Più che il governo, è il Pd a viaggiare sulle montagne russe del referendum

         Claudio Petruccioli, 84 anni e mezzo vissuti fra generose illusioni comuniste e amare delusioni post-comuniste, tanto da ammettere, parlandone col Foglio, di votare per il Pd ma di sapere sempre meno spiegarne perché, si è fatta un’idea precisa sulla ragione invece per la quale i suoi amici e compagni si sono schierati parlamentarmente e referendariamente contro la riforma costituzionale della giustizia. Che ieri il Senato, nell’ultimo dei quattro passaggi richiesti fra le due Camere ha approvato con 112 voti favorevoli, 59 contrari e 9 astenuti.

         La riforma, tra separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la divisione in due del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anticorrentizio per comporli e un’alta corte disciplinare per le toghe abituate invece a giudicarsi da sole, sarà invece approvata nel referendum confermativo di primavera dall’ex parlamentare della sinistra.  Coerente – ha ricordato sempre al Foglio lo stesso Petruccioli- con la separazione delle carriere giudiziarie da lui sostenuta nella commissione bicamerale per la riforma della Costituzione preseduta a suo tempo non da qualche esponente di destra, ma da Massimo D’Alema in persona.

         Il Pd è oggi contrario, secondo Petruccioli, solo strumentalmente, scommettendo su una bocciatura referendaria propedeutica alla crisi e caduta del centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Un po’ come il Pci dei suoi tempi -me lo permetterà Claudio di ricordarlo- fra il 1984 e il 1985 scommise sul referendum contro i tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari, pur finalizzati alla difesa del valore reale dei salari, inseguendo la sconfitta e la caduta del governo del socialista Bettino Craxi che li aveva voluti. E che uscì invece vincente dalla partita.

         La strumentalizzazione politica del referendum sulla giustizia come assalto al governo non è stata rimproverata al Pd solo da Petruccioli ma, pur non nominando il partito della Schlein, anche da un magistrato già diventato un testimonial della causa dei suoi colleghi: il capo della Procura della Repubblica di Napoli Nicola Gratteri. Che, parlandone pure lui al Foglio, ha detto e promesso: Mi batterò contro la riforma, ma non contro Meloni”. “Se al referendum vincesse il no, non ci sarebbe nessuna ripercussione sull’esecutivo”, ha aggiunto Gratteri, immagino con quanta sorpresa, a dir poco, della segretaria del Pd Elly Schlein e affini al Nazareno e dintorni, dove sognano la caduta della Meloni come alle Botteghe Oscure, ripeto, 40 anni fa di Bettino Craxi. Di cui i comunisti denunciavano la pretesa dei pieni poteri come i senatori del Pd hanno fatto con i loro cartelli contro Meloni e il suo governo ieri nell’aula del Senato mentre la maggioranza applaudiva il risultato della votazione finale sulla riforma della giustizia. O “della magistratura”, come ha detto il non più mitico Antonio Di Pietro parlandone al Fatto Quotidiano e ribadendo la decisione di votare sì al referendum, pur infastidito dalla intestazione della separazione delle carriere giudiziarie e di tutto il resto alla memoria di Silvio Berlusconi da parte  di familiari, amici e devoti.

         In conclusione, direi che a viaggiare con le vertigini sul referendum come sulle montagne russe sembra destinato più il Pd che il governo

Bocciato non il Ponte di Salvini sullo stretto di Messina, ma i suoi conti

         Più che il ponte sullo stretto di Messina, come sommariamente annunciato trionfalmente da quanti sono contrari, sono stati bocciati i suoi conti dall’omonima Corte attaccata sia dal ministro che si è intestato il progetto, Matteo Salvini, deciso ad andare avanti lo stesso, sia dalla premier Giorgia Meloni. Che ha avvertito e denunciato l’ingerenza della giustizia, questa volta amministrativa, negli affari di governo.

         La coincidenza della bocciatura, per quanto non definitiva perché Salvini si è proposto di adottare le procedure possibili per andare avanti lo sesso con le riserve eventualmente ribadite dalla Corte amministrativa; la coincidenza, dicevo, della bocciatura dei conti del Ponte, con la maiuscola dell’unicità e imponenza del progetto, con il quarto ed ultimo passaggio parlamentare, oggi al Senato, della riforma costituzionale della giustizia ha contribuito a surriscaldare il clima politico.

Anche il Ponte finirà probabilmente nel calderone referendario della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, della separazione del Consiglio Superiore della Magistratura, del sorteggio anticorrentizio per la composizione e di un’alta corte disciplinare che sottragga i magistrati all’autodisciplina totale.

Ne passerà dell’acqua, in tutti i punti di vista, sotto il Ponte. Anticiparne il crollo prima ancora della sua costruzione è tuttavia un po’ esagerato,  come si dice di certe morti annunciate per errore, specie se eccellenti.

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La candela di Ignazio La Russa sotto la riforma della giustizia

         Per l’approvazione parlamentare definitiva di oggi, al Senato, della riforma costituzionale della giustizia, contenente anche la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri ci sono dunque voluti più della metà di questa legislatura, a maggioranza stabile di centrodestra, e una quarantina d’anni di polemiche furiose. Provocate anche da uomini assai controversi che l’avevano sostenuta come Licio Gelli, il capo della loggia massonica speciale P2, al quale taluni vorrebbero tuttora intestarla per contrastarla meglio nel referendum confermativo che seguirà nella prossima primavera, riproponendola come funzionale ad un piano di destabilizzazione della democrazia.

         La riforma ha compiuto il suo percorso in Parlamento nonostante le voci intermittenti di dubbi persino della premier Giorgia Meloni, per quanto sia stata costante nel sostenerla col ministro della Giustizia Carlo Nordio  come segno di una svolta senza ritorno nei rapporti fra politica e giustizia dopo il loro brusco cambiamento, a favore dei magistrati, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica. Quando la lotta giudiziaria al finanziamento illegale dei partiti e alla corruzione che ne era spesso, non sempre, conseguita per ammissione anche di molte assoluzioni, e non solo di condanne, rovesciò gli equilibri pur sanciti ancora dalla Costituzione. E sopravvissuti ad alcune modifiche apportate per assecondare il clima giustizialista, come nl 1993 la drastica riduzione dell’immunità parlamentare.

         Scontata l’opposizione di larghissima parte dell’opposizione generosamente al singolare, anche a costo di clamorosi cambiamenti o giravolte, specie nel Pd, ma scontata anche la soddisfazione della maggioranza, sensibile al ricordo di Silvio Berlusconi più che di Licio Gelli, è stata sorprendente, se non clamorosa come una stecca in una orchestra, una sortita al bar- quello del Senato- del presidente Ignazio La Russa. Che, parlandone a distanza di qualche passo dal ministro Nordio si è chiesto se “il gioco valesse la candela”. Anche in riferimento ai risultati che potrà produrre la separazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

         La competenza professionale di Ignazio La Russa, avvocato di lunghissimo corso a Milano, aumenta un po’ la portata dei suoi dubbi politici, e persino istituzionali, vista la carica che ricopre, la seconda dello Stato. La Meloni sicuramente non gliene vorrà più di tanto, conoscendo i consolidati rapporti di partito e personali che li uniscono. Ancor meno gliene vorrà forse la prima carica dello Stato, cioè il presidente della Repubblica, e del Consiglio Superiore della Magistratura, Sergio Mattarella, rimasto in silenzio inusuale e forse sofferto lungo tutto il percorso parlamentare della riforma, e rinfrancato nel vedere loquace sul versante scettico il suo sostanziale vice.  Saranno invece grati i magistrati, che si lasceranno tentare -penso- dall’idea di usare anche le parole del presidente del Senato nella loro campagna referendaria contro la riforma.

         Ma forse Ignazio La Russa si è concesso questo strappo, chiamiamolo così, sicuro della conferma della riforma. E di non averle potuto quindi nuocere evitando di confondersi con la maggioranza, o addirittura di istigarla, come spesso, direi abitualmente, gli attribuisce  l’opposizione, sempre generosamente al singolare.   

Emanuele Fiano meriterebbe un ufficio al Nazareno, se la Schlein avesse buon senso

Ancora scioccato dall’esperienza vissuta in una delle sedi dell’Università veneziana Cà Foscari, dove ragazzi dichiaratamente comunisti, con tanto di falce e martello sullo striscione di riconoscimento, avevano interrotto un suo intervento sul Medio Oriente e negato il diritto a parlare perché “sionista”, l’ex deputato del Pd orgogliosamente ebreo Emanuele Fiano, Lele per gli amici, ha raccontato la sua esperienza al Corriere della Sera. Un racconto dal quale non so francamente chi esca peggio fra i ragazzi “tecnicamente fascisti”, come ha dato ad uno di loro lo stesso Fiano, o i commessi universitari che si sono coperti dietro il pretesto dell’orario per promuovere l’uscita di tutti dalla sala: contestatori e contestati. Fra i quali Fiano ha dignitosamente preteso, riuscendovi, di essere l’ultimo ad allontanarsi, continuando nel frattempo a battibeccarsi con gli studenti ostili. Che si erano distinti opponendo il segno della P38 degli anni piombo a quanti protestavano contro il pubblico solidale con Fano.

         Dichiaratamente “socialdemocratico” perché sempre consapevole, anche quando il suo partito si chiamava comunista, del carattere criminoso del comunismo bolscevico, Lele Fiano ha voluto essere generoso col Pd. Dove ha assicurato che non esiste dell’antisemitismo, nè diretto né di riporto, neppure da parte di quanti hanno recentemente accettato di manifestare nelle piazze, particolarmente a Roma, in cortei aperti da uno striscione che equiparava alla Resistenza di memoria italiana il terrorismo praticato da Hamas in Medio Oriente per sostenere la causa della Palestina. Una terra i cui abitanti sono diventati a Gaza ostaggi dei loro presunti difensori che hanno costruito sotto le loro case, le loro scuole, i loro ospedali, le loro strade e piazze le postazioni militari della lotta a Israele. Che sono ancora operanti nella fragilissima tregua sopraggiunta agli accordi firmati in terra egiziana e intestatisi dal presidente americano Donald Trump.

         C’è molto da fare in questi giorni al Nazareno, seguendo eventi parlamentari, di piazza e di correnti più meno di partito.  Sarebbe bello se la segretaria del Pd si facesse venire l’idea di aprire un ufficio, con tanto di competenze adeguate ai problemi di cui si occupa Fano, affidandoglielo. Bello, perciò improbabile.

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Al Quirinale con vista…di controllo su Palazzo Chigi

Con un articolo di Giulia Merlo pur intriso di “voci”, “suggestioni” e persino “chiacchiere”, testualmente e onestamente, il Domani di Carlo De Benedetti ha fatto squillare a sinistra l’allarme di una “idea pazza” del centrodestra da realizzare fra quattro anni, alla scadenza del secondo mandato di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica. Una “idea pazza” per lo stesso centrodestra, dove sarebbero in agitazione più candidati alla successione a Mattarella, e a quella a Gorgia Meloni a Palazzo Chigi se la l’attuale premier raddoppiasse e andasse poi al Quirinale.  Ma un’idea ancor più “pazza” e devastante per la sinistra di qualsiasi campo, largo o stretto, lungo o corto, impegnata a costruire un’alternativa alla destra, tout court, per ora sperimentata e sperimentabile a livello locale.

         La Meloni al Quirinale, che non sarebbe solo la prima donna a salire così in alto, ma  il primo presidente del Consiglio  a trasferirsi direttamente al vertice dello Stato, come avrebbe voluto fare, senza riuscirvi, Giulio Andreotti nel 1992, sarebbe sostituita a Palazzo Chigi dall’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Ma in veste più di tecnico che di leghista, perché come uomo del Carroccio potrebbe magari aspirarvi Matteo Salvini direttamente, presumibilmente stanco di essere stato vice presidente del Consiglio, prima di Giuseppe Conte, nel governo gialloverde del 2018, e poi in quello, anzi nei due prevedibili della Meloni. Che gli stessi tramortiti di sinistra, pur aspirando alla già ricordata alternativa, temono di dovere subire.

         L’unica speranza degli alternativisti, di tendenza elliana, dalla segretaria del Pd Elly Schlein, o di tendenza contiana, da Giuseppe Conte appena confermato con dati bulgari presidente solo del Movimento 5 Stelle, o di qualsiasi altra natura dovesse aggiungersi, è riposta nell’implosione del centrodestra. Che, poveretti, lor signori cercano di favorire, o alimentare come un fuoco, facendosi venire e diffondendo idee come quella “pazza”, appunto, attribuita alla Meloni e a Giorgetti di spartirsi praticamente da soli Quirinale e Palazzo Chigi. Una cosa riuscita qualche volta alla Dc, a dispetto della pratica della cosiddetta alternanza, e una volta sola, più per caso e che per calcolo, ai socialisti quando sedettero contemporaneamente Sandro Pertini al Quirinale e Bettino Craxi a Palazzo Chigi.

         Per ora gli alternativisti, ripeto, possono solo impanicarsi, da panico, e sognare il suicidio politico degli avversari. I più riflessivi fra loro, i meno disperati almeno nelle apparenze, stanno scoprendo e sperimentando la vecchia pratica democristiana della convegnistica.  Che si aggiungeva, qualche volta    persino sostituendosi alle riunioni di direzione o di consiglio nazionale o ai congressi. Si consolidavano così, o si spaccavano, correnti e sottocorrenti, chiarendo spesso più i rapporti di forza che le idee.

L’ultimo e più famoso, anzi prestigioso regista di quella pratica fu Aldo Moro. Che già quando gli capitò di essere segretario del partito ma ancor più dopo, quando ne fu solo il presidente o “il regolo”, come lo chiamava Indro Montanelli, raccomandava nei momenti difficili di “scomporre per ricomporre”. Egli tentò di farlo pure con gli aguzzini delle brigate rosse che lo avevano sequestrato nel 1978, portandoli a spaccarsi nella decisione sulla fine da riservagli. Ma fu una spaccatura rapidamente ricomposta nel peggiore dei modi, con la sua esecuzione nel bagagliaio di un’auto, fra atroci sofferenze ricostruite dagli esperti esaminandone i resti, essendo la morte sopraggiunta per dissanguamento, non per un colpo secco e mirato al cuore.

         Ma torniamo alla Dc e al partito che presume di averne preso di più il posto, che è il Pd debitore con l’area di provenienza cattolica della promessa di una prossima tessera di iscrizione con l’immagine di un democristiano, dopo quella di Enrico Berlinguer. Non mi sembra francamente di vedere, al Nazareno e dintorni, uomini in qualche modo paragonabili davvero a Moro.

Pubblicato su Libero

L’idea “pazza” diffusa a sinistra di Meloni al Quirinale e Giorgetti a Palazzo Chigi

         A sinistra, in crisi ormai anche depressiva e non solo politica per la tenuta sondaggistica a livello nazionale, ed elettorale in sede locale, del governo di Giorgia Meloni, pur alle prese con la scadenza generalmente difficile e impopolare della manovra finanziaria di fine anno collegata al bilancio, si fanno avanti col panico. E lanciano, attraverso Domani, il giornale del sempre vigile ingegnere Carlo De Benedetti, la “pazza idea” del centrodestra di mandare al Quirinale fra cinque anni, alla scadenza del secondo mandato di Sergio Mattarella, l’ancora premier confermata nelle elezioni del 2027, e insediare a Palazzo Chigi l’attuale ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Ma considerandolo più in tecnico che un leghista. Un’idea tanto pazza, ripeto, che starebbero impazzendo, appunto, anche nel centrodestra, dove non mancano ambizioni di altri, per quanto non ancora confessate, tanto alla Presidenza della Repubblica quanto alla Presidenza del Consiglio.

         I due, Meloni e Giorgetti, uniti proprio in questi giorni nel difendere i conti dello Stato dalle critiche e dall’assalto delle opposizioni, ma anche di parti più o meno consistenti della stessa maggioranza, sono ormai per Giorgia Merlo di Domani una coppia politica consolidata. E temuta. “I due si sentono, si fidano l’una dell’altro si stimano”, ha scritto la cronista. Che per fortuna di è fermata qui. Non è andata oltre prospettandone l’innamoramento. La Meloni peraltro, si sa, è anche una singola sentimentalmente dopo la rottura abbastanza clamorosa col compagno, padre della figlia Ginevra. Giorgetti risulta ancora felicemente sposato, e padre di una figlia pure lui, ma tutto -si sa- potrebbe accadere. Anche un’altra cosa “pazza”.

         Siamo ormai, ripeto, alla follia ammessa dalla stessa giornalista in un lungo articolo   fortunatamente scampato alla tentazione di qualcuno di sistemarlo come spalla o apertura, come si dice in gergo tipografico, della prima pagina del giornale debenedettiano. E’ finito in prima pagina lo stesso, ma in basso a sinistra, con un richiamo visibile ma non troppo.  

Ripreso da http://www.statmag.it        

Il Conte in edizione bulgara al vertice del Movimento 5 Stelle

Sarebbe troppo facile, persino banale, commentare la conferma di Giuseppe Conte a presidente del Movimento 5 Stelle rilevandone solo il carattere bulgaro, come si dice da quando la Bulgaria fu il paese più monolitico e disciplinato fra gli alleati o satelliti dell’Unione Sovietica.

         La rielezione è avvenuta senza concorrenti e con quasi il 90 per cento dei voti espressi, in particolare con 53.353 sì e 6.307 no, per un totale quindi di 59.660 votanti. Altri 42.123 dei 101.783 iscritti e aventi il diritto di partecipare all’elezione col metodo elettronico non hanno trovato il tempo e soprattutto la voglia di digitare un sì o un no. Se Conte abbia gradito o no, e davvero, tanto assenteismo, diciamo così, non si è riusciti a capire. E tanto meno si sa, almeno mentre scrivo, come l’abbia presa nel suo ritiro e silenzio, destinato a durare chissà quanto, il fondatore ed ex garante del movimento Beppe Grillo.

         Sarebbe troppo facile e pesino banale, dicevo, soltanto ironizzare sull’edizione ed elezione bulgara di Conte. E perciò non lo faccio. Prendo anzi sul serio la conferma e la fine del regime di proroga in cui Conte ha dovuto ultimamente operare, facendo anche scelte di un certo impegno, come il tipo di rapporto col Pd rimproveratogli dall’ormai ex vice presidente del movimento, ed ex sindaca di Torino, Chiara Appendino attribuendogli  la responsabilità delle perdite in questo turno autunnale di elezioni regionali, sia dove la sinistra in qualche modo associata ha perduto, come nelle Marche e in Calabria, sia dove ha vinto, come in Toscana.

         Per difendersi dalle critiche dell’Appendino e guadagnarsi la conferma a presidente pentastellato Conte ha ritenuto di smentire che si sia davvero alleato col Pd della Schlein. L’alleanza, come il cosiddetto campo largo perseguito con ostinazione dalla segretaria del Nazareno, sarebbe anch’essa una forzatura, una espressione o invenzione “giornalistica”. C’è solo una disponibilità a intese, per ora solo locali, nelle quali Conte si propone di essere irriducibilmente “scomodo”. Quanto si presume ragionevolmente che debbano sentirsi anche gli altri, a meno di una loro vocazione non eroica ma masochistica.   

         Sia a livello locale sia, un giorno, a livello nazionale per diventare davvero l’alternativa al centrodestra, come Pier Luigi Bersani raccomanda di chiamare il campo largo sgradito a Conte, rimarrebbe a operare contro il governo uno schieramento com’è quello attuale. Il cui limite di non avere un programma e una credibilità è riconosciuto da una parte consistente del Pd, compreso l’uomo che viene considerato, nei salotti televisivi dove viene invitato, al di sopra delle parti, pronto a dare consigli e rassegnato a non vederli applicati: l’ex presidente del Consiglio e professore emerito Romano Prodi. Che, ospite qualche giorno fa di Lilli Gruber, è tornato ad ammettere che l’alternativa al centrodestra, per quanto diviso anch’esso sulla manovra finanziaria appena proposta al Parlamento, semplicemente e dannatamente non c’è.

Pubblicato sul Dubbio

Il presunto plebiscito che ha confermato Conte alla presidenza delle 5 Stelle

         Mi sembra francamente troppo quel “plebiscito” annunciato in prima pagina dal simpatizzante, a dir poco, Fatto Quotidiano a proposito della conferma con voto elettronico di Giuseppe Conte a presidente del MoVimento già grillino delle 5 Stelle. Un’esagerazione che lo stesso giornale diretto da Marco Travaglio ha contraddetto titolando anche sulla consistenza del risultato. Non il quasi 90 per cento dei votanti trionfalmente annunciati dal partito nel comunicato ufficiale, ma il 58.6 per cento degli “iscritti votanti”, ha pasticciato Il Fatto. Pasticciato, perchè i votanti sono stati un po’ più della metà dei 101 mila iscritti. Il che significa che a confermare Conte presidente del partito è stato pressappoco un iscritto su due: non proprio un plebiscito. Piuttosto una spaccatura.

         A ridimensionare la rielezione di Conte contribuisce anche la circostanza ben poco, o per niente competitiva dell’assenza di uno sfidante. Di solito chi tiene davvero ad una vittoria credibile, diciamo così, evita di correre da solo e si cerca lui stesso un competitore.

         Il voto comunque c’è stato, con tutte le certificazioni notarili del caso, e si è ormai passati a tutti gli effetti, sotto le 5 Stelle, da un primo ad un secondo movimento, come accadde una trentina d’anni fa alla Repubblica, passata dalla prima alla seconda. Si vedrà nel caso del partito ormai di Conte, se e con quali reazioni del fondatore deposto, attese dai fedelissimi che non sono sicuramente soltanto i 6.300 e rotti iscritti  che hanno partecipato alla votazione per digitare no.   

La rete di sicurezza che manca ai magistrati nel referendum su di loro

Sembra una concessione, magari alla corrente alla quale appartiene e che è comunemente considerata a destra nella geografia dell’associazione nazionale delle toghe magistrati, Magistratura Indipendente, ma non lo è per niente la promessa del presidente Cesare Prodi di non politicizzare l’avversione referendaria alla riforma della giustizia targata Nordio. Dal nome del guardasigilli     che se l’è volentieri intestata.

         Il governo -si è impegnato Parodi parlando nel “palazzaccio” romano della Cassazione ad un’assemblea di colleghi in attività o in pensione, o semplicemente passati ad un’altra professione continuando a indossare la toga nel cuore, non sarà l’obbiettivo della campagna referendaria. Lo saranno solo la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la correlata divisione del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio al posto delle relative elezioni spartitorie fra le correnti, l’alta corte di giustizia introdotte dalla riforma. Come se un provvedimento di tale portata, dopo almeno una trentina d’anni di confusione, a dir poco, nella gestione della giustizia, potesse prescindere dal governo e dalla maggioranza che l’hanno concepita. E non nascosta, ma promessa agli elettori che hanno gradito facendo vincere al centrodestra le elezioni anticipate -non dimentichiamolo- di tre anni fa.

         La concessione -o la finta, come dicono a Roma- del presidente dell’associazione nazionale dei magistrati nasce dalla consapevolezza realistica, direi, della stabilità del governo in carica. Che, pur mantenendo i conti sotto controllo, cosa generalmente poco popolare, è riuscito a tenere e persino a migliorare la sua credibilità elettorale. Tanto che gli aspiranti all’alternativa del campo largo ed altre diavolerie in natura sono letteralmente disperati all’idea di una conferma del centrodestra fra due anni, in occasione del rinnovo delle Camere. Dove si sono peraltro accorti nel Pd e dintorni che per la prima volta nella storia della Repubblica potrà patire per il  Quirinale nel 2029, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, non solo la stessa donna già arrivata per prima a Palazzo Chigi ma un Capo dello Stato dichiaratamente, orgogliosamente  centrodestra. Di un centrodestra trasparente, non pasticciato, improvvisato e nascosto come ai tempi, nella cosiddetta prima Repubblica, di Giovanni Gronchi, Antonio Segni e Giovanni Leone. Alla cui elezione concorsero dietro le quinte parlamentari dell’allora Movimento Sociale. D’altronde, anche il capo dello Stato provvisorio Enrico De Nicola e il primo presidente Luigi Einaudi non erano certamente arrivati dalla sinistra.

         La stabilità del centrodestra italiano nella situazione interna, per non parlare della situazione internazionale, nel cui contesto la Meloni è ancora più apprezzata, è un doppio handicap per i magistrati mobilitatisi contro la riforma costituzionale in  arrivo. Essi sanno che, perdendo la partita, non potranno realisticamente puntare ad un recupero parlamentare come quello che nel 1988, all’epoca dell’unico governo di Ciriaco De Mita, li salvò dalla responsabilità civile derivata l’anno prima dal referendum abrogativo delle norme ordinarie che li mettevano al riparo totale da errori e inadempienze, volute o non.

         A togliere lor signori togati dal vicolo cieco in cui erano finiti col referendum promosso da radicali e socialisti fu, nel già citato governo De Mita, un guardasigilli socialista come Giuliano Vassalli, nel silenzio imbarazzato dell’ormai ex presidente del Consiglio e compagno di partito Bettino Craxi. Silenzio imbarazzato ma non sorpreso, credo, perché Vassalli era stato tra i pochi socialisti, se non l’unico, contrario al referendum per l’introduzione della responsabilità civile. La sorpresa magari Vassalli la procurò a Craxi lasciando praticamente scrivere ai magistrati del suo Ministero la legge che restituì alle toghe una protezione forse anche superiore alla precedente.

         Quell’esperienza politica e legislativa oggì è irripetibile, per fortuna.

Pubblicato su Libero

Il referendum in arrivo sulla magistratura, altro che sul governo Meloni

         Cesare Parodi, il presidente dell’associazione nazionale dei magistrati mobilitatasi con largo anticipo per il referendum cosiddetto confermativo della riforma della giustizia non ancora approvata del tutto dalle Camere, mancandole l’ultimo passaggio, ha appena detto da un raduno dei suoi colleghi – in attività o in pensione, o passati ad altro lavoro ma con la toga ancora sul cuore, come si vantava la buonanima di Oscar Luigi Scalfaro al  Quirinale- che  il governo non sarà l’obiettivo della lotta. I magistrati ne hanno detto, dicono e fanno di tutti i colori con le loro incursioni in campo governativo, fra  le proteste della premier Giorgia Meloni e il sarcasmo, spesso, del guardasigilli Carlo Nordio, ma non perseguono, per carità, la crisi.

         Meloni, Nordio e via via tutti i ministri e i partiti della coalizione di centrodestra dovrebbero ringraziare di tanta generosità e responsabilità Parodi, peraltro appartenente a Magistratura indipendente, la corrente più a destra o meno a sinistra, come preferite, dell’arcipelago politico dell’associazione. Ma credo che non lo faranno perché non sprovveduti, o non ancora, al punto di scambiare lucciole per lanterne, come si dice. La vocazione antigovernativa del sindacato delle toghe, nei riguardi di qualsiasi Gabinetto ministeriale, di destra o di sinistra, impegnato in qualche riforma vera, non verbale, della giustizia è ormai troppo evidente per essere ignorata.

         Ma ciò che Parodi mostra, con la sua sortita, di non avere avvertito con tutti i suoi colleghi è che il referendum in arrivo, diciamo così, sarà ormai sulla giustizia, più ancora che sulla sua riforma. Su come essa funziona, a carriere congiunte di giudici e pubblici ministeri, e con l’autogestione attraverso il Consiglio Superiore della Magistratura eletto dalle correnti.

         Il referendum sta arrivando nel momento forse peggiore per la giustizia gestita dalle norme e abitudini correnti. Sul delitto di Garlasco di una ventina d’anni fa si stanno vedendo cose a dir poco sconcertanti, con un condannato definitivo che sconta la sua pena mentre i magistrati competenti, per territorio e altro, ne stanno demolendo il processo.

         Sul delitto di 45 anni fa del fratello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Piersanti, presidente della regione siciliana, è stato appena disposto l’arresto di un ex questore ed ex prefetto che ha fatto la sua carriera non so se a causa o nonostante gli errori, a dir poco, nelle indagini  sui partecipò a suo tempo, nella Squadra Mobile di Palermo. Non parliamo, poi, di quelle condotte da altri ancora sul delitto del magistrato Paolo Borsellino nel 1992, trentatre anni fa.

         Sull’assoluzione definitiva, ancora fresca di stampa, del compianto Silvio Berlusconi dalle accuse di mafia che gli avevano rovinato una trentina d’anni di vita, proprio Parodi ha praticamente contestato alla figlia Marina il diritto di lamentarsi, come ha fatto in una lettera al Giornale, perché il sistema giudiziario si sarebbe rivelato efficiente. Il treno dell’assoluzione, diciamo così, è arrivato in ritardo, ma è pur sempre arrivato, senza disperdersi.

A Filippi, dicevano i romani. Al referendum, possiamo dire oggi pensando a questa giustizia, con la minuscola. E a questa magistratura..

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