L’assordante silenzio di Beppe Grillo sul declino elettorale del MoVimento 5 Stelle

Non so se più preso dai problemi familiari per la recente condanna del figlio Ciro in primo grado a otto anni di carcere per stupro, e scandalosamente a sei dai fatti in Sardegna, o tramortito politicamente ed anche umanamente dalla discesa dell’ex suo Movimento dalle 5 Stelle, ancora nel titolo, al 5 per cento attorno al quale ormai naviga, Beppe Grillo è in silenzio assordante. Così si dice di quello contrapposto alla loquacità di una volta. Che era assordante davvero, fra piazze e invettive elettroniche.

         Neanche i risultati elettorali per le regionali in Calabria, dove pure ha corso per la presidenza il pentastellato Pasquale Tridico, dopo quelli delle Marche, dove almeno a correre col sostegno delle 5 Stelle era il governatore uscente del Pd Francesco Acquaroli, hanno fatto rompere il silenzio al comico genovese sul suo blog personale. Dove continuano a dominare argomenti e problemi di energia., ambiente e di economia fra analisi e compiaciuti paradossi.  

         Com’era accaduto sette giorni prima col 5 per cento delle Marche, così per il 6,3 della Calabria Grillo ha girato la testa dall’altra parte. Un 6,3 per cento inferiore di poco rispetto al 6,5 delle precedenti elezioni regionali di quattro anni fa, ma di parecchio rispetto al 29,4 addirittura delle elezioni politiche di tre anni fa e al 16,2 per cento delle elezioni europee dell’anno scorso. Un trofeo al contrario per Giuseppe Conte, direbbe il generale, eurodeputato e vice segretario della Lega Roberto Vannacci.

         E Conte, l’ex presidente del Consiglio ancora nostalgico di Palazzo Chigi e adesso solo presidente di quel che resta del movimento già di Grillo? Da lui è arrivato solo un ringraziamento al fedele Tridico, evidentemente per non avere fatto scendere le 5 Stelle al 5 per cento come nelle Marche ed averne fermato la caduta al già ricordato 6,3.

         Più che il calo dell’ora suo movimento, a tutti gli effetti, dev’essere stata scomoda per Conte la tenuta del Pd in Calabria, dove esso è sceso solo al 13 per cento dal 16 delle elezioni europee e dal 14 per cento delle elezioni politiche. Una tenuta, a livello generalmente più alto su scala nazionale, che allontana obiettivamente la prospettiva sognata da Conte di strappare nel cosiddetto campo largo la candidatura a Palazzo Chigi fra due anni, addirittura vincendo le primarie che dovessero derivare da una riforma della legge elettorale della quale tutti parlano ma nessuno sa dove sia, come la mitica Fenice.

         Di questa riforma elettorale temo che chi se ne sta occupando dietro, ma molto dietro le quinte, stia ignorando o sottovalutando il peso che potrebbe avere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella se volesse intervenire pria, durante e dopo il percorso parlamentare. Per esempio, ricordando e facendo valere una disposizione europea che vieta di varare riforme elettorali a ridosso delle elezioni, come avverrebbe nell’ultimo anno della legislatura. Una disposizione che trovo francamente di buon senso, per quanto generalmente disattesa sinora in Italia.  

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L’antipasto calabrese del referendum sulla riforma Nordio della giustizia

Dei risultati elettorali in Calabria -dove il governatore uscente di centrodestra Roberto Occhiuto è stato confermato distanziando di quasi 16 punti il concorrente Pasquale Tridico, pentastellato campolarghista, diciamo così- vi sono aspetti istituzionali e morali non meno importanti, se non superiori a quelli politici pur rilevanti.

         Diversamente dalle Marche, dove il centrodestra ha vinto con la conferma, anche lì, del governatore  uscente Francesco Acquaroli, in Calabria si è votato anticipatamente, di un anno, rispetto alla scadenza ordinaria. Un anticipo voluto dallo stesso governatore Occhiuto non appena incorso in indagini giudiziarie per corruzione, aperte con la solita, diabolica tempistica. Nella quale l’indagato ha avvertito non dico la volontà degli inquirenti, ai quali si è messo subito a disposizione e che ora ha sollecitato ad andare avanti col loro lavoro, ma il rischio obbiettivo di un lento logoramento. Se non di una delegittimazione di fatto. Ed ha preferito la scommessa, vincente, sulla fiducia degli elettori, che gliel’hanno ribadita in modo anche più ampio di quattro anni fa.

         So bene che rischio l’accusa di essere un provocatore, con i tempi e i modi che corrono su questo versante del dibattito politico e mediatico, ma penso francamente che fra gli sconfitti in Calabria, oltre a Tridico, Giuseppe Conte, che lo ha ringraziato, e la segretaria del Pd Elly Schlein, vi sono i magistrati. Sì, anche loro. O soprattutto loro, addirittura. Che, a livello nazionale, non hanno capito che sono cambiati i tempi rispetto a quando bastava un loro starnuto, più ancora di un avviso di garanzia, per terremotare la politica e troncare carriere pur consolidate di uomini di partito e di governo, parlamentari e non.

         I tempi -penserete voi- delle cosiddette mani pulite, una trentina d’anni fa, quando sotto la ghigliottina giudiziaria finì la cosiddetta prima Repubblica. E sono stati ammaccati anche passaggi delle edizioni successive: seconda, terza e quarta, visto che almeno televisivamente ci siamo arrivati.

         Già prima degli anni Ottanta, addirittura, per non arrivare ai piani alti della Repubblica, quando il presidente Francesco Cossiga bloccò il Consiglio Superiore della Magistratura che voleva processare a suo modo l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, al posto della Corte Costituzionale con tutte le dovute procedure, il presidente dei deputati democristiani Flaminio Piccoli si lasciò ad uno sfogo finito su tutti i giornali parlando in una riunione del comitato direttivo. Si discuteva di una rivendicazione una volta tanto solo salariale, sindacale nel vero senso della parola, dei magistrati e lui sbottò dicendo pressappoco così: attenti a dire no perché quelli ci arrestano. Dalle toghe si reclamò una smentita dell’impetuoso Piccoli mai arrivata.

         La reazione elettorale, politica, ambientale dei calabresi, chiamatela come volete, al trattamento giudiziario del loro governatore potrebbe rivelarsi un antipasto, non solo regionale ma anche nazionale, del referendum atteso per l’anno prossimo sulla riforma della giustizia intestata al ministro Carlo Nordio. Una riforma, alla quale manca solo l’ultimo dei quattro passaggi parlamentari, che separa non solo le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, ma di fatto anche altro per i riflessi che avvertono gli stessi magistrati con la loro mobilitazione referendaria.

Finiranno per separarsi davvero anche la politica e la giustizia, senza sottomettere la seconda alla prima come si vorrebbe far credere mistificando il testo della riforma. E anche le carriere dei pubblici ministeri e dei giornalisti che ne raccolgono notizie e umori alimentando i processi mediaticamente sommari. Che nella percezione del pubblico prevalgono su quelli ordinari, che seguono nei tribunali e magari si concludono con l’assoluzione degli imputati di turno. E’ una cosa che non mi sto inventando io ma che da anni lamenta l’insospettabile Luciano Violante, già magistrato, presidente della Camera e responsabile degli affari di giustizia del Pci.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it l’11 ottobre

Il ricordo turpe, in piazza, dell’ancor più turpe 7 ottobre 2023, parola di Mattarella

         Il 7 ottobre dunque è trascorso senza che nessuno abbia saputo o voluto portare in piazza non dico milioni, come i tre contati fra Roma e altre cento città nei giorni scorsi per solidarizzare con la popolazione di Gaza, ma qualche migliaia o solo centinaia di volenterosi, come si dice in questi tempi, per ricordare i 1200 morti e i 250 sequestrati nel pogrom di due anni fa in terra israeliana. Dove i terroristi di Hamas giunsero da Gaza condannandone la popolazione a subire gli effetti della guerra che sarebbe conseguita.

         Di piazze rievocatrici se n’è avuta una sola a Bologna, ma alla rovescia, per manifestare a favore dei palestinesi, e nel solito trambusto di violenze e disordini.  

         Per fortuna i palazzi sono stati più sensibili delle piazze. Le vittime israeliane di quel pogrom “turpe”, come lo ha definito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sono state ricordate alla Camera dei deputati e al Senato.

         Ne hanno parlato anche conduttrice e ospiti del salotto televisivo di Otto e mezzo, su la 7, pur profittando dell’occasione per rinnovare attacchi alla premier Giorgia Meloni troppo indulgente, se non complice del governo israeliano nella sua pur riconosciuta reazione “sproporzionata” al pogrom.  Moltiplicando per 60 in due anni a Gaza -ha detto, per esempio, Marco Travaglio- i 1200 ammazzati in poche ore in Israele. Il sottinteso di questi numeri è il confronto fra la ferocia di Netanyahu e quella minore di Hitler, che nella seconda guerra mondiale ordinava rappresaglie solo contro dieci per ogni soldato tedesco ucciso.

         La premier, dal canto suo, ha rivelato di essere stata denunciata alla Corte Penale internazionale dell’Aja con i ministri degli Esteri e della Difesa, Antonio Tajani e Guido Crosetto, e con Roberto Cingolani, amministratore di Leonardo, per concorso in genocidio con Israele.

         Ricordare all’inverso  il “turpe” 7 ottobre- ripeto con Mattarella- come in piazza a Bologna è stato peggio che non ricordarlo, come altrove.

Ripreso da http://www.startmag.it

Lo spartiacque del 7 ottobre di due anni fa in Israele e oltre

Oggi, 7 ottobre 2025, ricorrono due anni esatti dal pogrom in terra israeliana in cui i terroristi di Hamas, proveniente dalle viscere di Gaza, nel vero senso della parola avendovi sistemato i loro arsenali di guerra, uccisero, anzi trucidarono circa 1200 persone e ne sequestrarono 250. Di cui   sono rimasti ancora vivi nelle mani degli aguzzini dai 20 ai 22 Lo scopriremo quando verranno finalmente liberati, spero ad ore.

         Per ricordare quei 1200 e più morti, ma anche quelli sei volte superiori fra i palestinesi caduti nella guerra seguita al podrom, e messa inevitabilmente nel conto da Hamas, dobbiamo aspettare la ventesima edizione della giornata della memoria deliberata dall’assemblea delle Nazioni Unite il 1° novembre 2005 per celebrare il 27 gennaio di ogni anno in tutto il mondo con la Shoah la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz ad opera delle truppe russe? O qualcuno in Italia avrà il buon senso e persino il coraggio fisico, visti i tempi che corrono, in verità non solo in Italia, di ricordare quei morti di due anni fa già oggi? Una domanda, questa, che penso possa e debba esprimere da sola non dico la drammaticità, ma l’oscenità della situazione in cui ci troviamo.

         E’ una situazione nella quale è potuto accadere che a Roma sabato scorso, giorno peraltro di San Francesco, ha potuto essere portato per le strade e le piazze, affollate di un milione di persone, uno striscione inneggiante al 7 ottobre come giornata emblematica della “Resistenza Palestinese”. Altri avevano già provveduto ad imbrattare la statua di Giovanni Paolo II davanti alla Stazione Termini dando al Papa polacco del “fascista di merda”, a 20 anni dalla norte.

         Per fortuna la tomba di Papa Francesco a poche centinaia di metri di distanza, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, era più protetta della statua di Karol Wojtyla.

         Un’altra domanda scomoda, a dir poco, sempre per i tempi e il clima politico in cui viviamo, è quella su come e quando vedremo sfilare cortei di solidarietà, a Roma e altrove, in Italia e all’estero, per gli ucraini che muoiono ogni giorno, innocenti, da più di tre anni. Morti -anche loro bambini, giovani e vecchi, uomini e donne- di seconda classe.

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Lo schiaffo della Calabria alla sinistra, ma anche alla magistratura

         E due. Dopo le Marche anche la Calabria resta al centrodestra, ancora più clamorosamente per i numeri. Gli 8 punti di distacco nelle Marche fra il governatore uscente Francesco Acquaroli, dei “fratelli d’Italia”, e il contendente piddino Matteo Ricci sono diventati quasi il doppio -15,5- fra Roberto Occhiuto, di “Forza Italia”, e Pasquale Tridico, delle 5 Stelle.

         L’affluenza alle urne è scesa dal 50 per cento delle Marche al 43 per cento della Calabria, dove l’alternativa proposta da cosiddetto “campo largo” ha quindi allontanato ancora più elettori dalle urne.

         Ma oltre al campo largo ha perso anche la magistratura che indaga il governatore uscente, e confermato, per corruzione non riducendone la popolarità ma aumentandola. Risultato al quale Occhiuto aveva puntato, come in una sfida, dimettendosi di fronte all’iniziativa giudiziaria, riducendo di un anno il suo mandato per raddoppiarlo con le elezioni anticipate che ne sono derivate.

         Chiusi nella loro torre d’avorio e avvolti nelle bandiere dell’autonomia, indipendenza, separazione dei poteri e quant’altro i magistrati faranno spallucce a livello regionale e nazionale. Magari, a livello locale, quasi per prendersi una rivincita e rivendicare il loro primato sulla politica e sugli elettori, porteranno avanti con più vigore, più ostinazione la loro iniziativa contro il governatore, sino a sperare di farlo pentire della sfida e del successo ottenuto ma ininfluente sul suo destino di imputato. Ma penso che così facendo si daranno un’ulteriore colpo di zappa sui piedi. E forse contribuiranno alla loro sconfitta nella partita che hanno ingaggiato con la politica, più ancora che col governo, contestando la riforma della giustizia ornai in vista del traguardo finale in Parlamento e del referendum cosiddetto confermativo che seguirà. Al quale l’associazione nazionale dei magistrati si sta già preparando come ad una finale di campionato.

         Le elezioni regionali in Calabria sono state significative anche all’interno dei due schieramenti che si sono contrapposti. Nel centrodestra Forza Italia, direttamente e con la lista intestata al governatore, ha raggiunto il 30 per cento dei voti, superando di una ventina di punti il partito della premier Giorgia Meloni e ancora di più quello leghista di Matteo Salvini, fermatosi al 9 per cento.

         Nel campo largo il Pd ha preso col 20 per cento il triplo dei voti delle 5 Stelle, cui pure aveva dovuto cedere la candidatura alla presidenza della regione calabrese per tenere in piedi la prospettiva nazionale dell’alternativa. La segretaria del Pd Elly Schlein farà forse spallucce anche lei, pur avendo i suoi collaboratori ammesso la sconfitta, come anche Giuseppe Conte affrettatosi masochisticamente a ringraziare Tridico. Ma saranno spallucce come quelle dei magistrati.

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L’osceno 4 ottobre 2025 a Roma….

         La giornata filopalestinese del 4 ottobre 2025 a Roma più ancora che dalla guerriglia in Piazza Santa Maria Maggiore, è stata contrassegnata da quel “fascista di merda” dato per iscritto a Karol Wojtyla sulla statua che lo raffigura davanti alla Stazione Termini. Un insulto firmato con la falce e martello perché non si potesse dubitare della sua paternità politica.

         A 36 anni della caduta del muro di Berlino, a 33 dalla caduta anche dell’Unione Sovietica, a 25 anni della morte di Wojtyla, per 26 Papa Giovanni Paolo II, proclamato santo 11 anni fa, non gli si perdona ancora l’anticomunismo e gli si dà del fascista, ripeto, di merda. Perché non basta il semplice fascista, diciamo così.

         Fascisti, come sa il sindaco piddino di Reggio Emilia per una disavventura capitatagli sul posto, si rischia di essere chiamati anche al solo ricordare il pogrom del 7 ottobre di due anni fa, esaltato in uno striscione della giornata filopalestinese di Roma come Resistenza, da cui sono derivati due anni di guerra a Gaza, altrettanti di prigionia per i pochi ostaggi sopravvissuti al loro sequestro e circa 67 mila palestinesi morti, anch’essi ostaggi in fondo dei terroristi di Hamas che avevamo sistemato arsenali beliici sotto le loro case, scuole, ospedali, chiese, mercati, strade e piazze.

         Mi chiedo cos’altro sarebbe dovuto accadere il 4 ottobre – che dall’anno prossimo tornerà ad essere festa in onore, giustamente, di San Francesco- per fare capire a un milione di manifestanti il gioco perverso e stomachevole al quale si erano prestati. Un milione, ripeto. Ma sono tanti anche i  “soli” 250 mila stimati dalla Polizia.

Lo zoo affollato del Nazareno dopo la mucca segnalata da Bersani

Luigi Zanda, uno dei fondatori del Pd pure lui, di provenienza però democristiana e non comunista, parlandone al Corriere della Sera ha riconosciuto a Pier Luigi Bersani il merito, l’onestà, il realismo e quant’altro di avere ammesso, parlandone a sua volta qualche giorno fa a Repubblica, che “al campo largo manca un progetto per l’alternativa”. Che è quindi perseguita solo a parole, puntando sulla distrazione di un elettorato per niente distratto invece. Che nelle Marche, per esempio, ha contributo direttamente dalla sua tradizionale posizione di sinistra a fare rivincere la destra votandola. “Io -ha osservato l’ex senatore, ex capogruppo del Senato ed ex tesoriere del Pd, per non risalire anche alla sua collaborazione e amicizia con Francesco Cossiga- non ho paura delle scissioni di gruppi di parlamentari, ma delle scissioni dell’elettorato, che sono molto più pericolose”.

         In effetti i voti che da sinistra vanno direttamente a destra non vi ritornano, come la buonanima di Giulio Andreotti riteneva che accadesse a quelli che dalla sua Dc andavano al Movimento Sociale di Almirante  in qualche occasione regionale o nazionale.

         L’elettorato del Pd, di provenienza sia democristiana sia comunista, si è accorto prima ancora che glielo spiegasse il mio amico Zanda che al Nazareno non si può avere una linea politica univoca “se la priorità è quella di andare d’accordo con alleati che hanno idee molto diverse”. “Noi dobbiamo sapere- ha aggiunto o spiegato Zanda centrando il problema e la persona- che Conte non avrà pace fino a quando non verrà incoronato come capo assoluto del campo largo e che quindi non è un compagno di strada molto affidabile”. E neppure, aggiungerei, capace di crescere o solo di resistere elettoralmente.

         E’ proprio per inseguire o non perdere il rapporto con  un Giuseppe Conte sempre più a sinistra e movimentista, arrivato a richiamarsi alla Camera nei giorni scorsi a Pietro Ingrao, che ne fu peraltro presidente; è proprio per inseguire Conte, dicevo,  che il Pd proprio a Montecitorio, nella stessa aula, non  ha potuto fare ciò che Zanda si aspettava e auspicava: il voto a favore della mozione della maggioranza sulle prospettive di pace in Medio Oriente dopo il piano concordato alla Casa Bianca fra il presidente americano Trump e il premier israeliano Netanyahu. Il Pd ha preferito astenersi. “Io ho la netta impressione che il Pd in questa legislatura -ha detto Zanda- si sia astenuto con troppa facilità al Senato come alla Camera”.

         Al Nazareno temo che sia tornato ad essere ascoltato più Bersani che Zanda. Ma non il Bersani che piace a Zanda per la riconosciuta mancanza -ripeto- di “un progetto per l’alternativa”. Il Bersani, piuttosto, della parodia appena ripetuta, sempre  a Repubblica, della “mucca” -cioè la destra- spintasi ben prima di vincere le elezioni tre anni fa sin nei corridoi e nelle stanze del Nazareno, senza che nessuno se ne accorgesse. Sarebbe ora che l’ex segretario del Pd, uscitone come Massino D’Alema e poi rientrato, aggiornasse un po’ la sua fantasia. O il suo zoo. E si accorgesse di altri animali arrivati nei corridoi e negli uffici del Nazareno, e dintorni, accudendoli a dovere. Come il Conte descritto, senza parodia, da Zanda.

         La stessa mucca scelta da Bersani come il male assoluto, pericolo mortale più ancora di un serpente velenoso o di una tigre per niente di carta, come Trump dice di Putin, è fra tutti gli animali di un possibile zoo fra i più ingombranti, di certo, ma anche i più innocui, con quella benevola imponenza. Piuttosto che allarmarsi, Bersani dovrebbe sorridere e persino commuoversi. Ma qualche sera fa l’ho visto quai piangere in un collegamento da casa col salotto televisivo di turno per le piazze d’Italia riempite di manifestanti e scioperanti per la Palestina libera, dal fiume al mare. Piazze al netto della guerriglia e della blasfemia arrivata a dare del “fascista di merda” al compianto Papa Giovanni Paolo II, cui non viene personato neppure da morto l’anticomunismo.

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Se Landini insidia a Trump nelle piazze italiane il premio Nobel della pace….

         Quattro furono a Napoli nel 1943 le giornate di rivolta popolare che portarono al ritiro delle truppe tedesche e aprirono la lunga lotta di resistenza a livello nazionale. Quattro sono state le giornate italiane di manifestazioni, una anche di sciopero generale, che Massimo Gramellini ha vissuto e raccontato “in altre parole”, su la 7 televisiva, come propedeutiche alla liberazione di Gaza. Come se avessimo fatto più noi italiani scioperando e scendendo nelle piazze per dare finalmente una prospettiva di pace, si spera, a Gaza. Altro che Trump e Netanyahu col piano annunciato alla Casa Bianca e col negoziato che comincerà domani in Egitto anche con i terroristi di Hamas.  

         Si spera che Massimo Landini, il segretario generale della Cgil che si è intestato gli eventi italiani, non si monti la testa e non reclami il pieno Nobel della pace al quale invece aspira il presidente americano. E che è stato chiesto per  Trump, guarda caso, proprio da Netanyau, anche se quello scienziato di geopolitica che qualcuno considera Tomaso Molinari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, racconta negli studi televisivi che lo cercano tutt’altra storia, Che il premier israeliano, cioè, fa accordi con Trump su Gaza per poi sabotarli e proseguire una guerra che gli servirebbe a rimanere al governo nel suo paese. E/o per non finire in galera. Trump si lascerebbe cosi imbrogliare, come anche da Putin in Ucraina, o imbroglierebbe anche lui tutto il mondo fingendo di perseguire la pace per intascare il premio omonimo e poi lasciare le partite.

         Per promuovere e santificare le “quattro giornate”  da lui raccontate in un inconsapevole delirio nazionalistico, rappresentando l’Italia al centro del mondo  per le sue piazze affollate e incontenibili per la causa di Gaza sostenuta invece altrove con inefficacia, Gramellini ha naturalmente liquidato come “marginali” i disordini che non sono mancati neppure a Roma. Con i soliti incappucciati che in Piazza Santa Maria Maggiore e dintorni per poco -scusate l’ironia- non hanno svegliato Papa Francesco che vi riposa. E hanno raggiunto la statua di Papa Giovanni Paolo II per scrivergli addosso del “fascista di merda”.

         Ironia per ironia, meno blasfema, lasciatemi segnalare questi disordini al buon Pier Luigi Bersani. Che ci ha appena riproposto, in una intervista a Repubblica, la parodia della “mucca”, cioè della destra, da lui per primo avvertita  inutilmente  nella sede del Pd, al Nazareno, ben prima che Giorgia Meloni vincesse le elezioni e si insediasse a Palazzo Chigi, magari arrivando fra quattro anni anche al Quirinale. Dove già l’avvertono Dario Franceschini, Francesco Boccia e amici. C’è ben altro, caro Bersani, che si aggira per i corridoi del Nazareno estremizzando e confondendo la linea del Pd. E vanificando ogni sogno di alternativa.

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I numeri e i paradossi delle piazze italiane intestatesi da Landini

         Dai 50 mila stimati in un centinaio di piazze italiane ai 2 milioni, vantati dalla Cgil, di dimostranti fiancheggiatori dello sciopero generale indetto e attuato a favore dei palestinesi di Gaza “genocidiati” da Israele. Ma, a questo punto, e per coerenza, anche dai terroristi di Hamas che li hanno resi ostaggi nella lotta armata agli ebrei, costruendo sotto le loro case, i loro ospedali, le loro scuole, le loro chiese, le loro strade e piazze gli arsenali della lotta per una Palestina “dal fiume al mare”.

         Di questi 50 mila o 2 milioni di manifestanti si è detto e scritto che siano sfilati pacificamente, persino gioiosamente, anche se la causa da essi sostenuta ha prodotto e continua a produrre eccidi, macerie e odio. Sta per arrivare il secondo anniversario del podrom del 7 ottobre in cui a nome della causa palestinese furono trucidati in territorio israeliano più di 1200 fra uomini, donne, vecchi e bambini ebrei  e più di altri 200 sequestrati e nascosti a Gaza per farne merce di scambio nella guerra che ne sarebbe inevitabilmente seguita.

         Fra le piazze d’Italia festosamente invase c’è stata anche quella romana di Porta Pia prospiciente il Ministero delle Infrastrutture, ex Lavori Pubblici, guidato dal vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini: il più fischiato e insultato, dopo la premier Giorgia Meloni, per le critiche allo sciopero generale, oltre che alla crociera della flottiglia interrotta dagli israeliani a 35 miglia da Gaza.

         Di Salvini non sono state condivise dai promotori dello sciopero generale e dimostranti  neppure le proteste per i 55 poliziotti rimasti feriti nei disordini che hanno qua e là rovinato la festa, chiamiamola così nonostante -ripeto- l’aspetto tragico del problema di Gaza e dintorni.

         Caty La Torre, una professoressa di doppio passaporto, italiano e americano, uno in meno della segretaria del Pd Elly Schlein, è insorta proprio contro Salvini parlandone nel salotto televisivo di Lilly Gruber su La 7, osservando che una cinquantina di poliziotti feriti sono in fondo la media dei postumi di un derby calcistico. Se è per questo, la professoressa poteva fare un calcolo facile facile e tradurre la sua rappresentazione dei fatti opponendo alla denuncia del ministro la modestia di uno 0,55 per cento di ferimenti tra le forze dell’ordine considerando le cento piazze, appunto, che il segretario della Cgil Maurizio Landini si è vantato di avere voluto e saputo riempire. La cosa importante insomma è che non ci sia scappato il morto. Che probabilmente, secondo il ragionamento e l’atteggiamento della professoressa, avrebbe fatto comodo a Salvini.

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Il gioco parlamentare di Monopoli sulle guerre di Gaza, al plurale

Il buon Mattia Feltri, più paziente del padre Vittorio, sino allo sfinimento avvolto nell’ironia, o nel sarcasmo, ha contato sino a “dodici o tredici” posizioni nei dibattiti parlamentari svoltisi, fra Camera e Senato, sulla guerra di Gaza e nelle votazioni sulle mozioni. Ne è derivato uno spettacolo di confusione che ha probabilmente e giustamente spinto nell’aula di Montecitorio sui banchi del governo il ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, affiancato dal ministro della Difesa Guido Crosetto, a portarsi la mano sinistra sugli occhi. Una immagine, direi, emblematica di una giornata particolare in Parlamento. Dove la maggioranza ha approvato le sue mozioni a favore del piano di piace a Gaza predisposto alla Casa Bianca dal presidente americano Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e di un riconoscimento dello Stato di Palestina condizionato alla liberazione degli ostaggi di Hamas, vivi o morti che siano, e al ritiro dei terroristi. Che hanno provocato la distruzione della striscia di Gaza con la inevitabile reazione israeliana all’infame pogrom del 7 ottobre di due anni fa.

         Gli incroci, sui banchi delle opposizioni, fra astensioni, voti contrari e favorevoli anche sui documenti da esse stesse proposte, non hanno dimostrato la pluralità e quindi vitalità dei partiti, fra di loro e al loro interno, quanto la loro “paralisi” da confusione giustamente lamentata da Davide Varì. Una paralisi che rende impraticabile la strada dell’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni propostasi dal cosiddetto campo largo. E avvertita, in questa sua impraticabilità anche da esponenti politici impegnatisi molto, più ancora della “testarda” segretaria del Pd Elly Schlein, a prospettarla.

         Persino Goffredo Bettini, per esempio, l’uomo che non si è risparmiato nel suo Pd e fuori producendo saggi, articoli, lettere e interviste sino a sollecitarle personalmente, ha dovuto arrendersi alla realtà dello spettacolo parlamentare pregando l’intervistatore di turno di non infierire con le domande. Cioè preferendo uno sconsolato silenzio al rischio di contribuire anche lui alla confusione. Come avrebbe probabilmente fatto se si fosse azzardato a parlare entrando nei dettagli delle dodici o tredici posizioni, ripeto, contate con sofferta approssimazione, credo, dal mio amico Mattia Feltri. Un’approssimazione persino superiore a quella cui nella cosiddetta prima Repubblica ci avevano abituato i democristiani quando scrivevamo delle loro correnti e ne aggiornavamo, via via, le carte di navigazione. Superiore anche all’approssimazione e confusione che la Dc riuscì a trasmettere al  Pci quando le due forze politiche, pur contrapposte elettoralmente, come ricordava Aldo Moro,  parteciparono alle maggioranze parlamentari della cosiddetta “solidarietà nazionale”. Che fu un’edizione ridotta del più ambizioso e persino scientifico “compromesso storico” elaborato e proposto dal segretario comunista Enrico Berlinguer nella sicurezza di poterlo fare digerire a tutto il suo partito.  

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