Dalle urne regionali sta uscendo un mezzo toscano spento….

         Quel 10 per cento in meno di affluenza alle urne nel primo giorno di votazioni regionali in Toscana è già una grande macchia anche sull’eventuale conferma del governatore uscente Eugenio Giani, del Pd, 66 anni, appoggiato dal cosiddetto campo largo del centrosinistra. E sfidato per il centrodestra dal sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi, di 46 anni, venti anni in meno.

         Ad occhio e croce il già ricordato campo largo, come nelle Marche 15 giorni fa, confermate al centrodestra con la conferma del fratello d’Italia Francesco Acquaroli, ha più allontanato che attratto gli elettori.

         Il campo largo, d’altronde, in Toscana è stato così poco convintamente allestito che la segretaria del Pd Ellly Schlein, secondo indiscrezioni di stampa, ha dovuto sudare fuori stagione le classiche sette camicette delle sue, di più colori come l’arcobaleno, per convincere Giuseppe Conte a farsi fotografare con Giani. Di cui l’ex presidente del Consiglio ha accettato e sostenuto la ricandidatura fra il malumore dei suoi pentastellati, probabilmente fra i più svogliati e renitenti, come si dice in politica, nella corsa, anzi nell’approccio alle urne.

         Più che un toscano intero, sta uscendo da questo  voto regionale un mezzo toscano.

Walter Veltroni, un marziano al Nazareno oltre alla mucca di Bersani

Altro che la mucca di Pier Luigi Bersani, che ne avvertì la presenza ben prima della vittoria elettorale della destra di Giorgia Meloni fra l’incredulità dei compagni di partito. Al Nazareno, se ancora vi va ogni tanto da ex segretario del Pd per le presenze che  gli spettano di diritto, si aggira un marziano. Che l’altra sera, ospite di Peter Gomez nel salotto televisivo della “confessione”, ha felicemente centrato sul piano storico e politico l’anno d’inizio della crisi del Pci, ma in genere anche di tutta la sinistra.

Fu il 1956, quando la repressione sovietica della rivoluzione in Ungheria spinse molti comunisti a lasciare il partito di Palmiro Togliatti, che reagì scuotendo la testa come una criniera per liberarsi, compiaciuto, dei “pidocchi” che vi si erano insediati. E invitando l’allora direttore dell’Unità Pietro Ingrao a brindare con un bicchiere di vino rosso alla decisione del Cremlino di soffocare nel sangue le aspirazioni alla libertà di uomini e donne che, come aveva raccontato Indro Montanelli da cronista, volevano rimanere comunisti ma a modo loro.

         Nel 1956 -ha riflettuto, non raccontato Veltroni, che aveva allora solo un anno- il Pci anche a costo, evidentemente, di liberarsi del “migliore” dei suoi dirigenti, come veniva percepito e definito Togliatti, appunto, avrebbe dovuto strappare con la sua storia e costruire con i socialisti allora di Pietro Nenni un partito unico della sinistra. Vasto programma.

         Raggiunta però l’età della ragione e della consapevolezza, pur preferendo le letture americane a quelle sovietiche, se mai vi si era davvero affacciato, Veltroni aderì al Pci. E poi, dopo una rapida esperienza di governo come vice presidente del Consiglio e ministro, per non parlare del Campidoglio, al Pd direttamente da segretario, nel 2007, proponendosi di farne una forza di “vocazione maggioritaria”, senza perdersi o lasciarsi condizionare più di tanto dalla sinistra ancora orgogliosamente comunista, o estrema, o radicale. Come si diceva facendo perdere le staffe a Marco Pannella, che già ne aveva di precarie per temperamento.

         Il proposito, diciamo pure il sogno nel quale vi confido che sarei incorso anche io elettoralmente se alle elezioni del 2008 Veltroni non avesse deciso all’ultimo momento di apparentarsi con Antonio Di Pietro piuttosto che con Pannella, durò un anno e mezzo soltanto. Nel 2009 col pretesto -confessato dallo stesso Walter parlandone con Gomez- di un turno elettorale amministrativo ristretto alla Sardegna e sfortunato per il Pd- si dimise. O fu costretto a dimettersi. Al Nazareno furono abbastanza lesti e disinvolti a liberarsene, pensionandolo praticamente a soli 54 anni.  Ma, involontariamente, restituendolo al giornalismo che pratica ad un livello più stabile e lungo di una direzione, coi tempi che corrono. E’ editorialista del Corriere della Sera, dispensando consigli che naturalmente al Nazareno si guardano bene dall’ascoltare, come quello di non lasciare i problemi della sicurezza alla destra perché vi sono interessati anche gli elettori una volta tradizionali della sinistra, se non ancora di più degli elettori nuovi della destra. Che sono approdati dove sono proprio a causa delle distrazioni e dei tradimenti della sinistra.

         Non so, francamente, dove sarebbe potuto arrivare elettoralmente e politicamente il Pd con Veltroni. So bene, anzi sappiano benissimo, e lo sanno anche al Nazareno fra scambi di messaggi non sempre ermetici, dove è arrivato il Pd senza e dopo Veltroni. A coltivare l’erba in un campo tanto largo quanto arido. Dove la Schlein si è avventurata, dice lei, per costruire la cosiddetta alternativa al centrodestra, in realtà per inseguire l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, dal canto suo, deve starle il più lontano possibile, o le si deve accostare ostentando il suo disagio, perché dispone di un partito che dalle 5 Stelle di Beppe Grillo e del compianto Roberto Casaleggio, sta diventando del 5 per cento dei voti. Vedremo fra qualche ora dove è riuscito a scendere anche in Toscana, dopo il 5 delle Marche e il 6 della Calabria.

Pubblicato su Libero

Carofiglio coglie la Schlein in fallo politico di parole…

         Dalle “altre parole” dell’omonimo salotto televisivo di Massimo Gramellini  alle “parole precise” do Gianrico Carofiglio nelle librerie, dov’è approdato il suo “manuale di autodifesa civile” dal populismo di ogni colore, di sinistra ma anche di destra, che ci assedierebbe. E a cui cediamo spesso persino inconsapevolmente dicendo male la verità o opponendo bugie a bugie così maldestramente da rendere maggiormente credibili le prime. 

         Carofiglio è un analista, scrittore, romanziere, giallista acuto restituito ai lettori prima dalla magistratura, prudentemente abbandonata in tempo per non farsi travolgere anche lui dallo spirito di casta che la sta rovinando, altro che la riforma costituzionale della giustizia demonizzata dal sindacato delle toghe, e dalla politica. Che l’ex senatore Carofiglio ha vissuto per pochi anni, bastatigli per capire che neppure essa faceva per lui, ma continuando -credo- a sentirsi di sinistra. Forse avrebbe preferito anche lui definirsi progressista se Giuseppe Conte non ne avesse fatto terra bruciata con quell’aggettivo “indipendente” di assai scarsa affidabilità per la sua estrema personalizzazione.

         Dire male la verità, come lamenta Carofiglio, potrebbe anche essere quella rimproverata dallo scrittore alla premier Giorgia Meloni per avere indicato troppo sommariamente e drasticamente “la sinistra italiana più fondamentalista di Hamas”, anche nell’approccio al piano di pace di  Gaza concordato alla Casa Bianca fra il presidente americano Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, con tutto ciò che ne sta seguendo fra inversione di marcia dei profughi e rilascio degli ostaggi sopravvissuti alla loro prigionia di più di due anni. Ma dire male la verità, o dire una bugia, è anche il tipo di smentita, di negazione opposta dalla segretaria del Pd Elly Schlein alla Meloni. “Ripetere nella risposta, nella confutazione, lo stesso schema di quell’attacco scomposto -ha detto Carofiglio parlandone in una intervista alla Stampa- significa perdere prima ancora di combattere: quello che resta nell’immaginario è l’accostamento fra le parole sinistra e Hamas”.

         E’ quello che pensava, credo, Giulio Andreotti quando spiegava agli amici e familiari sorpresi del suo silenzio di fronte a certe accuse, prima ancora di quelle giudiziarie, formulate nelle cronache politiche, che smentendole si rischiasse di parlarne “due volte”. Lo racconto non per sminuire il ragionamento e la percezione di Carofiglio ma solo per riconoscere al compianto sette volte presidente del Consiglio e imputato pluriassolto, pur con i “ma” del suo ostinato accusatore Giancarlo Caselli, il pregio obbiettivo, indiscutibile che aveva di esprimere in una battuta  -non sempre felice, lo riconosco- ciò che altri traducono in un libro, anche con successo di vendite e di recensioni, come sono le interviste all’autore che ne accompagnano la diffusione.  

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