Le solidarietà, ma anche le critiche meritate da Sigfrido Ranucci per il suo Report

Mi associo alle solidarietà una volta tanto bipartisan, come si dice, al collega Sigfrido Ranucci per il grave attentato subìto a Pomezia. Dove abita il responsabile della trasmissione televisiva Report, della Rai. Ma mi associo alla maniera di Ennio Chiodi, che gli è stato superiore, e non solo collega. E ha consigliato su Facebook di lasciarlo adesso “lavorare senza beatificazioni, consentendo a tutti di apprezzare o criticare il suo lavoro e quello dei suoi collaboratori”. Lavoro d’inchiesta di cui Chiodi è rispettoso ma non entusiasta avendovi avvertito “negli ultimi anni” tracce, diciamo così, della “deriva di un giornalismo non sempre documentato correttamente e decisamente indirizzato”. “Posso dirlo?” si è chiesto Chiodi rispondendosi: “Devo dirlo”.

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Lo scudo di Paola Taverna a Giuseppe Conte sotto le cinque stelle

         Paola Taverna, 56 anni e mezzo, popolana anche di nome, che non è un modo di offenderla perché associata alla “simpatia” nel dizionario della lingua italiana ignorato da Maurizio Landini nel dare della cortigiana alla premier Giorgia Meloni, senza poi avvertire almeno il buon gusto di scusarsi; Paola Taverna, dicevo, ne ha fatta di strada politicamente da quando arrivò in Parlamento col proposito dichiarato dal partito pentastellato, che ve l’aveva mandata, di aprirlo come una scatoletta di tonno. Che generalmente, come si sa, si svuota mangiandone il contenuto e poi si butta.

         Arrivata alla vice presidenza del Senato, nella cui aula l’ancor giovane grillina si era fatta notare gridando a Silvio Berlusconi che moriva dalla voglia di sputargli o di vomitargli addosso, non ricordo bene perché è passato del tempo, la Taverna non è riuscita a rimanervi per più di due legislature. Ciò a causa di noti problemi statutari del suo partito, non per demerito, avrebbe il diritto di vantarsi. Ma l’ex presidente del Consiglio e ora soltanto presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, peraltro scaduto e perciò in condizioni di proroga, l’ha voluta accanto a lui come vice presidente vicaria, superiore  perciò agli altri, anche all’ex sindaca di Torino e deputata Chiara Appendino, 41 anni compiuti a giugno.

         Sì, è proprio lei, l’Appendino che ha appena contestato a Conte le perdite elettorali procurate al partito col suo rapporto non abbastanza autonomo col Pd, fatto più di accordi locali, per esempio, che di disaccordi. E a livello nazionale più di fiancheggiamento che di distanza dal partito di Elly Schlein nel cosiddetto campo largo. Che non è -è vero- una formula gradita a Conte, che lo vorrebbe solo “giusto”, ma è pur sempre una realtà mediatica e politica: un campo in cui ci sono anche  tende metaforiche, per ora, destinate a tipi come Matteo Renzi: il diavolo che prima allungò e poi interruppe spavaldamente l’esperienza persino cavouriana dello stesso Conte a Palazzo Chigi. Cavouriana naturalmente da Cavour, l’unico capo di governo più bravo di Conte nella storia d’Italia che Marco Travaglio racconta sul suo Fatto Quotidiano.

         La Taverna, per tornare a lei, ha difeso come una guardia di sicurezza il suo presidente sostenendo che l’Appendino non abbia il diritto di contestargli i risultati dei rapporti col Pd dopo avere voluto nel suo Piemonte un isolamento orgoglioso all’opposizione che ha ridotto il Movimento 5 Stelle al 6 per cento. Che sarebbe più o meno in linea con la consistenza del partito appena registrata col voto regionale nelle Marche, in Calabria e nella Toscana. Dove tuttavia -la Toscana cioè- i pentastellati sono scesi al 4 per cento sostenendo la conferma di un governatore del Pd, Eugenio Giani, già socialista, osteggiato nella legislatura precedente. Al quale la Taverna da Roma, con le funzioni ricevute da Conte, ha contribuito ad assegnare un programma nominalmente nuovo, anzi “discontinuo”.  Di quanto si vedrà.

Quando Cossiga difese Craxi dal Consiglio Superiore della Magistratura

Sono passati 40 anni non solo dalla notte di Sigonella, celebrata in questi giorni anche da noi, del Dubbio, per il punto di non ritorno che segnò, a livello nazionale e internazionale, nei rapporti fra gli Stati Uniti e l’Italia. Il cui presidente del Consiglio Bettino Craxi, anche a costo di far dimettere ma poi recuperare il ministro della Difesa Giovanni Spadolini, negò in un drammatico scenario militare nella base siciliana la consegna dei terroristi palestinesi responsabili del dirottamento della nave Achille Lauro. Durante il quale era stato ucciso il crocerista ebreo di nazionalità americana e invalido Leon Klinghoffer.

Quei terroristi -impose Craxi ad un Reagan che li reclamava- potevano e dovevano essere processati, come furono, solo in Italia. Persino un’opposizione agguerrita come quella del Pci, che viveva la presidenza socialista del Consiglio come una doppia tragedia politica, riconobbe a Craxi in Parlamento di essersi comportato al meglio.

         Sono passati 40 anni anche da un’altra notte, non nella lontana Sigonella ma a Roma, in Piazza Indipendenza. Dove Francesco Cossiga, ancora fresco di elezione al Quirinale succedendo a Sandro Pertini, aveva disposto la mobilitazione di un reparto antinsurrezionale dei Carabinieri, al comando di un generale di brigata, per un intervento sul Consiglio Superiore della Magistratura, di cui era presidente per dettato costituzionale, se in una riunione dalla quale lui lo aveva diffidato si fosse occupato dell’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Che aveva avuto da ridire, solidarizzando con alcuni deputati del suo Psi, a cominciare da Ugo Intini, sul trattamento giudiziario da sconto riservato ai responsabili dell’agguato mortale al giornalista Walter Tobagi, del Corriere della Sera. Un agguato col quale essi abevano contato di guadagnarsi l’arruolamento nelle brigate rosse.  

         Fu una notte, accompagnata dal ritiro delle deleghe al vice presidente del Consiglio Superiore Giovanni Galloni, amico e collega di partito, la Dc, in cui Cossiga voleva segnare un punto di non ritorno nei rapporti fra magistratura e politica, impedendo un processo a Craxi alle spalle del Parlamento che gli aveva concesso la fiducia e, unico, poteva negargliela. Craxi naturalmente ringraziò, la magistratura e la sinistra capeggiata dal Pci no. E si presero la rivincita, a modo loro, dopo meno di dieci anni troncandogli la carriera e la stessa vita, sia pure per interposto tumore renale e complicazioni cardiache.

         Quel no al processo a Craxi nel Consiglio Superiore della Magistratura doveva essere un punto di non ritorno anch’esso, ripeto, come quello a Sigonella sui rapporti fra alleati nella Nato. Ma si profila proprio in questi giorni un ritorno col processo che si vorrebbe fare nel Consiglio Superiore non, o non ancora al presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ma al suo ministro della Giustizia Carlo Nordio. Un processo simulato come “pratica a tutela” del tribunale dei ministri, che avrebbe voluto fare un processo giudiziario al Guardasigilli, ed altri colleghi di governo, per l’affare Almasri. Un processo non autorizzato dalla Camera e nella cui impostazione Nordio ha, nel suo stile di estrema franchezza, ravvisato gravi errori, a dir poco.

Pubblicato sul Dubbio

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