sciopero generale proclamato a favore della flottiglia bloccata dagli israeliani nella navigazione verso Gaza. Di cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha avvertito e apprezzato l’umanità -per i soccorsi alimentari destinati ai palestinesi, chiedendo tuttavia di consegnarli al Patriarcato di Gerusalemme offertosi a distribuirli- e la presidente del Consiglio invece la irresponsabilità dello scontro cercato con Israele in un atteggiamento costante di sfida.

Salvini ha rinunciato alle precettazioni, Landini no allo sciopero generale anche quando l’autorità preposta ne ha dichiarato l’illegittimità mancando del preavviso e delle motivazioni necessarie. Un ponte anche illegittimo, quindi, oltre che lungo. Preceduto e accompagnato peraltro da manifestazioni di piazza dai rischi abituali di disordini, a dir poco. “L’Italia in rivolta”, ha titolato entusiasticamente l’Unità di Piero Sansonetti.

La guerra di Gaza, dicevo a proposito della quale si manifesta per terra e per mare, si sciopera e ci si scontra politicamente. Ma è un singolare sbagliato. Dovremmo parlare piuttosto di guerre di Gaza, al plurale. Condotte sul posto e altrove, tutte sulla pelle dei palestinesi. Alla cui tragedia contribuiscono anche quelli che dicono -temo non sempre in buona fede- di volerli difendere ad oltranza, e a qualsiasi costo, anche quello di danneggiarli in un tragico ossimoro.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Israele abborda la flottiglia e la sinistra dichiara guerra al governo italiano

         La flottiglia -lasciatemela chiamare in italiano- decisa a forzare il blocco della navigazione verso Gaza è stata scontatamente abbordata dagli israeliani con 20 battelli e 5 gommoni senza effetti “letali”, come promesso dal presidente di Israele all’ambasciatore d’Italia ricevuto in previsione dell’evento.

 I crocieristi sono stati destinati all’espatrio e i loro sostenitori in Italia si sono mobilitati politicamente  e socialmente dichiarando e praticando a loro modo la guerra, tra piazze e scioperi, a cominciare da quello generale di domani, non ad Israele, non avendone i mezzi, o non ancora, ma al governo di Giorgia Meloni. Che, pur avendone denunciato la “irresponsabilità”, per quanto contraddetta o mitigata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, aveva fatto tutto il possibile per proteggerli in navigazione nelle acque internazionali.

         Il proposito dichiarato nelle proteste è quello di “bloccare” l’Italia e i suoi incolpevoli cittadini. Alcuni dei quali applaudono contenti e solidali, come si è vantata in televisione l’ex sindaco di Roma Virginia Raggi. Ma molti di più, credo, non applaudendo per niente, incavolatissimi per pagarne le spese.

A Gaza intanto tutto procede tragicamente come prima. E se qualcosa dovesse davvero cambiare, accadrebbe non per la flottiglia, non per le proteste di piazza, in Italia e altrove, ma per il piano di pace concordato fra Trump e Netanyahu alla Casa Bianca e proposto ai paesi dell’area mediorientale. E persino ad Hamas, l’organizzazione terroristica che ha provocato la tragedia in corso prima facendo dei palestinesi i loro ostaggi, costruendo sotto le loro case, scuole, ospedali, chiese, piazze e strade gli arsenali di guerra contro Israele e poi eseguendo il pogrom del 7 ottobre di due anni fa.

         Questa non credo che sia una storia o cronaca provocatrice. Non lo è almeno nella percezione e nella volontà di chi l’ha così riassunta. E chi vi dovesse vedere invece della provocazione lo farebbe provocando ancora di più.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Tutte le sorprese, proprio tutte, dell’andreottiano Vittorio Sgarbi

         Diavolo di un uomo, di un depresso in convalescenza e di un critico d’arte impareggiabile anche nel praticarla mediaticamente, riuscendo ad occupare le prime pagine dei giornali anche con tutti i casini e le guerre raccontate dalle cronache, Vittorio Sgarbi non so se meriti la nomina a senatore a vita chiesta per lui al presidente della Repubblica da qualche parte in questi giorni. Di sicuro merita i complimenti per come riesce a gestire anche le sue difficoltà sorprendendo  tutti, amici e non.

         A 73 anni compiuti e a 71 chili ai quali si è ridotto da solo con la depressione, rifiutando il cibo prima ancora che adeguandosi alla dieta prescrittagli dai medici, Vittorio Sgarbi ha deciso domenica scorsa come elettore nelle Marche di fare parte della metà dei votanti, non degli astenuti come forse ci si poteva aspettare. E’ andato alle urne giusto per votare il presidente uscente, amico e confermato della regione Francesco Acquaroli, non altro. Non anche il suo partito, visto che Giorgia Meloni, come lui stesso si è doluto parlandone con Cazzullo, non si è mai fatta sentire pur sapendo delle sue condizioni malferme di salute e dell’amarezza procuratagli dalla figiia Evelina chiedendo ai magistrati di togliergli la gestione dei beni. Dopo averlo peraltro messo sotto indagini per conflitto d’interessi, quanto meno, determinandone peraltro l’uscita dal governo in carica.

         Sul piano politico, oltre che umano, Sgarbi ha voluto sorprendere amici e non -di nuovo- iscrivendosi all’area, diciamo cosi, andreottiana. Di Giulio Andreotti, cioè, la buonanima del sette volte presidente del Consiglio e ancora di più ministro che attribuiva al potere virtù taumaturgiche, danneggiando solo chi non lo ha, o lo perde.

         Infatti Sgarbi ha raccontato di essere entrato nel lungo tunnel della depressione dopo essere stato estromesso da sottosegretario ai beni culturali. Dimesso più che dimessosi dalla Meloni e dall’allora ministro Gennaro Sangiuliano, che però non ne ha ricavato vantaggi per avere poi dovuto lasciare anche lui, in modo anche più clamoroso.

Elly Schlein in radiologia dopo la spallata fallita al governo

Del “tanto impegno” che la segretaria del Pd Elly Schlein ha assicurato di avere messo nella campagna elettorale nelle Marche non c’è dubbio. L’hanno vista arrivare dappertutto. E se ne sono accorti, diversamente da quanto accadde, sempre nei suoi racconti, nel partito quando ne scalò e conquistò il vertice ribaltando l’esito del voto degli iscritti , che si erano pronunciatosi per il suo concorrente Stefano Bonaccini. Il quale oggi l’assiste come presidente fra il malumore e le proteste anche pubbliche di quanti, avendolo sostenuto, se ne aspettavano una condotta di contenimento, non di fiancheggiamento della Schlein,, quale invece è avvertito almeno da una parte dei riformisti, come si chiamano quelli della minoranza.

         Anche dell’esito negativo o “insufficiente”, come lo chiama lei, di tanto impegno elettorale non c’è dubbio. Ha stravinto con otto punti di vantaggio il presidente uscente di centrodestra delle Marche, Francesco Acuqaroni. E straperso, conseguentemente, il candidato del campo una volta tanto davvero largo, da Matteo Renzi a Giuseppe Conte: Matteo Ricci, europarlamentare e già sindaco di Pesaro con qualche pendenza giudiziaria per la sua attività di amministratore che avrebbe potuto aiutarlo, visti gli effetti anche controproducenti che riescono a produrre certe iniziative, ma che stavolta sono mancati.

         Gli elettori delle Marche hanno visto arrivare nelle loro piazze la segretaria del Pd, sono magari andati anche a sentirla, più giovani che anziani, come ha raccontato il capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, ma poi hanno disertato i seggi elettorali. “Piazze piene, urne vuote”, aveva gridato già nel 1948 a livello nazionale il socialista Pietro Nenni commentando la sconfitta del cosiddetto fronte popolare.

         Metà elettorato nelle Marche è rimasto a casa abbassando di dieci punti l’affluenza delle precedenti elezioni regionali, solo cinque anni fa. E sono state proprio le assenze a fare e produrre la differenza, diciamo così. facendo fallire non solo la corsa di Matteo Ricci e del campo largo alla presidenza della regione, ma anche la spallata al governo di Giorgia Meloni che la Schlein si era proposta. E che anche l’impietoso manifesto le ha ricordato.

         Per scherzo, ma non troppo, si può ora immaginare la segretaria del Pd in radiologia per un accertamento delle condizioni della sua spalla sinistra, ma anche della destra. In attesa che poi il partito, magari non subito ma dopo le altre tappe di questa campagna elettorale d’autunno, le faccia il suo esame politico, decidendo se avvicinare o allontanare un congresso di verifica, di chiarimento o come altro si vorrà o potrà chiamare.

         A livello rigorosamente di partito, in cinque anni dalle precedenti elezioni regionali, il Pd è sceso dal 25,1 al 22,5 per cento dei voti perdendo il primo posto della classifica generale. Ma ancora più visibilmente e significativamente i fratelli d’Italia della Meloni sono saliti dal 18,7 al 27,4 per cento, saltando al primo posto. E forse archiviando, credo, del tutto la storia di sinistra delle Marche, dove la destra è stata vissuta negli ultimi anni, sempre da sinistra, come usurpatrice.

Pubblicato sul Dubbio

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