I numeri e i paradossi delle piazze italiane intestatesi da Landini

         Dai 50 mila stimati in un centinaio di piazze italiane ai 2 milioni, vantati dalla Cgil, di dimostranti fiancheggiatori dello sciopero generale indetto e attuato a favore dei palestinesi di Gaza “genocidiati” da Israele. Ma, a questo punto, e per coerenza, anche dai terroristi di Hamas che li hanno resi ostaggi nella lotta armata agli ebrei, costruendo sotto le loro case, i loro ospedali, le loro scuole, le loro chiese, le loro strade e piazze gli arsenali della lotta per una Palestina “dal fiume al mare”.

         Di questi 50 mila o 2 milioni di manifestanti si è detto e scritto che siano sfilati pacificamente, persino gioiosamente, anche se la causa da essi sostenuta ha prodotto e continua a produrre eccidi, macerie e odio. Sta per arrivare il secondo anniversario del podrom del 7 ottobre in cui a nome della causa palestinese furono trucidati in territorio israeliano più di 1200 fra uomini, donne, vecchi e bambini ebrei  e più di altri 200 sequestrati e nascosti a Gaza per farne merce di scambio nella guerra che ne sarebbe inevitabilmente seguita.

         Fra le piazze d’Italia festosamente invase c’è stata anche quella romana di Porta Pia prospiciente il Ministero delle Infrastrutture, ex Lavori Pubblici, guidato dal vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini: il più fischiato e insultato, dopo la premier Giorgia Meloni, per le critiche allo sciopero generale, oltre che alla crociera della flottiglia interrotta dagli israeliani a 35 miglia da Gaza.

         Di Salvini non sono state condivise dai promotori dello sciopero generale e dimostranti  neppure le proteste per i 55 poliziotti rimasti feriti nei disordini che hanno qua e là rovinato la festa, chiamiamola così nonostante -ripeto- l’aspetto tragico del problema di Gaza e dintorni.

         Caty La Torre, una professoressa di doppio passaporto, italiano e americano, uno in meno della segretaria del Pd Elly Schlein, è insorta proprio contro Salvini parlandone nel salotto televisivo di Lilly Gruber su La 7, osservando che una cinquantina di poliziotti feriti sono in fondo la media dei postumi di un derby calcistico. Se è per questo, la professoressa poteva fare un calcolo facile facile e tradurre la sua rappresentazione dei fatti opponendo alla denuncia del ministro la modestia di uno 0,55 per cento di ferimenti tra le forze dell’ordine considerando le cento piazze, appunto, che il segretario della Cgil Maurizio Landini si è vantato di avere voluto e saputo riempire. La cosa importante insomma è che non ci sia scappato il morto. Che probabilmente, secondo il ragionamento e l’atteggiamento della professoressa, avrebbe fatto comodo a Salvini.

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Il gioco parlamentare di Monopoli sulle guerre di Gaza, al plurale

Il buon Mattia Feltri, più paziente del padre Vittorio, sino allo sfinimento avvolto nell’ironia, o nel sarcasmo, ha contato sino a “dodici o tredici” posizioni nei dibattiti parlamentari svoltisi, fra Camera e Senato, sulla guerra di Gaza e nelle votazioni sulle mozioni. Ne è derivato uno spettacolo di confusione che ha probabilmente e giustamente spinto nell’aula di Montecitorio sui banchi del governo il ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, affiancato dal ministro della Difesa Guido Crosetto, a portarsi la mano sinistra sugli occhi. Una immagine, direi, emblematica di una giornata particolare in Parlamento. Dove la maggioranza ha approvato le sue mozioni a favore del piano di piace a Gaza predisposto alla Casa Bianca dal presidente americano Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e di un riconoscimento dello Stato di Palestina condizionato alla liberazione degli ostaggi di Hamas, vivi o morti che siano, e al ritiro dei terroristi. Che hanno provocato la distruzione della striscia di Gaza con la inevitabile reazione israeliana all’infame pogrom del 7 ottobre di due anni fa.

         Gli incroci, sui banchi delle opposizioni, fra astensioni, voti contrari e favorevoli anche sui documenti da esse stesse proposte, non hanno dimostrato la pluralità e quindi vitalità dei partiti, fra di loro e al loro interno, quanto la loro “paralisi” da confusione giustamente lamentata da Davide Varì. Una paralisi che rende impraticabile la strada dell’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni propostasi dal cosiddetto campo largo. E avvertita, in questa sua impraticabilità anche da esponenti politici impegnatisi molto, più ancora della “testarda” segretaria del Pd Elly Schlein, a prospettarla.

         Persino Goffredo Bettini, per esempio, l’uomo che non si è risparmiato nel suo Pd e fuori producendo saggi, articoli, lettere e interviste sino a sollecitarle personalmente, ha dovuto arrendersi alla realtà dello spettacolo parlamentare pregando l’intervistatore di turno di non infierire con le domande. Cioè preferendo uno sconsolato silenzio al rischio di contribuire anche lui alla confusione. Come avrebbe probabilmente fatto se si fosse azzardato a parlare entrando nei dettagli delle dodici o tredici posizioni, ripeto, contate con sofferta approssimazione, credo, dal mio amico Mattia Feltri. Un’approssimazione persino superiore a quella cui nella cosiddetta prima Repubblica ci avevano abituato i democristiani quando scrivevamo delle loro correnti e ne aggiornavamo, via via, le carte di navigazione. Superiore anche all’approssimazione e confusione che la Dc riuscì a trasmettere al  Pci quando le due forze politiche, pur contrapposte elettoralmente, come ricordava Aldo Moro,  parteciparono alle maggioranze parlamentari della cosiddetta “solidarietà nazionale”. Che fu un’edizione ridotta del più ambizioso e persino scientifico “compromesso storico” elaborato e proposto dal segretario comunista Enrico Berlinguer nella sicurezza di poterlo fare digerire a tutto il suo partito.  

Pubblicato sul Dubbio

La penultima versione di Giuseppe Conte alla Camera è ingraiana

Adottato politicamente da Beppe Grillo, inconsapevole dei guai che si sarebbe procurati e spingendolo addirittura verso Palazzo Chigi, Giuseppe Conte ha sempre zigzagato nei suoi riferimenti storici o solo empatici.

Le origini pugliesi, in una terra -Volturara Appula- chiamata come le vipere che l’hanno a lungo occupata, hanno contribuito a dividere Conte fra la devozione anche familiare a Padre Pio e la curiosità, quanto meno, verso la figura e il lascito di Aldo Moro. Del quale tuttavia mi sembra non abbia avuto ancora l’occasione di celebrare pubblicamente il ricordo, come invece gli è capitato in un teatro in Campania, su invito di Gianfranco Rotondi e alla presenza dell’ancor vivo Ciriaco De Mita, per Fiorentino Sullo: il ministro dei lavori pubblici del già citato Moro che gli fece crescere ancora di più l’indimenticabile  ciuffo di capelli bianchi proponendogli una riforma del suolo, addirittura, che ne avrebbe trasformato la proprietà in concessione.   

Al termine della celebrazione di Sullo ai democristiani, ma anche a qualcuno non democristiano che andò a complimentarsi con lui Conte si disse attrezzato a commemorare anche altri morti eccellenti dello scudo crociato e dintorni. Poi però ebbe o trovò altro da fare.

A furia di studiare e di immedesimarsi nelle condizioni esplorate anche con un po’ di fantasia, che non guasta mai, aiutato anche da un consigliere sempre più frequentato ed ascoltato come Goffredo Bettini, l’ex presidente del Consiglio si è autodefinito “progressista indipendente”. Indipendente, tempo,  persino da se stesso e non solo dai partiti o leader a lui associati nella coltivazione della pianta della cosiddetta alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Alla cui leadership egli ha appena riconosciuto, parlandone anche alla Camera dopo qualche dichiarazione o comizio, i limiti geografici e politici del Colle Oppio. A Roma, di fronte al Colosseo. Una cosa più da battutista, francamente, che da protagonista politico come lui pensa forse di essere. O per come lo scambiano i tifosi sognando di rivederlo prima o poi di nuovo a Palazzo Chigi, quando “il destino cinico e baro” di cui si lamentava già  Giuseppe Saragat si sarà stancato di aiutare la premier in carica, prima di spingerla sino al Quirinale facendola entrare  nella lista dei successori del compianto leader socialdemocratico.

Proprio alla Camera, e parlando proprio del Colle Oppio della Meloni nel contesto di un dibattito e relative  votazioni sulle guerre di Gaza, al plurale perché ve ne sono tante di strumentali accanto a quella vera o principale, Conte ha toccato un’altra tappa della sua evoluzione politica e ideologica. Egli è approdato, in particolare, alla sinistra non solo romantica, visto ciò che riuscì a produrre negli anni di piombo, del comunistissimo Pietro Ingrao. Del quale ha voluto sposare la visione del mondo “terribilmente diviso in opulenti e affamati”. Per superare il quale, anche a rischio di distruggerlo in entrambe le parti, “l’appello all’unità è ridicolo”, ha detto, anche o soprattutto se formulato dal governo in carica, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal Papa, e attrattivo per una parte del Pd ancora dichiaratamente e orgogliosamente riformista, “ridicolmente” aperta -ha detto sempre Conte- alla “parte sbagliata della storia”.

Prima ancora di leggere di questo discorso di Conte oltre ogni ostacolo, ormai, persino il buon Goffredo Bettini già citato ha mostrato segni di delusione e preoccupazione avvertendo non il decollo ma la esplosione in pista dell’alternativa al governo. A un giornalista che lo intervistava sulle divisioni e sulle confusioni a sinistra su Gaza e dintorni Bettini ha chiesto, immagino con le mani giunte come in preghiera per un credente, di non insistere. Per carità.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.statmag.it il 5 ottobre

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