Dalle urne regionali sta uscendo un mezzo toscano spento….

         Quel 10 per cento in meno di affluenza alle urne nel primo giorno di votazioni regionali in Toscana è già una grande macchia anche sull’eventuale conferma del governatore uscente Eugenio Giani, del Pd, 66 anni, appoggiato dal cosiddetto campo largo del centrosinistra. E sfidato per il centrodestra dal sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi, di 46 anni, venti anni in meno.

         Ad occhio e croce il già ricordato campo largo, come nelle Marche 15 giorni fa, confermate al centrodestra con la conferma del fratello d’Italia Francesco Acquaroli, ha più allontanato che attratto gli elettori.

         Il campo largo, d’altronde, in Toscana è stato così poco convintamente allestito che la segretaria del Pd Ellly Schlein, secondo indiscrezioni di stampa, ha dovuto sudare fuori stagione le classiche sette camicette delle sue, di più colori come l’arcobaleno, per convincere Giuseppe Conte a farsi fotografare con Giani. Di cui l’ex presidente del Consiglio ha accettato e sostenuto la ricandidatura fra il malumore dei suoi pentastellati, probabilmente fra i più svogliati e renitenti, come si dice in politica, nella corsa, anzi nell’approccio alle urne.

         Più che un toscano intero, sta uscendo da questo  voto regionale un mezzo toscano.

Walter Veltroni, un marziano al Nazareno oltre alla mucca di Bersani

Altro che la mucca di Pier Luigi Bersani, che ne avvertì la presenza ben prima della vittoria elettorale della destra di Giorgia Meloni fra l’incredulità dei compagni di partito. Al Nazareno, se ancora vi va ogni tanto da ex segretario del Pd per le presenze che  gli spettano di diritto, si aggira un marziano. Che l’altra sera, ospite di Peter Gomez nel salotto televisivo della “confessione”, ha felicemente centrato sul piano storico e politico l’anno d’inizio della crisi del Pci, ma in genere anche di tutta la sinistra.

Fu il 1956, quando la repressione sovietica della rivoluzione in Ungheria spinse molti comunisti a lasciare il partito di Palmiro Togliatti, che reagì scuotendo la testa come una criniera per liberarsi, compiaciuto, dei “pidocchi” che vi si erano insediati. E invitando l’allora direttore dell’Unità Pietro Ingrao a brindare con un bicchiere di vino rosso alla decisione del Cremlino di soffocare nel sangue le aspirazioni alla libertà di uomini e donne che, come aveva raccontato Indro Montanelli da cronista, volevano rimanere comunisti ma a modo loro.

         Nel 1956 -ha riflettuto, non raccontato Veltroni, che aveva allora solo un anno- il Pci anche a costo, evidentemente, di liberarsi del “migliore” dei suoi dirigenti, come veniva percepito e definito Togliatti, appunto, avrebbe dovuto strappare con la sua storia e costruire con i socialisti allora di Pietro Nenni un partito unico della sinistra. Vasto programma.

         Raggiunta però l’età della ragione e della consapevolezza, pur preferendo le letture americane a quelle sovietiche, se mai vi si era davvero affacciato, Veltroni aderì al Pci. E poi, dopo una rapida esperienza di governo come vice presidente del Consiglio e ministro, per non parlare del Campidoglio, al Pd direttamente da segretario, nel 2007, proponendosi di farne una forza di “vocazione maggioritaria”, senza perdersi o lasciarsi condizionare più di tanto dalla sinistra ancora orgogliosamente comunista, o estrema, o radicale. Come si diceva facendo perdere le staffe a Marco Pannella, che già ne aveva di precarie per temperamento.

         Il proposito, diciamo pure il sogno nel quale vi confido che sarei incorso anche io elettoralmente se alle elezioni del 2008 Veltroni non avesse deciso all’ultimo momento di apparentarsi con Antonio Di Pietro piuttosto che con Pannella, durò un anno e mezzo soltanto. Nel 2009 col pretesto -confessato dallo stesso Walter parlandone con Gomez- di un turno elettorale amministrativo ristretto alla Sardegna e sfortunato per il Pd- si dimise. O fu costretto a dimettersi. Al Nazareno furono abbastanza lesti e disinvolti a liberarsene, pensionandolo praticamente a soli 54 anni.  Ma, involontariamente, restituendolo al giornalismo che pratica ad un livello più stabile e lungo di una direzione, coi tempi che corrono. E’ editorialista del Corriere della Sera, dispensando consigli che naturalmente al Nazareno si guardano bene dall’ascoltare, come quello di non lasciare i problemi della sicurezza alla destra perché vi sono interessati anche gli elettori una volta tradizionali della sinistra, se non ancora di più degli elettori nuovi della destra. Che sono approdati dove sono proprio a causa delle distrazioni e dei tradimenti della sinistra.

         Non so, francamente, dove sarebbe potuto arrivare elettoralmente e politicamente il Pd con Veltroni. So bene, anzi sappiano benissimo, e lo sanno anche al Nazareno fra scambi di messaggi non sempre ermetici, dove è arrivato il Pd senza e dopo Veltroni. A coltivare l’erba in un campo tanto largo quanto arido. Dove la Schlein si è avventurata, dice lei, per costruire la cosiddetta alternativa al centrodestra, in realtà per inseguire l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, dal canto suo, deve starle il più lontano possibile, o le si deve accostare ostentando il suo disagio, perché dispone di un partito che dalle 5 Stelle di Beppe Grillo e del compianto Roberto Casaleggio, sta diventando del 5 per cento dei voti. Vedremo fra qualche ora dove è riuscito a scendere anche in Toscana, dopo il 5 delle Marche e il 6 della Calabria.

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Carofiglio coglie la Schlein in fallo politico di parole…

         Dalle “altre parole” dell’omonimo salotto televisivo di Massimo Gramellini  alle “parole precise” do Gianrico Carofiglio nelle librerie, dov’è approdato il suo “manuale di autodifesa civile” dal populismo di ogni colore, di sinistra ma anche di destra, che ci assedierebbe. E a cui cediamo spesso persino inconsapevolmente dicendo male la verità o opponendo bugie a bugie così maldestramente da rendere maggiormente credibili le prime. 

         Carofiglio è un analista, scrittore, romanziere, giallista acuto restituito ai lettori prima dalla magistratura, prudentemente abbandonata in tempo per non farsi travolgere anche lui dallo spirito di casta che la sta rovinando, altro che la riforma costituzionale della giustizia demonizzata dal sindacato delle toghe, e dalla politica. Che l’ex senatore Carofiglio ha vissuto per pochi anni, bastatigli per capire che neppure essa faceva per lui, ma continuando -credo- a sentirsi di sinistra. Forse avrebbe preferito anche lui definirsi progressista se Giuseppe Conte non ne avesse fatto terra bruciata con quell’aggettivo “indipendente” di assai scarsa affidabilità per la sua estrema personalizzazione.

         Dire male la verità, come lamenta Carofiglio, potrebbe anche essere quella rimproverata dallo scrittore alla premier Giorgia Meloni per avere indicato troppo sommariamente e drasticamente “la sinistra italiana più fondamentalista di Hamas”, anche nell’approccio al piano di pace di  Gaza concordato alla Casa Bianca fra il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, con tutto ciò che ne sta seguendo fra inversione di marcia dei profughi e rilascio degli ostaggi sopravvissuti alla loro prigionia di più di due anni. Ma dire male la verità, o dire una bugia, è anche il tipo di smentita, di negazione opposta dalla segretaria del Pd Elly Schlein alla Meloni. “Ripetere nella risposta, nella confutazione, lo stesso schema di quell’attacco scomposto -ha detto Carofiglio parlandone in una intervista alla Stampa- significa perdere prima ancora di combattere: quello che resta nell’immaginario è l’accostamento fra le parole sinistra e Hamas”.

         E’ quello che pensava, credo, Giulio Andreotti quando spiegava agli amici e familiari sorpresi del suo silenzio di fronte a certe accuse, prima ancora di quelle giudiziarie, formulate nelle cronache politiche, che smentendole si rischiasse di parlarne “due volte”. Lo racconto non per sminuire il ragionamento e la percezione di Carofiglio ma solo per riconoscere al compianto sette volte presidente del Consiglio e imputato pluriassolto, pur con i “ma” del suo ostinato accusatore Giancarlo Caselli, il pregio obbiettivo, indiscutibile che aveva di esprimere in una battuta  -non sempre felice, lo riconosco- ciò che altri traducono in un libro, anche con successo di vendite e di recensioni, come sono le interviste all’autore che ne accompagnano la diffusione.  

La nostalgia che al Nazareno dovrebbero avere di Walter Veltroni

         Il bailamme della sinistra italiana è tale che vive con imbarazzo anche  la pace avviata a Gaza e, più in generale, nel Medio Oriente perché intestatasi da due leader di destra che sono Donald Trump negli Stati Uniti e Benjamin Netanyahu in Israele, apprezzati peraltro in Italia dalla premier, anche lei di destra, Giorgia Meloni. Che è stata significativamemte invitata alla imminente cerimonia della firma di un accordo che ha fatto intanto cessare il fuoco e invertire le marce dei palestinesi: non più di fuga ma di ritorno alle loro case, o a quel poco che ne resta dopo due anni di guerra seguiti alla mattanza di ebrei compiuta dai terroristi di Hamas.  

In questo bailamme, dicevo, della sinistra italiana mi è capitato di rivedere e risentire con sollievo in qualche salotto televisivo Walter Veltroni. Che fu  il primo segretario del Pd, prodotto da una fusione “mal riuscita”, disse Massimo D’Alema, fra i resti comunisti e democristiani di sinistra, ma dovette dimettersi dopo un anno e mezzo. Formalmente, ha riconosciuto lui stesso parlandone con Peter Gomez, per una sconfitta regionale in Sardegna, in realtà per l’impossibilità avvertita di fare del Pd quello che aveva sognato: un partito, si diceva, a vocazione maggioritaria, ma prima ancora con una una fisionomia ragionevole e non rancorosa. Un partito del famoso “ma anche” che non fosse solo contro qualcuno – come erano stati il Pci prima e il Pds poi contro Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, e ora è contro Giorgia Meloni- ma anche per qualcosa. Preferibilmente di sinistra.

         Vasto programma, avrebbe detto pure  di questo la buonanima di Charles De Gaulle in una trasferta italiana. Anche con una segretaria giovane come Elly Schlein, che avrebbe potuto per la sua stessa età ed origini culturali sottrarsi alle pratiche del rancore e simili, della competizione con l’avversario e non solo della lotta spasmodica, a tutti i costi e in tutti i modi, il Pd vive solo nominalmente a sinistra. In realtà è in uno spazio indefinito, che deriva  dalla scelta non di un programma o di un altro, ma dei compagni di strada, anche di quelli che perseguono solo rivincite personali. Alludo naturalmente all’ex presidente del Consiglio pentastellato Giuseppe Conte. Dice tutto, mi pare,  il modo in cui Elly, come la chiamano i giornali nei titoli, guarda non il suo spasimante politico, diciamo così, ma il suo antagonista nel recinto pur largo, anch’esso nominalmente, della presunta alternativa al centrodestra.

         Il Pd avrebbe bisogno più di un ritorno di Veltroni alla segreteria che d’altro. Un’ipotesi del terzo tipo, cioè marziana.   

La sinistra italiana solo di nome, per niente di fatto da una cinquantina d’anni

E’ ormai da una cinquantina d’anni che la sinistra italiana è tale solo nominalmente, non facendo in realtà la sinistra e lasciando alla destra la politica di sostegno ai ceti popolari, di innovazione riformatrice e non rivoluzionaria, visto anche il fallimento della principale rivoluzione rivendicata dal comunismo nel secolo scorso con la pretesa, come si vantò una volta Giancarlo Pajetta per giustificare i troppi morti da essa prodotti, di riprendere e sviluppare la rivoluzione francese di più d un secolo prima.

         La rinuncia a fare davvero la sinistra, e non solo a intestarsela sbattendo a destra tutti quelli ai quali essa lasciava spazio elettorale e ancor più di governo, ha un filo conduttore di carattere personalistico, ancor più che politico. E ciò nella logica del nemico di cui la sinistra ha avuto il bisogno anche prima di una cinquantina d’anni fa. Quando, per esempio, il segretario del Pci Palmiro Togliatti, pur essendo stato con lui al governo come ministro della Giustizia, affrontò le elezioni politiche del 1948 proponendosi di cacciare Alcide Gasperi “a calci in culo”, letteralmente, per fortuna senza riuscirci.

         Molto dopo, alla fine degli anni Settanta, venne il turno del socialista Bettino Craxi. Al quale per avere fatto da presidente del Consiglio una cosa di sinistra come la difesa del valore reale dei salari, falcidiati da una inflazione a due cifre, il Pci di Enrico Berlinguer e poi di Alessandro Natta mosse una guerra referendaria rovinosamente perduta. I tagli alla scala mobile frono confermati. Persino il buon Giorgio Forattini appendeva Craxi nelle sue vignette su Repubblica con tanto di stivali neri appeso come ad un cappio con la testa in giù.

         Liberatasi di Craxi con l’aiuto dei magistrati, dei quali sarebbe poi rimasta dipendente rinunciando al garantismo, la sinistra italiana nel frattempo indebolita dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo si trovò a fare i conti con l’imprevisto Silvio Berlusconi, da combattere anche lui in tutti i modi, compreso quello giudiziario.

         Il riformismo anche costituzionale di Berlusconi, come quello abbozzato da Craxi senza avere avuto il tempo di praticarlo, divenne sostanziale golpismo nella rappresentazione della sinistra. Che tuttavia cercò di imitarlo quando pensò, con la riforma del titolo quinto della Costituzione sulle autonomie regionali, di poter impedire la ripresa dell’alleanza fra lo stesso Berlusconi e la Lega di Umberto Bossi, interrottasi alla fine del 1994. Ma fu un doppio fallimento. Il centrodestra si ricompose lo stesso e di quella riforma la stessa sinistra dovette pentirsi per i problemi che derivarono anche ai governi non di centrodestra,   succedutisi con una frequenza persino superiore a quelli della cosiddetta prima Repubblica.

         Ora è turno di Giorgia Meloni, in odio alla quale -odio vero, di parole e di  fatti di piazza, di cui peraltro la premier non può lamentarsi senza essere accusata di vittimismo e simili-  la sinistra tradisce paradossalmente anche le istanze di pace che dovrebbero caratterizzarla per prime.

 Già limitatasi nella parte più consistente rappresentata dal Pd ad astenersi in Parlamento su una mozione della maggioranza a sostegno del piano di pace concordato fra Trump e Netanyahu su Gaza, temendo di compromettere con un voto favorevole i rapporti con Giuseppe Conte nel camposanto dell’alternativa al centrodestra, la sinistra sta cercando di minimizzarlo, e persino di demolirlo scavalcando persino i terroristi palestinesi di Hamas. Ho letto e sentito dalle parti della sinistra italiana, in Parlamento e nei salotti televisivi, di una soluzione “neo-colonialista” del problema di Gaza che la Meloni avrebbe quindi già commesso l’errore, la colpa e quant’altro di sostenere, pronta anche a contribuirvi, nel suo presunto rapporto subordinato con Trump. Che è il nemico addirittura planetario della sinistra italiana.

Pubblicato su Libero

Gaza battuta dal Venezuela nella partita del premio Nobel della pace

         Nonostante le immagini di quei duecentomila palestinesi in marcia invertita, non per fuggire ma per tornare alle loro case, o a ciò che n’è rimasto, grazie al processo di pace che fatto cessare i bombardamenti, immagini arrivate a Oslo fuori tempo massimo, Gaza è stata battuta dal Venezuela, martoriata dalla dittatura,  nella partita del premio Nobel della pace. Gaza, ripeto, più ancora del presidente americano Trump che, pur complimentandosi con l’oppositrice venezuelana Maria Corina Machado premiata per questa edizione 2025, ha protestato contro la natura “politica” del premio intestato all’inventore della dinamite. Che volle con ciò redimersi dal contributo dato alle guerre con il suo ingegno.

         Sarà, spero, per la prossima volta, fra un anno, se Trump riuscirà a far cessare anche la guerra in Ucraina. E il gioco che si sta prendendo di lui a Mosca lo zar di turno Putin, che continua imperterrito a rovesciare sugli ucraini da più tre anni fuoco e morte.

Quando può toccare alla destra fare la sinistra in Italia e altrove

ll paradosso segnalato da Davide Varì di una pace “non a caso” costruita a Gaza più che dalle piazze di sinistra e dintorni, e governi di quel colore, da “Trump, l’amico americano di Meloni”, entrambi di destra, chiude il cerchio di una realtà avvertita già nel secolo scorso da Gianni Agnelli sul piano economico. Tocca alla destra, disse, fare una politica di sinistra.

         Era il tempo in cui, per esempio, la difesa del valore reale dei salari, falcidiati da un’inflazione a due cifre, fu assunta dal primo governo di Bettino Craxi tagliando o rallentando la scala mobile fra le proteste della sinistra. Che fu spinta dal segretario del Pci Enrico Berlinguer nei suoi ultimi giorni di vita verso un referendum abrogativo intestatosi dalla Cgil e clamorosamente perduto l’anno dopo, nel 1985. Clamorosamente per la sinistra come 11 anni prima per la Dc col referendum contro il divorzio.

         Ricordo che il presidente socialista del Consiglio, il primo nella storia d’Italia, a capo di una coalizione pentapartitica, estesa dal Pli al Psi attraverso la Dc, non gradì di essere sbattuto a destra da Gianni Agnelli. Ma prima ancora che dal capo della Fiat egli era stato sbattuto a destra dal Pci, con le sue reazioni parlamentari e di piazza, e dagli umori più generali di un’area che si sentiva di sinistra o progressista, si direbbe adesso alla maniera di Giuseppe Conte. Il povero Bettino era già finito nelle vignette del buon Giorgio Forattini su Repubblica appeso ad una forca con la testa in giù, e con tanto di stivali inconfondibilmente mussoliniani. Questo era il clima di quei tempi.

         Allo stesso modo nella Democrazia Cristiana un uomo dichiaratamente, orgogliosamente di sinistra come Carlo Donat-Cattin, il capo della corrente Forze Nuove proveniente dal mondo sindacale, fu sbattuto a destra, anche nel suo partito dalla sinistra concorrente di Ciriaco De Mita, per il suo anticomunismo. Per quel “mai” pronunciato parlando del compromesso storico proposto allo scudo crociato dal Pci berlingueriano. Poi Aldo Moro lo convinse pazientemente ad accettare, o subire, una versione ridotta della proposta comunista all’insegna dell’emergenza e della “solidarietà nazionale”. Realizzata con due governi monocolori democristiani, sostenti dal Pci esternamente e presieduti da un uomo come Giulio Andreotti.  Che di certo non si poteva considerare di sinistra, convinto com’era che i voti perduti ogni tanto dalla Dc a destra, a vantaggio del Movimento Sociale di Giorgio Almirante, fossero solo “in libera uscita”, destinati a tornare allo scudo crociato, come in effetti avveniva.

         I limiti tuttora della sinistra sono diventati macroscopici oltre che sul terreno internazionale avvertito dal direttore del Dubbio, con la pace a Gaza costruita più a destra che a sinistra, e si spera in tempi ragionevoli anche in Ucraina, dove si muore di guerra da ancora più tempo; i limiti, dicevo, della sinistra sono evidenti anche sul terreno  della sicurezza interna, derivata o no  dal fenomeno della immigrazione clandestina. Ne scrive spesso, inascoltato al Nazareno e dintorni il primo ed ex -appunto- segretario del Pd Walter Veltroni sul Corriere della Sera.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 12 ottobre

L’affondo della Camera, e di Nordio, contro il tribunale dei ministri

         In un giorno già fortunato di suo per il percorso positivo del piano di pace a Gaza di Trump e Netanyahu su cui la premier italiana Giorgia Meloni aveva scommesso, piuttosto che sulle piazze, il governo ha chiuso anche la vicenda giudiziaria dei ministri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e del sottosegretario Alfredo Mantovano, con la delega dei servizi segreti. Che il competente tribunale, quello appunto dei ministri, voleva processare per favoreggiamento del generale libico Almasri, arrestato in Italia per crimini contro l’umanità su ordine della Corte internazionale penale dell’Aja e  rapidamente rimpatriato dopo la scarcerazione disposta doverosamente  dalla stessa magistratura per una mancata, sostanziale convalida del ministro della Giustizia. Che è richiesta in questi casi dalla legge.

         La Camera, accogliendo una proposta della competente giunta per le autorizzazioni, dove il relatore del Pd favorevole al processo era stato messo in minoranza e sostituito dal forzista Piero Pittalis, ha respinto la richiesta del tribunale dei ministri con tre votazioni, una per ciascuno dei tre esponenti del governo indagati. Il ministro della Giustizia Nordio e il sottosegretario Mantovano hanno raccolto a loro favore 251 voti, 256 il ministro dell’Interno Piantedosi, rispettivamente 9 e 14 più dei deputati della maggioranza partecipanti alle votazioni, col concorso quindi di alcuni delle opposizioni a scrutinio segreto: i cosiddetti “franchi tiratori”. Che hanno riconosciuto anch’essi, quindi, che gli indagati avevano agito “a tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”, come prevede l’articolo 9 della legge costituzionale numero 1 del 1989 che disciplina il tribunale dei ministri. Interesse costituito, nel caso esaminato alla Camera, dalla minaccia in cui si trovavano, a causa delle condizioni in cui si trovava in Italia il generale Almasri, cittadini e aziende italiane in Libia. Dove erano a rischio anche i pur limitati controlli dell’emigrazione clandestina verso l’Italia via mare.  

         La Meloni ha tenuto ad essere presente e votante. E si è complimentata con i suoi ministri e il suo sottosegretario guadagnandosi le immancabili critiche e proteste degli oppositori. Ancora di più insorti poi, insieme con l’associazione nazionale dei magistrati, contro l’affondo del Guardasigilli contro il tribunale dei ministri. Che -ha dichiarato Nordio- ha fatto tale “strazio delle norme più elementari del diritto da stupirsi che non gli siano schizzati i codici dalle mani, ammesso che li abbiano consultati”.  Parole tanto più significative se si considera la lunga esperienza di magistrato del ministro.

Ripreso da http://www.startmag.it

Meloni chiamata a rapporto dalle opposizioni alla Camera su Gaza

         Per quanto affrettatasi ad esprimere la sua soddisfazione per gli sviluppi finalmente positivi della situazione a Gaza, e ringraziare il presidente americano Donald Trump  per il piano concordato col premier Israeliano, l’Egitto, il Qatar e la Turchia per gli “sforzi costruttivi” con i quali hanno assecondato le trattative propedeutiche alla cessazione del fuoco, al rilascio degli ostaggi dei terroristi palestinesi in terra israeliana sopravvissuti alla prigionia, al ritiro graduale delle truppe israeliane e  tutto il resto, la premier Giorgia Meloni è stata chiamata dalle opposizioni a “riferire” alla Camera. Dove già la presidente del Consiglio era presente questa mattina per la seduta destinata al rifiuto della richiesta del tribunale dei ministri di processare i titolari dei dicasteri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e il sottosegretario ala Presidenza del Consiglio con delega dei servizi segreti, Alfredo Mantovano, per l’affare del generale libico Almasri.

         Più delle notizie provenienti dall’Egitto sulle trattative per Gaza premeva e preme tuttora alle opposizioni l’occasione di un altro dibattito polemico contro il governo al solito rimorchio, secondo loro, di Trump, e all’altrettanto solito servizio di Netanyahu anche nella presunta pratica di genocidio attuata a Gaza, per quanto la Meloni abbia più volte lamentato, e in più sedi, anche all’assemblea delle Nazioni Unite, il carattere “sproporzionato” della reazione israeliana al pogrom dei terroristi palestinesi del 7 ottobre 2023.

         Nel chiedere di riferire alle Camere l’opposizione particolarmente del Pd si è vantata di avere “responsabilmente” contribuito di recente all’approvazione parlamentare, in Italia, del piano per Gaza concordato fra Trump e Netanyahu. In realtà, il Pd pur di mantenere i rapporti con Giuseppe Conte nel cosiddetto campo largo, ha praticato solo l’astensione decisa dalla segretaria Elly Schlein nella votazione sulla mozione della maggioranza. E’ seguita qualche  giorno dopo una dura polemica dell’ex capogruppo al Senato Luigi Zanda, tra i fondatori del Pd, che si aspettava un voto onestamente e chiaramente favorevole.  

Il soccorso di Mattarella a Santa Caterina da Siena separata da San Francesco

         Si sprecano un po’ in tutti giornali, ma in particolare sul Corriere della Sera nell’articolo di Monica Guerzoni, aggettivi e definizioni muscolari della lettera critica inviata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai presidenti delle Camere sulla legge, pur promulgata da lui stesso, che ha ripristinato dall’anno prossimo la festa nazionale di San Francesco d’Assisi. Eppure è stata una legge approvata in via definitiva il 23 settembre scorso a Montecitorio all’unanimità, per cui non si può dire che il capo dello Stato, come pure ho letto da qualche parte, abbia fatto le pulci, o qualcosa di simile, al governo. Le ha fatte piuttosto alla maggioranza e alle opposizioni, ritrovatesi insieme a sostenere una proposta di legge dell’ex ministro Maurizio Lupi, intestatario nell’area di centrodestra di un partitino chiamato “Noi moderati”. E fedeli, naturalmente, di San Francesco d’Assisi.

         Infilatosi addosso metaforicamente  un saio francescano, Lupi ha trovato il modo di vedere e indicare nell’intervento del Capo dello Stato una valorizzazione ulteriore della sua legge esprimendo la certezza di soddisfare attese, richieste e quant’altro del Quirinale senza  compromettere il ripristino della festa nazionale soppressa nel 1977 da uno dei sette governi di Giulio Andreotti, in epoca risparmiosa di “solidarietà nazionale”. Potrebbe essere, per esempio,  separata da quella di Santa Caterina da Sena. In soccorso della quale, per venerazione, esposizione e quant’altro, Mattarella è intervenuto sostenendo che insieme le due feste non possono tornare con uno stato “diverso”: festa nazionale quella di San Francesco, solennità civile quella di santa Caterina. Che non potrebbe essere ricordata con lezioni, riflessioni e altro nelle scuole chiuse per festeggiare San Francesco.

         In verità, San Francesco l’anno prossimo ricorrerà di domenica, a dispetto delle scommesse sul solito ponte, per cui Santa Caterina non potrà comunque subire menomazioni celebrative. Ma di certo nell’anno successivo il problema potrebbe porsi nel suo aspetto imbarazzante, per cui converrebbe intervenire in tempo.

         Santa Caterina, stando alle voci che già circolano negli ambienti parlamentari, potrebbe essere spostata nel calendario delle feste al 29 aprile. Che è già quella dedicatale come vergine e dottore della Chiesa, patrona d’Italia e d’Europa.

         Per tornare all’argomento iniziale, mi chiedo se davvero fosse il caso non dico di assumere da parte del Capo dello Stato un’iniziativa così clamorosa nell’aspetto mediatico e politico, ma di riferirne come “energica strigliata” dopo “il papocchio” parlamentare e via leggendo, ripeto, Monica Guerzoni sul Corriere della Sera.

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