Le solidarietà, ma anche le critiche meritate da Sigfrido Ranucci per il suo Report

Mi associo alle solidarietà una volta tanto bipartisan, come si dice, al collega Sigfrido Ranucci per il grave attentato subìto a Pomezia. Dove abita il responsabile della trasmissione televisiva Report, della Rai. Ma mi associo alla maniera di Ennio Chiodi, che gli è stato superiore, e non solo collega. E ha consigliato su Facebook di lasciarlo adesso “lavorare senza beatificazioni, consentendo a tutti di apprezzare o criticare il suo lavoro e quello dei suoi collaboratori”. Lavoro d’inchiesta di cui Chiodi è rispettoso ma non entusiasta avendovi avvertito “negli ultimi anni” tracce, diciamo così, della “deriva di un giornalismo non sempre documentato correttamente e decisamente indirizzato”. “Posso dirlo?” si è chiesto Chiodi rispondendosi: “Devo dirlo”.

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Lo scudo di Paola Taverna a Giuseppe Conte sotto le cinque stelle

         Paola Taverna, 56 anni e mezzo, popolana anche di nome, che non è un modo di offenderla perché associata alla “simpatia” nel dizionario della lingua italiana ignorato da Maurizio Landini nel dare della cortigiana alla premier Giorgia Meloni, senza poi avvertire almeno il buon gusto di scusarsi; Paola Taverna, dicevo, ne ha fatta di strada politicamente da quando arrivò in Parlamento col proposito dichiarato dal partito pentastellato, che ve l’aveva mandata, di aprirlo come una scatoletta di tonno. Che generalmente, come si sa, si svuota mangiandone il contenuto e poi si butta.

         Arrivata alla vice presidenza del Senato, nella cui aula l’ancor giovane grillina si era fatta notare gridando a Silvio Berlusconi che moriva dalla voglia di sputargli o di vomitargli addosso, non ricordo bene perché è passato del tempo, la Taverna non è riuscita a rimanervi per più di due legislature. Ciò a causa di noti problemi statutari del suo partito, non per demerito, avrebbe il diritto di vantarsi. Ma l’ex presidente del Consiglio e ora soltanto presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, peraltro scaduto e perciò in condizioni di proroga, l’ha voluta accanto a lui come vice presidente vicaria, superiore  perciò agli altri, anche all’ex sindaca di Torino e deputata Chiara Appendino, 41 anni compiuti a giugno.

         Sì, è proprio lei, l’Appendino che ha appena contestato a Conte le perdite elettorali procurate al partito col suo rapporto non abbastanza autonomo col Pd, fatto più di accordi locali, per esempio, che di disaccordi. E a livello nazionale più di fiancheggiamento che di distanza dal partito di Elly Schlein nel cosiddetto campo largo. Che non è -è vero- una formula gradita a Conte, che lo vorrebbe solo “giusto”, ma è pur sempre una realtà mediatica e politica: un campo in cui ci sono anche  tende metaforiche, per ora, destinate a tipi come Matteo Renzi: il diavolo che prima allungò e poi interruppe spavaldamente l’esperienza persino cavouriana dello stesso Conte a Palazzo Chigi. Cavouriana naturalmente da Cavour, l’unico capo di governo più bravo di Conte nella storia d’Italia che Marco Travaglio racconta sul suo Fatto Quotidiano.

         La Taverna, per tornare a lei, ha difeso come una guardia di sicurezza il suo presidente sostenendo che l’Appendino non abbia il diritto di contestargli i risultati dei rapporti col Pd dopo avere voluto nel suo Piemonte un isolamento orgoglioso all’opposizione che ha ridotto il Movimento 5 Stelle al 6 per cento. Che sarebbe più o meno in linea con la consistenza del partito appena registrata col voto regionale nelle Marche, in Calabria e nella Toscana. Dove tuttavia -la Toscana cioè- i pentastellati sono scesi al 4 per cento sostenendo la conferma di un governatore del Pd, Eugenio Giani, già socialista, osteggiato nella legislatura precedente. Al quale la Taverna da Roma, con le funzioni ricevute da Conte, ha contribuito ad assegnare un programma nominalmente nuovo, anzi “discontinuo”.  Di quanto si vedrà.

Quando Cossiga difese Craxi dal Consiglio Superiore della Magistratura

Sono passati 40 anni non solo dalla notte di Sigonella, celebrata in questi giorni anche da noi, del Dubbio, per il punto di non ritorno che segnò, a livello nazionale e internazionale, nei rapporti fra gli Stati Uniti e l’Italia. Il cui presidente del Consiglio Bettino Craxi, anche a costo di far dimettere ma poi recuperare il ministro della Difesa Giovanni Spadolini, negò in un drammatico scenario militare nella base siciliana la consegna dei terroristi palestinesi responsabili del dirottamento della nave Achille Lauro. Durante il quale era stato ucciso il crocerista ebreo di nazionalità americana e invalido Leon Klinghoffer.

Quei terroristi -impose Craxi ad un Reagan che li reclamava- potevano e dovevano essere processati, come furono, solo in Italia. Persino un’opposizione agguerrita come quella del Pci, che viveva la presidenza socialista del Consiglio come una doppia tragedia politica, riconobbe a Craxi in Parlamento di essersi comportato al meglio.

         Sono passati 40 anni anche da un’altra notte, non nella lontana Sigonella ma a Roma, in Piazza Indipendenza. Dove Francesco Cossiga, ancora fresco di elezione al Quirinale succedendo a Sandro Pertini, aveva disposto la mobilitazione di un reparto antinsurrezionale dei Carabinieri, al comando di un generale di brigata, per un intervento sul Consiglio Superiore della Magistratura, di cui era presidente per dettato costituzionale, se in una riunione dalla quale lui lo aveva diffidato si fosse occupato dell’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Che aveva avuto da ridire, solidarizzando con alcuni deputati del suo Psi, a cominciare da Ugo Intini, sul trattamento giudiziario da sconto riservato ai responsabili dell’agguato mortale al giornalista Walter Tobagi, del Corriere della Sera. Un agguato col quale essi abevano contato di guadagnarsi l’arruolamento nelle brigate rosse.  

         Fu una notte, accompagnata dal ritiro delle deleghe al vice presidente del Consiglio Superiore Giovanni Galloni, amico e collega di partito, la Dc, in cui Cossiga voleva segnare un punto di non ritorno nei rapporti fra magistratura e politica, impedendo un processo a Craxi alle spalle del Parlamento che gli aveva concesso la fiducia e, unico, poteva negargliela. Craxi naturalmente ringraziò, la magistratura e la sinistra capeggiata dal Pci no. E si presero la rivincita, a modo loro, dopo meno di dieci anni troncandogli la carriera e la stessa vita, sia pure per interposto tumore renale e complicazioni cardiache.

         Quel no al processo a Craxi nel Consiglio Superiore della Magistratura doveva essere un punto di non ritorno anch’esso, ripeto, come quello a Sigonella sui rapporti fra alleati nella Nato. Ma si profila proprio in questi giorni un ritorno col processo che si vorrebbe fare nel Consiglio Superiore non, o non ancora al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma al suo ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un processo simulato come “pratica a tutela” del tribunale dei ministri, che avrebbe voluto fare un processo giudiziario al Guardasigilli, ed altri colleghi di governo, per l’affare Almasri. Un processo non autorizzato dalla Camera e nella cui impostazione Nordio ha, nel suo stile di estrema franchezza, ravvisato gravi errori, a dir poco.

Pubblicato sul Dubbio

Il processo surrettizio a Nordio con la “tutela” del tribunale dei ministri

E’ in corso al Consiglio Superiore della Magistratura, su iniziativa di almeno quindici esponenti, secondo i calcoli e le cronache del Fatto Quotidiano, la procedura di una “pratica a tutela”, la sesta o settima in questo 2025, di toghe e uffici che sarebbero minacciati da iniziative e critiche fuori misura, diciamo così. Questa volta la tutela sarebbe, in particolare, per il tribunale dei ministri. Che ha inutilmente cercato di processare per l’affare del generale libico Almasri, i titolari dei dicasteri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega dei servizi segreti, Alfredo Mantovano.

         Il processo in tribunale per favoreggiamento e altro del libico rimpatriato, di cui la Corte internazionale penale dell’Aja aveva disposto un arresto per crimini contro l’umanità eseguito in Italia in circostanze e modalità controverse, riconosciute dalla stessa magistratura liberandolo, non si farà. O forse si farà, come stanno cercando in Procura a Roma, solo contro il capo di Gabinetto di Nordio, se dovesse permetterlo, a questo punto, la Corte Costituzionale cui potrebbe ricorrere la Camera.  Ma un processo a Nordio in persona vorrebbe essere fatto nel Consiglio Superiore in modo virtuale ma pur sempre significativo nel suo carattere indiretto e subdolo.

         L’iniziativa è stata presa dalle componenti togate e laiche della sinistra giudiziaria e politica. Non vi hanno contribuite quelle di area di centrodestra, compresa la corrente chiamata “Magistratura indipendente”, cui mi risulta che appartenga ancora il presidente dell’associazione nazionale delle toghe Cesare Parodi.

         Non vorrei essere troppo malizioso, toppo incline andreottianamente a pensare male facendo peccato ma indovinando, o azzeccandoci, direbbe Antonio Di Pietro. Tuttavia questa storia del processo indiretto  al ministro della Giustizia nel Palazzo dei Marescialli, che è la sede del Consiglio Superiore della Magistratura, mi sembra anche un tentativo di tirare la giacca al presidente dell’organo di autogoverno delle toghe, che per Costituzione è lo stesso Capo dello Stato. Del quale ho perso il conto, da giornalista ed estimatore, degli interventi verbali e operativi di fiducia, pur nel contesto di qualche situazione a dir poco critica, nella volontà e capacità, e non solo dovere, della magistratura ad un rapporto “cooperativo” fra gli organi dello Stato.

         Ebbene, a costo di sembrarvi ingenuo se non malizioso, ripeto, mi sembra francamente un tradimento della fiducia del presidente della Repubblica un processo pur virtuale, nascosto fra le pieghe di una “pratica a tutela” del tribunale dei ministri, al Guardasigilli colpevole di avere criticato con la sua solita franchezza errori e quant’altro ravvisati, anche con la sua lunga esperienza giudiziaria, nelle indagini e nella impostazione del procedimento contro di lui vanificato dalla Camera.

         Ora potrebbe toccare con la copertura di una pratica, ripeto, a tutela di un magistrato o di un ufficio giudiziario, al ministro della Giustizia, Domani o dopodomani potrebbe accadere a Giorgia Meloni, viste le possibilità che ha di rimanere  a Palazzo Chigi anche dopo le prossime elezioni politiche, o di salire ancora più in alto, e la sua abituale franchezza nel parlare pure lei dei rapporti fra magistratura e politica.

Vi si arrivò ad un palmo anche quaranta anni fa con l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi e Francesco Cossiga al Quirinale. Che, anche a costo forse di fare sobbalzare al Senato il suo predecessore Sandro Pertini, di rompere i rapporti con l’amico di partito Giovanni Galloni, privandolo delle deleghe come vice presidente del Consiglio Superiore e di tirare giù dal letto un generale di brigata -come avrebbe raccontato a Paolo Guzzanti autorizzandolo a riferirne- per fargli comandare un reparto antisommossa dei Carabinieri, impedì fisicamente quel processo.

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Maurizio Landini la fa tanto grossa da non riuscire a coprirla

         La buonanima di Amintore Fanfani ordinava nel suo toscano stretto, con tutte le aspirazioni del caso, di coprirla a chi, secondo lui, l’aveva fatta o detta grossa. Erano gli anni Sessanta, naturalmente del secolo scorso. Maurizio Landini, che ne ha 64, era solo un bambino.  E, avendole qualche giorno fa dato della “cortigiana” nei rapporti col presidente americano Donald Trump si è sentito dare da Giorgia Meloni una lezione di italiano, sfogliandone un dizionario in cui si dà della cortigiana anche ad una prostituta, e non solo a chi frequenta una qualsiasi corte. O cortile, magari, come ho sentito scherzare in un salotto televisivo in cui la conduttrice non si è lasciata scappare l’occasione per imbastire un mezzo processo, il solito, alla premier troppo vittimista e permalosa, secondo lei e i suoi ospiti solitamente pronti a guadagnarsi un altro invito.

         Nessuno degli ospiti di Lilli Gruber, e tanto meno lei, ha voluto dare a Landini, assente non so se per mancata chiamata o per rifiuto, dell’incontinente. Forse temendo che il segretario generale della Cgil e un po’ anche custode, diciamo così, del cosiddetto campo largo dell’altrettanto cosiddetta alternativa al centrodestra della Meloni, si mettesse a sfogliare il dizionario pure lui, come la premier, e rinfacciasse loro l’aspetto anche urinario, diciamo così,  che ha appunto l’incontinenza. Come quella di chi nei giorni scorsi ha fatto la pipì sull’altare principale della Basilica di San Pietro.

         E pensare che all’ultimo congresso della Cgil non un omonimo, ma proprio Maurizio Landini invitò e accolse con cordialità e galanteria la premier, rimediando anche qualche fischio del pubblico fermo alla rappresentazione della presidente del Consiglio come di una fascista irriducibile, arrivata a Palazzo Chigi per vendicare Mussolini, che vi era già passato nel suo ventennio come ministro degli Esteri, a pochi passi da Palazzo Venezia.

Di quell’accoglienza di Landini alla Meloni, scortata dal suo allora portavoce Mario Sechi, si trova ancora qualche foto navigando per internet. Foto che debbono essere diventate per il segretario generale, ripeto, della Cgil un’ossessione da cui riscattarsi, sino a farla -per tornare alla buonanima di Fanfani- tanto grossa da non poterla coprire. E da arruolarsi, paradossalmente, negli avversari della Meloni che masochisticamente lavorano di giorno e di notte per lei, spianandole con i loro errori  la strada per la conferma alla guida del governo dopo le elezioni, fra  due anni, e poi forse anche per la promozione al Quirinale, scadendo due anni ancora dopo il secondo mandato del presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

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Giuseppe Conte come Don Ferrante nei Promessi Sposi di Manzoni

         Avevamo lasciato Giuseppe Conte, presidente in prorogatio, come si dice in latino di chi resta al suo posto anche dopo la scadenza del mandato, in attesa di essere sostituito o confermato ripristinando legittimità piena, in versione ingraiana -da Pietro Ingrao dei tempi del Pci- in un intervento alla Camera sulla guerra di Gaza e dintorni. Un Conte ingraiano dopo quello moroteo -da Aldo Moro dei tempi democristiani- o sulliano -da Fiorentino Sullo, da lui personalmente celebrato quando era ancora presidente del Consiglio parlandone in un teatro campano alla presenza di un ancora vivo Ciriaco De Mita, che con Sullo tuttavia aveva duramente rotto nella D,  o semplicemente camaleontico per la rapidità, la disinvoltura e quant’altro con cui sapeva e sa spostarsi nello scacchiere politico.

Non a caso, del resto, nel 2019 il già “avvocato del popolo” rimase presidente del Consiglio, dopo la crisi apertasi per le ambizioni politiche e personali del suo allora vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, sostituendo i leghisti, appunto, col Pd dei post-comunisti e post-democristiani nella maggioranza e nel governo. E altro ancora egli  avrebbe fatto nel 2021, sempre per restare a Palazzo Chigi sostituendo i renziani ritiratisi dalla maggioranza, se il presidente della Repubblica Sergio Mattarella glielo avesse permesso. Ma il Capo dello Stato commissariò in qualche modo Palazzo Chigi mandamdovi l’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che Conte, obbligato da Beppe Grillo che ancora disponeva del MoVimento 5 Stelle, ingoiò tanto malvolentieri da vomitarlo -politicamente parlando- nell’anno successivo, anche a costo di spianare la strada elettorale e istituzionale al centrodestra di Giorgia Meloni.

Ma finiamola di parlare del passato e torniamo al presente, dicevo, manzoniano. Nel cui mondo letterario, di fronte alle dimissioni minacciate della vice presidente del partito Chiara Appendino , ex sindaca di Torino, pur di dare una “scossa” per la sua ormai costante crisi elettorale, Conte ha attinto indossando praticamente i panni, la postura e quant’altro di Don Ferrante. Che nei Promessi Sposi minimizza la peste di Milano sino a morirne, non metaforicamente ma davvero, fisicamente.

E Beppe Grillo, a Genova o dintorni, che cosa fa? Continua a tacere, credo anche lui minacciosamente, come l’Appendino minacciando dimissioni che Conte sostiene di non avere nemmeno percepito, attribuendole alla fantasia o alle forzature dei giornalisti. Grillo nel suo blog personale preferisce sognare, per esempio, un mondo affollato di bicilette per salvaguardarlo dall’inquinamento, pur se a Roma, per esempio, le poste ciclabili provocano più proteste  che consensi fra i cittadini che, già sopravvissuti alla sindaca pentastellata Virginia Raggi, sopravviveranno anche alle automobili che pure li intossicano.

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Il ritorno al Quirinale di un Papa, Leone XIV, refrattario al populismo

         Cortile, pareti e soffitti del Quirinale sono tornati con Leone XIV, in visita ufficiale ieri sul colle più alto di Roma, ricevuto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e omaggiato poi dalle più alte cariche dello Stato, a cominciare dalla premier Giorgia Meloni fresca della storica missione in Egitto per la firma del piano di pace a Gaza; cortile, pareti e soffitti del Quirinale, dicevo, sono tornati a vedere un Papa come ai tempi in cui i Pontefici vi dimoravano. Con tutti i paramenti che nelle occasioni di rilievo danno della figura del Papa un aspetto solenne.

         Il 18 aprile di dieci anni fa era salito al Colle, ospite sempre di Mattarella, Papa Francesco indossando solo, semplicemente la sua tonaca bianca, senza stola e tutto il resto. E non a caso, avendo lui voluto segnare con quel modo di vestirsi, anche in circostanze ufficiali di un certo peso, una svolta nella storia di Santa Romana Chiesa. Una svolta piaciuta tanto ai populisti in servizio permanente ed effettivo, che forse hanno avvertito ieri, vedendo le immagini trasmesse dal Quirinale, un certo rimpianto.

         Personalmente preferisco lo spettacolo, diciamo così, di ieri. Non tanto per conservatorismo, che pure ha i suoi pregi e non solo difetti, ma per anti-populismo, appunto. L’abito fa il Papa, non solo il monaco.

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La bella e la bestia in versione internazionale con Trump e Meloni in Egitto

         La penultima edizione, dovendosene prevedere altre, dell’antica fiaba della bella e della bestia è stata vissuta o vista nella scena in mondovisione del presidente americano Donald Trump che ha accolto la premier italiana Giorgia Meloni alla cerimonia, in Egitto, della firma del piano di pace a Gaza dandole della bella. Anzi, della bellissima nella traduzione del salotto televisivo della ironica, diciamo così, Lilli Gruber in Italia. Tanta galanteria fisica, oltre che politica, non è stata gradita a sinistra.

         Questo diavolo di Trump si permette insomma non solo di svuotare le piazze non dico di persone, perché ce ne saranno sempre di disposte a riempirle, ma di argomenti sul tema della pace, ma anche di continuare ad apprezzare una Meloni ora proiettata dai suoi stessi, ossessionati avversari in uno scenario quirinalizio. Che potrebbe anch’esso diventare femminile, come è diventato concretamente Palazzo Chigi tre anni fa con la vittoria elettorale del centrodestra a trazione meloniana, dopo la lunga edizione berlusconiana e quella breve del leghista Matteo Salvini, emersa dalle elezioni politiche del 2018. Che portarono il leader leghista a Palazzo Chigi come vice presidente del Consiglio di Giuseppe col permesso di un Silvio Berlusconi in persona pur rimasto all’opposizione di una curiosa, anomala combinazione, durata non a caso poco più di un anno.

         Questo diavolo di Trump, dicevo, è riuscito ad associare alla pace a Gaza, o al suo “spiraglio” come altri preferiscono dire con prudenza, quanto meno, se non con diffidenza, una Meloni guadagnatasi nelle piazze filopalestinesi, ma anche in Parlamento e naturalmente nelle trasmissioni televisive, l’accusa di essere addirittura “complice del genocidio” attribuito a Israele per la sua ostinazione a vivere. E a sopravvivere anche ad una mattanza così oscena, e pur scambiata a sinistra per resistenza, come quella del 7 ottobre di due anni fa compiuta in territorio israeliano dai terroristi di Hamas con 1200 morti e 250 sequestrati per farne ostaggio, con la stessa popolazione di Gaza, nella guerra che ne sarebbe seguita. Una sequenza di date e di numeri che neppure l’onusiana -da Onu- Francesca Albanese riuscirà mai a cancellare, o ad attribuirla al caso, o addirittura agli stessi israeliani per essersela cercata.

         Meno male che in un frangente internazionale delicatissimo come questo, in cui si deve costruire giorno dopo giorno la pace in Medio Oriente, e un’altra guerra continua, in Ucraina, nella sostanziale indifferenza delle piazze pur ancora solerti per Gaza, l’Italia gode di una stabilità politica, e di una conseguente chiarezza e affidabilità, che curiosamente viene apprezzata più all’estero che a Roma. L’Italia con quel suo stivale strategico immerso nel Mediterraneo e nel fronte meridionale dell’Occidente.

Meno male, ripeto. Viene la pelle d’oca solo a immaginare a livello nazionale lo scenario politico della Toscana appena emerso dalle elezioni regionali. Dove il cosiddetto campo largo vince, ma in un mezzo deserto prodotto dalla fuga degli elettori dalle urne e con un socio di maggioranza così poco convinto, o così tanto sofferente per sua stessa dichiarazione, precipitato al suo minimo storico e astenutosi dalla festa a Firenze.  Alludo naturalmente al pentastellato ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che dovrà prevedibilmente farsi perdonare la sua adesione al progetto di conferma del governatore del Pd Eugenio Giani, osteggiato nella precedente legislatura regionale, rendendogli la vita difficile, a dir poco.  Per  fortuna nelle regioni non si fa anche, o non ancora, politica estera, come la sinistra nelle Marche e in Calabria si era cervelloticamente proposta offrendosi al riconoscimento senza condizioni dello Stato della Palestina. Una imprudenza, velleità e quant’altro che ha consentito la conferma del governatore uscente di centro destra in Calabria, per esempio, con 16 punti di distacco di Occhiuto su Tricarico, tre in più di quelli, in Toscana, di Giani su Tomasi

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Il sottosopra toscano del campo largo vincente e del centrodestra battuto

Dietro lo scenario toscano di una vittoria netta del cosiddetto campo largo della sinistra, alternativa al centrodestra nazionale, c’è un mondo sottosopra -per dirla letterariamente col generale Roberto Vannacci- che merita qualche attenzione. E rende le immagini meno nitide dell’apparenza, o di un approccio sommario.

         Il governatore regionale appena confermato nella persona di Eugenio Giani, osteggiato dal partito delle 5 Stelle nella passata legislatura, e già ingombrante di suo per le “difficoltà” ammesse da Giuseppe Conte nell’adesione alla sua ricandidatura, ha avuto l’inconveniente, diciamo così, di vincere riducendo però al 4 per cento, ancora meno delle Marche, il movimento dell’ex presidente del Consiglio. Che, come paralizzato da un risultato peggiore di quello che aveva forse già messo nel conto, pur partendo dal 7 per cento delle elezioni regionali di cinque anni e non dall’11 delle elezioni politiche di tre anni fa, ha declinato l’invito a partecipare alla festa fiorentina del governatore confermato. Ha preferito leccarsi metaforicamente le ferite a Roma, cioè a casa.

         Non vorrei essere o apparire prevenuto, e persino menagramo, ma ho la sensazione che il pur navigato Giani non avrà vita facile né formando la giunta regionale né attuando un programma necessariamente più abbozzato che concordato. Necessariamente, perché a volerlo definire meglio il campo largo si sarebbe subito ristretto.

         Avrà, Giani, vita difficile anche perché il 4 per cento e rotti delle 5 Stelle di Conte è meno della metà del quasi 9 per cento conquistato dalla “casa riformista” di Matteo Renzi. Che in Toscana gioca a casa e non è tipo da rinunciare a far valere i suoi voti, per quanto sia imprevedibile.

         Sul versante del centrodestra abbiamo la sofferenza della Lega, precipitata dal quasi 22 per cento delle elezioni regionali di cinque anni fa ad un 6 per cento inferiore al quasi 7 che ha consentito a Forza Italia di collocarsi, e  non solo di sentirsi al secondo posto, dopo i fratelli d’Italia della premier Giorgia Meloni, nella coalizione nazionale di governo.

         La debacle della Lega ha un nome e cognome. Che non è tanto del segretario, vice presidente del Consiglio eccetera eccetera Matteo Salvini, quanto del vice segretario, europarlamentare e già citato generale Roberto Vannacci. Che a furia di combattere il mondo sottosopra dal quale si sente circondato da tempo, già da quando comandava i paracadutisti della Folgore, lo ha importato nella Lega. I cui nuovi elettori scacciano i vecchi, un po’ forse come quelli, sul versante opposto, del movimento già grillino di Conte.

         La Meloni potrebbe non risentire del sottosopra leghista, anche se ha problemi non tanto o non solo locali con la Lega nel Veneto, in Lombardia e in qualche parte del Sud, ma in politica- si sa- non bisogna mai dire mai.

Pubblicato sul Dubbio

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Il dolceamaro toscano di Schlein e di Conte, sottrattosi alla festa di Giani rieletto

         La segretaria del Pd Elly Schlein è corsa in Toscana a festeggiare insieme la conferma di Eugenio Giani alla presidenza della regione, con 13 punti di distacco dal contendente di centrodestra Alessandro Tomasi, e quella del suo partito al vertice della classifica, anche meglio delle precedenti, analoghe elezioni, superando il 35 per cento.

         Giuseppe Conte, pur parte col suo movimento della coalizione vincente del cosiddetto campo largo, è rimasto a Roma. A compiacersi anche lui, certo, per la conferma del governatore del Pd osteggiato dai consiglieri regionali pentastellati nella precedente legislatura regionale, ma senza entusiasmo, a dir poco. Non aveva ragione, in effetti, di averne perché la vittoria della coalizione è stata pagata a carissimo prezzo dal partito già di Beppe Grillo. Che è sceso dal 7 per cento di cinque anni fa al 4,3 di adesso, due punti sotto il 6 della sinistra radicale e quasi 5 sotto la “casa riformista” dell’indigesto Matteo Renzi.  Quasi metà dell’elettorato pentastellato di cinque anni fa, pur salito di quattro punti nelle elezioni europee dell’anno scorso, ha preferito generalmente disertare le urne e contribuire al forte aumento dell’astensionismo, di 15 punti. Ma vi ha contribuito anche assieme ad un elettorato già di centrodestra.

         Pure nel campo di Giorgia Meloni è accaduto qualcosa di significativo. Il partito della premier è felicemente raddoppiato in Toscana salendo dal 13,5 ad oltre il 26 per cento. Di meno, certo, ma anche Forza Italia è salita dal 4 al 6 per cento, ma la Lega è letteralmente precipitata dal 21,7 al 4,6, pagando -credo- a carissimo prezzo un certo protagonismo dell’eurodeputato, vice segretario della Lega e generale Roberto Vannacci, impegnato in una guerra non solo letteraria a quello che chiama il “mondo sottosopra”.

         Attilio Fontana, il governatore leghista della Lombardia, aveva assicurato nei giorni scorsi, come monito anche al segretario del partito e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, che il Carroccio non si sarebbe lasciato “vannacizzare”. O “vannaccizzare”. Gli elettori toscani, quanto meno, hanno rinunciado a votare per la Lega, o a votare e basta.  

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