Per l’approvazione parlamentare definitiva di oggi, al Senato, della riforma costituzionale della giustizia, contenente anche la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri ci sono dunque voluti più della metà di questa legislatura, a maggioranza stabile di centrodestra, e una quarantina d’anni di polemiche furiose. Provocate anche da uomini assai controversi che l’avevano sostenuta come Licio Gelli, il capo della loggia massonica speciale P2, al quale taluni vorrebbero tuttora intestarla per contrastarla meglio nel referendum confermativo che seguirà nella prossima primavera, riproponendola come funzionale ad un piano di destabilizzazione della democrazia.
La riforma ha compiuto il suo percorso in Parlamento nonostante le voci intermittenti di dubbi persino della premier Giorgia Meloni, per quanto sia stata costante nel sostenerla col ministro della Giustizia Carlo Nordio come segno di una svolta senza ritorno nei rapporti fra politica e giustizia dopo il loro brusco cambiamento, a favore dei magistrati, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica. Quando la lotta giudiziaria al finanziamento illegale dei partiti e alla corruzione che ne era spesso, non sempre, conseguita per ammissione anche di molte assoluzioni, e non solo di condanne, rovesciò gli equilibri pur sanciti ancora dalla Costituzione. E sopravvissuti ad alcune modifiche apportate per assecondare il clima giustizialista, come nl 1993 la drastica riduzione dell’immunità parlamentare.
Scontata l’opposizione di larghissima parte dell’opposizione generosamente al singolare, anche a costo di clamorosi cambiamenti o giravolte, specie nel Pd, ma scontata anche la soddisfazione della maggioranza, sensibile al ricordo di Silvio Berlusconi più che di Licio Gelli, è stata sorprendente, se non clamorosa come una stecca in una orchestra, una sortita al bar- quello del Senato- del presidente Ignazio La Russa. Che, parlandone a distanza di qualche passo dal ministro Nordio si è chiesto se “il gioco valesse la candela”. Anche in riferimento ai risultati che potrà produrre la separazione del Consiglio Superiore della Magistratura.
La competenza professionale di Ignazio La Russa, avvocato di lunghissimo corso a Milano, aumenta un po’ la portata dei suoi dubbi politici, e persino istituzionali, vista la carica che ricopre, la seconda dello Stato. La Meloni sicuramente non gliene vorrà più di tanto, conoscendo i consolidati rapporti di partito e personali che li uniscono. Ancor meno gliene vorrà forse la prima carica dello Stato, cioè il presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, Sergio Mattarella, rimasto in silenzio inusuale e forse sofferto lungo tutto il percorso parlamentare della riforma, e rinfrancato nel vedere loquace sul versante scettico il suo sostanziale vice. Saranno invece grati i magistrati, che si lasceranno tentare -penso- dall’idea di usare anche le parole del presidente del Senato nella loro campagna referendaria contro la riforma.
Ma forse Ignazio La Russa si è concesso questo strappo, chiamiamolo così, sicuro della conferma della riforma. E di non averle potuto quindi nuocere evitando di confondersi con la maggioranza, o addirittura di istigarla, come spesso, direi abitualmente, gli attribuisce l’opposizione, sempre generosamente al singolare.