Meloni chiamata a rapporto dalle opposizioni alla Camera su Gaza

         Per quanto affrettatasi ad esprimere la sua soddisfazione per gli sviluppi finalmente positivi della situazione a Gaza, e ringraziare il presidente americano Donald Trump  per il piano concordato col premier Israeliano, l’Egitto, il Qatar e la Turchia per gli “sforzi costruttivi” con i quali hanno assecondato le trattative propedeutiche alla cessazione del fuoco, al rilascio degli ostaggi dei terroristi palestinesi in terra israeliana sopravvissuti alla prigionia, al ritiro graduale delle truppe israeliane e  tutto il resto, la premier Giorgia Meloni è stata chiamata dalle opposizioni a “riferire” alla Camera. Dove già la presidente del Consiglio era presente questa mattina per la seduta destinata al rifiuto della richiesta del tribunale dei ministri di processare i titolari dei dicasteri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, e il sottosegretario ala Presidenza del Consiglio con delega dei servizi segreti, Alfredo Mantovano, per l’affare del generale libico Almasri.

         Più delle notizie provenienti dall’Egitto sulle trattative per Gaza premeva e preme tuttora alle opposizioni l’occasione di un altro dibattito polemico contro il governo al solito rimorchio, secondo loro, di Trump, e all’altrettanto solito servizio di Netanyahu anche nella presunta pratica di genocidio attuata a Gaza, per quanto la Meloni abbia più volte lamentato, e in più sedi, anche all’assemblea delle Nazioni Unite, il carattere “sproporzionato” della reazione israeliana al pogrom dei terroristi palestinesi del 7 ottobre 2023.

         Nel chiedere di riferire alle Camere l’opposizione particolarmente del Pd si è vantata di avere “responsabilmente” contribuito di recente all’approvazione parlamentare, in Italia, del piano per Gaza concordato fra Trump e Netanyahu. In realtà, il Pd pur di mantenere i rapporti con Giuseppe Conte nel cosiddetto campo largo, ha praticato solo l’astensione decisa dalla segretaria Elly Schlein nella votazione sulla mozione della maggioranza. E’ seguita qualche  giorno dopo una dura polemica dell’ex capogruppo al Senato Luigi Zanda, tra i fondatori del Pd, che si aspettava un voto onestamente e chiaramente favorevole.  

Il soccorso di Mattarella a Santa Caterina da Siena separata da San Francesco

         Si sprecano un po’ in tutti giornali, ma in particolare sul Corriere della Sera nell’articolo di Monica Guerzoni, aggettivi e definizioni muscolari della lettera critica inviata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai presidenti delle Camere sulla legge, pur promulgata da lui stesso, che ha ripristinato dall’anno prossimo la festa nazionale di San Francesco d’Assisi. Eppure è stata una legge approvata in via definitiva il 23 settembre scorso a Montecitorio all’unanimità, per cui non si può dire che il capo dello Stato, come pure ho letto da qualche parte, abbia fatto le pulci, o qualcosa di simile, al governo. Le ha fatte piuttosto alla maggioranza e alle opposizioni, ritrovatesi insieme a sostenere una proposta di legge dell’ex ministro Maurizio Lupi, intestatario nell’area di centrodestra di un partitino chiamato “Noi moderati”. E fedeli, naturalmente, di San Francesco d’Assisi.

         Infilatosi addosso metaforicamente  un saio francescano, Lupi ha trovato il modo di vedere e indicare nell’intervento del Capo dello Stato una valorizzazione ulteriore della sua legge esprimendo la certezza di soddisfare attese, richieste e quant’altro del Quirinale senza  compromettere il ripristino della festa nazionale soppressa nel 1977 da uno dei sette governi di Giulio Andreotti, in epoca risparmiosa di “solidarietà nazionale”. Potrebbe essere, per esempio,  separata da quella di Santa Caterina da Sena. In soccorso della quale, per venerazione, esposizione e quant’altro, Mattarella è intervenuto sostenendo che insieme le due feste non possono tornare con uno stato “diverso”: festa nazionale quella di San Francesco, solennità civile quella di santa Caterina. Che non potrebbe essere ricordata con lezioni, riflessioni e altro nelle scuole chiuse per festeggiare San Francesco.

         In verità, San Francesco l’anno prossimo ricorrerà di domenica, a dispetto delle scommesse sul solito ponte, per cui Santa Caterina non potrà comunque subire menomazioni celebrative. Ma di certo nell’anno successivo il problema potrebbe porsi nel suo aspetto imbarazzante, per cui converrebbe intervenire in tempo.

         Santa Caterina, stando alle voci che già circolano negli ambienti parlamentari, potrebbe essere spostata nel calendario delle feste al 29 aprile. Che è già quella dedicatale come vergine e dottore della Chiesa, patrona d’Italia e d’Europa.

         Per tornare all’argomento iniziale, mi chiedo se davvero fosse il caso non dico di assumere da parte del Capo dello Stato un’iniziativa così clamorosa nell’aspetto mediatico e politico, ma di riferirne come “energica strigliata” dopo “il papocchio” parlamentare e via leggendo, ripeto, Monica Guerzoni sul Corriere della Sera.

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L’assordante silenzio di Beppe Grillo sul declino elettorale del MoVimento 5 Stelle

Non so se più preso dai problemi familiari per la recente condanna del figlio Ciro in primo grado a otto anni di carcere per stupro, e scandalosamente a sei dai fatti in Sardegna, o tramortito politicamente ed anche umanamente dalla discesa dell’ex suo Movimento dalle 5 Stelle, ancora nel titolo, al 5 per cento attorno al quale ormai naviga, Beppe Grillo è in silenzio assordante. Così si dice di quello contrapposto alla loquacità di una volta. Che era assordante davvero, fra piazze e invettive elettroniche.

         Neanche i risultati elettorali per le regionali in Calabria, dove pure ha corso per la presidenza il pentastellato Pasquale Tridico, dopo quelli delle Marche, dove almeno a correre col sostegno delle 5 Stelle era il governatore uscente del Pd Francesco Acquaroli, hanno fatto rompere il silenzio al comico genovese sul suo blog personale. Dove continuano a dominare argomenti e problemi di energia., ambiente e di economia fra analisi e compiaciuti paradossi.  

         Com’era accaduto sette giorni prima col 5 per cento delle Marche, così per il 6,3 della Calabria Grillo ha girato la testa dall’altra parte. Un 6,3 per cento inferiore di poco rispetto al 6,5 delle precedenti elezioni regionali di quattro anni fa, ma di parecchio rispetto al 29,4 addirittura delle elezioni politiche di tre anni fa e al 16,2 per cento delle elezioni europee dell’anno scorso. Un trofeo al contrario per Giuseppe Conte, direbbe il generale, eurodeputato e vice segretario della Lega Roberto Vannacci.

         E Conte, l’ex presidente del Consiglio ancora nostalgico di Palazzo Chigi e adesso solo presidente di quel che resta del movimento già di Grillo? Da lui è arrivato solo un ringraziamento al fedele Tridico, evidentemente per non avere fatto scendere le 5 Stelle al 5 per cento come nelle Marche ed averne fermato la caduta al già ricordato 6,3.

         Più che il calo dell’ora suo movimento, a tutti gli effetti, dev’essere stata scomoda per Conte la tenuta del Pd in Calabria, dove esso è sceso solo al 13 per cento dal 16 delle elezioni europee e dal 14 per cento delle elezioni politiche. Una tenuta, a livello generalmente più alto su scala nazionale, che allontana obiettivamente la prospettiva sognata da Conte di strappare nel cosiddetto campo largo la candidatura a Palazzo Chigi fra due anni, addirittura vincendo le primarie che dovessero derivare da una riforma della legge elettorale della quale tutti parlano ma nessuno sa dove sia, come la mitica Fenice.

         Di questa riforma elettorale temo che chi se ne sta occupando dietro, ma molto dietro le quinte, stia ignorando o sottovalutando il peso che potrebbe avere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella se volesse intervenire pria, durante e dopo il percorso parlamentare. Per esempio, ricordando e facendo valere una disposizione europea che vieta di varare riforme elettorali a ridosso delle elezioni, come avverrebbe nell’ultimo anno della legislatura. Una disposizione che trovo francamente di buon senso, per quanto generalmente disattesa sinora in Italia.  

Pubblicato sul Dubbio

L’antipasto calabrese del referendum sulla riforma Nordio della giustizia

Dei risultati elettorali in Calabria -dove il governatore uscente di centrodestra Roberto Occhiuto è stato confermato distanziando di quasi 16 punti il concorrente Pasquale Tridico, pentastellato campolarghista, diciamo così- vi sono aspetti istituzionali e morali non meno importanti, se non superiori a quelli politici pur rilevanti.

         Diversamente dalle Marche, dove il centrodestra ha vinto con la conferma, anche lì, del governatore  uscente Francesco Acquaroli, in Calabria si è votato anticipatamente, di un anno, rispetto alla scadenza ordinaria. Un anticipo voluto dallo stesso governatore Occhiuto non appena incorso in indagini giudiziarie per corruzione, aperte con la solita, diabolica tempistica. Nella quale l’indagato ha avvertito non dico la volontà degli inquirenti, ai quali si è messo subito a disposizione e che ora ha sollecitato ad andare avanti col loro lavoro, ma il rischio obbiettivo di un lento logoramento. Se non di una delegittimazione di fatto. Ed ha preferito la scommessa, vincente, sulla fiducia degli elettori, che gliel’hanno ribadita in modo anche più ampio di quattro anni fa.

         So bene che rischio l’accusa di essere un provocatore, con i tempi e i modi che corrono su questo versante del dibattito politico e mediatico, ma penso francamente che fra gli sconfitti in Calabria, oltre a Tridico, Giuseppe Conte, che lo ha ringraziato, e la segretaria del Pd Elly Schlein, vi sono i magistrati. Sì, anche loro. O soprattutto loro, addirittura. Che, a livello nazionale, non hanno capito che sono cambiati i tempi rispetto a quando bastava un loro starnuto, più ancora di un avviso di garanzia, per terremotare la politica e troncare carriere pur consolidate di uomini di partito e di governo, parlamentari e non.

         I tempi -penserete voi- delle cosiddette mani pulite, una trentina d’anni fa, quando sotto la ghigliottina giudiziaria finì la cosiddetta prima Repubblica. E sono stati ammaccati anche passaggi delle edizioni successive: seconda, terza e quarta, visto che almeno televisivamente ci siamo arrivati.

         Già prima degli anni Ottanta, addirittura, per non arrivare ai piani alti della Repubblica, quando il presidente Francesco Cossiga bloccò il Consiglio Superiore della Magistratura che voleva processare a suo modo l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, al posto della Corte Costituzionale con tutte le dovute procedure, il presidente dei deputati democristiani Flaminio Piccoli si lasciò ad uno sfogo finito su tutti i giornali parlando in una riunione del comitato direttivo. Si discuteva di una rivendicazione una volta tanto solo salariale, sindacale nel vero senso della parola, dei magistrati e lui sbottò dicendo pressappoco così: attenti a dire no perché quelli ci arrestano. Dalle toghe si reclamò una smentita dell’impetuoso Piccoli mai arrivata.

         La reazione elettorale, politica, ambientale dei calabresi, chiamatela come volete, al trattamento giudiziario del loro governatore potrebbe rivelarsi un antipasto, non solo regionale ma anche nazionale, del referendum atteso per l’anno prossimo sulla riforma della giustizia intestata al ministro Carlo Nordio. Una riforma, alla quale manca solo l’ultimo dei quattro passaggi parlamentari, che separa non solo le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici, ma di fatto anche altro per i riflessi che avvertono gli stessi magistrati con la loro mobilitazione referendaria.

Finiranno per separarsi davvero anche la politica e la giustizia, senza sottomettere la seconda alla prima come si vorrebbe far credere mistificando il testo della riforma. E anche le carriere dei pubblici ministeri e dei giornalisti che ne raccolgono notizie e umori alimentando i processi mediaticamente sommari. Che nella percezione del pubblico prevalgono su quelli ordinari, che seguono nei tribunali e magari si concludono con l’assoluzione degli imputati di turno. E’ una cosa che non mi sto inventando io ma che da anni lamenta l’insospettabile Luciano Violante, già magistrato, presidente della Camera e responsabile degli affari di giustizia del Pci.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it l’11 ottobre

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