Davanti e dietro le quinte della profonda crisi francese

         La notizia ufficiale, rigorosamente diffusa con l’evidenza che merita da gazzettieri, pennivendoli e via scorrendo gli aggettivi che assegnava la buonanima di Ugo La Malfa ai giornalisti da lui considerati renitenti alla sua visione di cose, situazioni e uomini, o donne, è la bocciatura parlamentare del governo francese di Francois Bayrou. Battuto riferendo, anzi confermando lo stato della Francia come un paese dei balocchi, come peraltro  è capitato spesso all’Italia di essere considerata sia nella prima Repubblica sia nella seconda, pur fra le proteste dell’ex ministro democristiano del bilancio, ancora felicemente in vita, Paolo Cirino Pomicino, di tendenza andreottiana.

         “Voi potete rovesciare il governo, ma non la realtà”, ha detto il premier francese prima di essere licenziato con 364 voti contro 194 da un Parlamento deciso a liberarsi intanto di lui, rinviando ad altra data i conti con la realtà, appunto. Che in Francia è anche di grandissima tensione sociale, fra scioperi e manifestazioni.  

         La notizia ufficiale, dicevo, è questa. Quella non ancora ufficiale, per le resistenze che l’interessato oppone alle sue dimissioni reclamate da destra e da sinistra, in Parlamento e nelle piazze, è la crisi ormai irreversibile del presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron. O del “macronismo”, come viene definito il suo stile, metodo e contenuto di governo solo nominalmente guidato dal premier di turno, da lui stesso scelto e affidato al logoramento parlamentare e sociale. Un macronismo che non ne fa un Napoleone dei nostri tempi, come dicono sarcasticamente i suoi avversari e lui stesso un po’ si compiace di essere considerato, ma solo una mezza caricatura.

         Ciò nuoce non solo al presidente arroccato nella difesa di un mandato che gli scadrà irrevocabilmente fra due anni. Nuoce anche, o soprattutto, alla Francia e pesino all’Europa in questa congiuntura internazionale di passaggio dal vecchio ordine mondiale concordato a Yalta 80 anni fa e quello nuovo che sono ormai in troppi a volere definire. E che impiegherà chissà quanto a realizzarsi imponendosi alle guerre in corso così tanto diffuse e radicate che il candidato al premio Nobel della pace Donald Trump, da sette mesi di nuovo alla Casa Bianca per altri quattro anni, ha appena restituito alla Guerra, con la maiuscola, il titolo del Dipartimento della Difesa, anch’essa con la maiuscola.  

         In questa situazione internazionale è comprensibile, per carità, la soddisfazione attribuita nella vignetta di Stefani Rolli sul Secolo XIX alla premier italiana Giorgia Meloni, che si appresta a celebrare i tre anni trascorsi ininterrottamente alla guida del governo di centrodestra. Cui le opposizioni si accontentano -entusiasticamente, addirittura- di allestire alternative locali. Comprensibile, dicevo, la soddisfazione satirica della Meloni. Ma non sufficiente, o non ancora, a produrre tanta fiducia quanto ne occorre, almeno in Europa.

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Guerra e pace del presidente americano Donald Trump

Anche le parole, come i soldati nella famosissima poesia ispirata a Giuseppe Ungaretti dal primo conflitto mondiale, stanno “come foglie d’autunno” sull’albero. La Difesa, con la maiuscola, alla quale era intestato il Pentagono, è caduta in un autunno anticipato per far tornare alla Guerra, sempre al maiuscolo, il segretario di Stato che vi è addetto. Sinistramente, direi, in una lunga congiuntura internazionale di conflitti che si accendono, spesso per niente, e nessuno riesce poi a fermare davvero. Quando non le alimenta con iniziative persino controproducenti.

  Il ripristino della Guerra su edifici, porte e carte intestate potrebbe compromettere per senso comune la pratica del premio Nobel della pace cui il presidente deli Stati Uniti Donald Trump sembrava molto interessato. Almeno sino a qualche giorno fa, quando gli furono attribuite telefonate personali a chi se ne sta occupando in Norvegia.

         E pensare che in Europa, della quale Trump del resto non  è entusiasta, pur ricevendone ogni tanto esponenti senza necessariamente insultarli o cacciarli, il “riarmo” adottato per definirne il programma per poco non è costato il posto alla presidente tedeschissima della Commissione, Ursula von der Leyen. Persino l’amica italiana Giorgia Meloni ha traballato all’annuncio.

         Certo, una parola come Guerra scolpita o stampata fa meno impressione di una parata militare come quella, imponente e coloratissima, svoltasi a Pechino proprio a ridosso, e forse propedeutica alla decisione di Trump. Ma non è detto che sia un’impressione azzeccata. A volte, si sa, le parole pesano e colpiscono più dei fatti. Non vorrei che questo fosse il caso, vista la temperatura del pianeta, sotto tutti i punti di vista.

         Solo un uomo riesce ad accomunare perfettamente, direi, parole e fatti, dopo un periodo breve di incertezza, quando Silvio Berlusconi a Pratica di Mare per poco non  riuscì a farlo aderire davvero alla Nato. Si tratta naturalmente del presidente russo Putin, peraltro compiaciuto di essere considerato lo zar di turno al Cremlino. Uno zar più zar di tutti gli altri che lo hanno preceduto nei secoli. E che certo, non potevano pensare di poter contare su un successore come lui, cresciuto nella esaltazione prima e nel rimpianto poi di quel tale rivoluzionario che ne fece trucidare uno con la famiglia a Ekaterinburg. Era il 16 luglio 1918. “Soltanto” 107 anni fa. Ne sono invece passati 17 dai funerali di Stato, a San Pietroburgo, concessi ai resti di Nicola di Russia, a Unione Sovietica ormai finita, da un premier di nome Putin. Si, proprio lui. quello che dal Cremlino sta praticando con particolare “ferocia”, appena rimproveratagli dalla premier italiana Giorgia Meloni, la sua guerra di turno. Che è all’Ucraina. La martoriata Ucraina delle preghiere e suppliche del Papa americano Leone XIV e del suo predecessore argentino Francesco. Di cui Putin non si è ancora beffardamente chiesto, come Stalin a suo tempo parlando di Pio XII, di quanti eserciti disponga la Santa Sede.

Pubblicato sul Dubbio

Gli indifferenti d’Ucraina e gli sdegnati di Gaza….

Di solito accorto nelle aggettivazioni, sino a esasperare lettori amici come mi permetto di considerarmi, Paolo Mieli è oggi sbottato sul Corriere della Sera dando degli “indifferenti” agli spettatori della guerra in Ucraina. Dove in un solo giorno sono esplosi ieri circa ottocento fra droni e missili, uno dei quali ha colpito a Kiev il palazzo del governo, deviato forse da un colpo dell’artiglieria ucraina, ha spiegato il solito Marco Travaglio sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano. Insomma anche questo se lo sarebbe cercato Zelensky,

         “Indifferenti” -ripeto- gli spettatori della guerra in Ucraina, cominciata o ricominciata, secondo alcuni, tre anni e mezzo fa con una “operazione speciale” russa che avrebbe dovuto concludersi in una quindicina di giorni con la “denazificazione” del paese limitrofo. “Sdegnati”, secondo Mieli, gli spettatori della guerra a Gaza condotta da Israele con metodi e finalità da genocidio, secondo i nemici, i critici e i falsi amici dello Stato ebraico. Sui quali i terroristi di Hamas puntano più che sui loro ormai malmessi arsenali sotterranei per uscire comunque vincenti sul piano mediatico mondiale dal conflitto provocato con tanta ferocia il 7 ottobre di due anni fa macellando e sequestrando più di milleduecento persone in territorio israeliano. Più di 60 mila sono i caduti nella reazione d’Israele. Avrebbero potuto essere molti di meno se i terroristi non avessero abusato per primi dei palestinesi di Gaza facendone scudi umani. Ma anche questo forse sarebbe un discorso genocida. Da liquidare “sdegnati” nell’aggettivazione di Mieli.

L’Ascensione…regionale della segretaria del Pd Elly Schlein

Con tutto quello che accade nel mondo, pur a tanta distanza apparente da noi, a 2.300 kilometri da Kiev, 2.340 da Gaza, 2.400 da Mosca 7.200 da Washington. 8.240 da Pechino, la segretaria del Pd Elly Schlein non è mai stata felice come in questi giorni. Anche più di due anni fa, quando riuscì forse a sorprendere anche se stessa arrivando  al vertice del maggiore partito di opposizione, sostenuta più dagli esterni che dagli interni, più dai passanti che dagli iscritti. Che le avevano preferito Stefano Bonaccini.

         La Schlein è ormai fuori dai panni, senza tuttavia regalarci o infliggerci la sua nudità, perché in “tutte” le sei regioni in fila per il rinnovo autunnale delle loro amministrazioni, lei è riuscita a predisporre, con tanto di candidati alle presidenze, il cosiddetto campo largo dell’alternativa, che vorrebbe essere anche nazionale, al governo di centrodestra guidato da Giorgia Meloni. “Fatevene una ragione”, ha gridato alla premier e alleati, che avrebbero finito di giocare e vincere sulla sinistra e dintorni a causa delle sue divisioni.

         Gli accordi, almeno quelli nominali, pur mettendo nel conto la componente più lontana e sofferente, che è quella di Carlo Calenda, sono stati possibili per i loro confini locali. Se nelle trattative si fosse solo affacciata la politica estera, in modo concreto e non generico o retorico come l’invocazione alla pace, le intese sarebbero mancate tutte. Come mancherebbero, a dispetto della fiducia, delle scommesse e delle dita alzate della Schlein, a livello nazionale. Almeno su questo la Schlein dovrebbe convenire. E  non alzare le spalle, come fa  da mesi, fra le rasoiate di protesta dell’ex senatore, capogruppo, tesoriere del Pd Luigi Zanda. Che prima ha chiesto addirittura un congresso anticipato per definire la politica estera del partito, poi un mezzo congresso come sarebbe la solita assemblea di tema, infine una riunione quanto meno della direzione al Nazareno. Non ottenendo naturalmente nulla, e mettendosi in paziente, martirologica attesa dell’appuntamento che la segretaria e i suoi astuti consiglieri, prendendo il peggio delle vecchie abitudini democristiane e comuniste, ha dato a tutti dopo cioè le elezioni regionali, con la forza che spera di ricavarne.

         Intanto all’interno del cosiddetto campo largo, contestato da Giuseppe Conte già nella sua denominazione, preferendogli il campo “giusto”, affollato di “progressisti indipendenti”, anche l’uno dall’altro, lo stesso Conte da secondo per nulla rassegnato incassa politicamente qualcosa ogni giorno e si allena alla resa de conti finale, se e quando arriverà. Cioè quando, prima o dopo le elezioni politiche generali per il rinnovo delle Camere, secondo i tempi e le procedure dell’ennesima nuova legge elettorale di cui si occupano per ora solo i retroscenisti, lo stesso Conte e la Schlein potranno o dovranno giocarsi la carta intestata di Palazzo Chigi, se non vi dovesse essere confermata Giorgia Meloni, magari per il successivo salto al Quirinale. Dove si attende l’arrivo della prima donna Presidente dalla nascita della Repubblica.

         In sede regionale, cioè locale, per tornare all’argomento di partenza, che è lo scenario internazionale, la cosiddetta geopolitica, i problemi più spinosi che hanno dovuto affrontare Schlein, Conte, Bonelli, Fratoianni, Renzi, Calenda e loro delegati sono stati al massimo quelli di qualche inceneritore da ereditare o demolire e della lotteria ridotta del reddito di cittadinanza.

         Nessuna regione, almeno sino ad ora, salvo una ulteriore riforma del titolo quinto della Costituzione, dispone di un dipartimento o assessorato alla Difesa, da convertire eventualmente in Guerra, sempre con la maiuscola, come ha appena fatto Trump negli Stati Uniti col Pentagono mandando un usciere e cambiare la targa alla porta del competente segretario di Stato. E saldando così i conti col presidente cinese gonfiatosi ulteriormente godendo la parata di Pechino. Molto piaciuta anche all’ospite italiano che era l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, l’unico comunista italiano -o post comunista- giunto a suo tempo a Palazzo Chigi.

Pubblicato su Libero

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Quel dipartimento americano passato dalla difesa alla guerra

         Molti probabilmente sceglierebbero come immagine emblematica, sul piano internazionale, della settimana che si chiude con questa domenica 7 settembre una della parata militare a Pechino. Dove è corso, credo su invito dei suoi amici cinesi, l’ex premier italiano Massimo D’Alema per compiacersi di tanta forza ostentata celebrando il passato a parole, a 80 anni dalla conclusione della seconda guerra mondiale anche in Asia, e il presente nei fatti, diciamo così. Che è un’espressione cara anche a D’Alema quando chiude una frase generalmente perentoria parlando al plurale, cioè intestandosi la rappresentanza della maggioranza. Vecchio trucco oratorio imparato non so se a Pisa, quando lui studiava all’Università, o alle Frattocchie, alle porte di Roma, quando si formava alla scuola del Pci.

         A me personalmente ha colpito di più, della settimana che si conclude oggi, l’immagine della sostituzione della targa sulla porta del Segretario di Stato americano alla Difesa, che da qualche giorno si chiama Segretario alla Guerra. Non sono riuscito a rintracciare la solita foto del presidente Donald Trump alla firma del relativo ordine esecutivo, con tanto di  lettere allineate come torri. Questa volta Trump non so se sia trattenuto, accontentandosi della foto della targa diffusa dal Dipartimento ora -ripeto- della Guerra, o ce l’abbia solo risparmiato su suggerimento, magari, della moglie Melania.  Della quale si legge ogni tanto qualche retroscena o indiscrezione polemica nei riguardi della fiducia che, sia pure a fasi alterne, il marito nutre nel premier russo Putin. E nella sua volontà di pace in Ucraina mentre continua a devastarla e a insanguinarla.

         Questa storia del Dipartimento di Stato americano passato dalla Difesa alla Guerra con un tratto di penna o la targa rimossa con un banale cacciavite, mi sembra peggiore persino di un missile sparato a titolo dimostrativo, o per un errore di cui poi scusarsi.  E pensare che qui da noi, in Europa, della quale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha appena voluto sottolineare la insostituibilità eccetera eccetera, abbiamo sentito levarsi proteste, lamentele, distinzioni, persino da parte della premier Giorgia Meloni che le è amica personale, per la decisione della presidente della Commissione di Bruxelles, la tedesca Ursula von der Leyen, già ministra della Difesa del suo paese, di chiamare “riarmo” il programma di potenziamento delle strutture militari dei paesi dell’Unione di fronte a minacce e rischi  che provengono dalla Russia, come dimostra la guerra in Ucraina in corso da più di tre anni e mezzo.

         A la guerre comme à la guerre, si diceva una volta in francese.    

La partita pugliese del Pd giocata con una certa follia, ma senza metodo

         A Bisceglie, la città celebre anche per uno dei maggiori manicomi italiani del secolo scorso, fondatovi da don Pasquale Uva, si è conclusa con una certa follia, ma senza il metodo attribuito ad Amleto, la saga del candidato del Pd alla presidenza della regione pugliese. Ha accettato di esserlo l’ex sindaco di Bari Antonio Decaro, eletto l’anno scorso al Parlamento europeo con quasi cinquecentomila voti di preferenza: voti veri, non finti. Raccolti uno per uno nella circoscrizione meridionale d’Italia, non acquisiti d’ufficio, diciamo così, in quanto capolista per il Nazareno.

         L’aspetto buffo, se non lo vogliamo chiamare folle, dell’annuncio dato a Bisceglie in tandem con la segretaria del partito Elly Schlein, nella cornice della locale festa dell’Unità che non è però il giornale diretto da Piero Sansonetti e riportato nelle edicole dall’editore napoletano Alfredo Romeo ma quello vecchio e fallito del Pci; l’aspetto buffo, ripeto, dell’annuncio sta nel fatto che Decaro dovrà guardarsi da entrambi i suoi illustri predecessori. Da Nichi Vendola, il leader della sinistra radicale, nel Consiglio regionale e dal compagno di partito Michele Emiliano ovunque questi deciderà alla fine di agire: nello stesso Consiglio, dove è tornato per un po’ anche ieri a minacciare di candidarsi per non essere “il fesso” della partita rispetto a Vendola, o altrove. Decaro dovrà guardarsene  anche a costo di “menare”,  come se fossero degli avversari e non soci di coalizione, maggioranza e quant’altro. Menare -ha detto- come un suo vecchio amico lo incitò e gli insegnò dagli esordi della sua lunga carriera politica.

         Dei due scomodi compagni di coalizione e partito non so francamente quale potrà rivelarsi più insidioso. Se Emiliano, ingombrante già nel fisico e nella parte che si attribuisce di padre politico del suo successore, o lo stesso Vendola. Che si si è un po’ tenuto da parte negli ultimi tempi non per mettersi anticipatamente in pensione, a meno dei 70 anni che ha Decaro, ma per ricaricare ben bene le proprie batterie, orgoglioso anche della sua genitorialità omosessuale.

         Il sollievo di Elly Shlein nella epifania fuori stagione della candidatura di Decaro è duplice. Essa ha salvato quel campo largo cui così testardamente lavora, esteso da Giuseppe Conte a Matteo Renzi, nella prospettiva di un’alternativa nazionale al centrodestra in buona salute di Giorgia Meloni, apprezzata anche all’estero per la sua stabilità  E ha inchiodato alla fine Decaro ad un percorso  che potrebbe renderlo meno competitivo, quando verrà il momento di un congresso, ordinario o anticipato, per la carica di segretario del partito, al suo posto.

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Ventisei paesi volenterosi di terzo tipo in soccorso dell’Ucraina

         E’ più virtuale che reale l’annuncio dato dal presidente francese Macron – dopo un summit a Parigi al quale ha partecipato anche il presidente ucraino Zelensky- di 26 paesi disponibili a garantire la sicurezza del paese aggredito più di tre anni e mezzo fa dalla Russia di Putin,    che ancora ne occupa una parte e ne bombarda ferocemente altre, a cominciare dalla capitale Kiev. E’ un sostegno più di terzo tipo, come si diceva una volta degli incontri con extraterrestri, che di primo o secondo.

         Intanto sono garanzie condizionate al momento in cui sarà stata concordata almeno una sospensione del conflitto, se non la pace. E di questo non c’è certezza. O non ancora. In secondo luogo, ciascuno dei 26 potenziali o virtuali volenterosi, compresa l’Italia che si è fatta sentire a Parigi con la premier Giorgia Meloni collegata da Roma, parteciperà a modo suo al piano enfatico di protezione di cielo, di mare e di terra. L’Italia, in particolare, senza mandare truppe sul territorio, neppure gli sminatori -a quanto sembra- dei quali aveva parlato nei giorni scorsi il vice presidente forzista del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Gli italiani provvederanno a “monitoraggi” dell’eventuale tregua che per la loro natura elettronica potranno essere effettuati a distanza. O contribuiranno alla formazione militare degli ucraini senza inoltrarsi nei loro territori.

         Oltre che agli incontri di terzo tipo già accennati, verrebbe voglia di paragonare l’impegno italiano sinora ipotizzato a favore dell’Ucraina ai servizi di ufficio quando c’era la leva militare. Servizi neanche con obbligo di divisa e di scarponi, 

         Già debole per le crisi di governo fra le quali si dibatte facendo finta di nulla, Macron esagererà in pose napoleoniche, contestategli a Mosca da Putin in persona e subordinati, a Roma da Matteo Salvini in libera uscita dal suo ufficio di vice presidente del Consiglio. Ma anche l’Italia rischia di esagerare nella mimetizzazione.

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Tutte le ambizioni della Cina e le frustrazioni dell’Occidente

         In Cina, si sa, tutto è o diventa grande. Anzi, enorme. Dalla miseria di certa periferia geografica e sociale ai missili che sfilano nelle parate militari, alla cui sola vista ti senti a casa schiacciato come un verme. Lo era già ai tempi dell’esplorazione di Marco Polo, avventuratosi da Venezia in quelle terre. Figuriamoci adesso, con la popolazione che si si misura a miliardi e la tecnologia nella quale i cinesi sono diventati dei fenomeni, copiando l’Occidente sino a superarlo, o quanto meno a minacciarne la sicurezza. Che d’altronde è già messa a dura prova dagli errori dei “bulli” di turno, come ha detto Xi in tenuta maoista alludendo naturalmente al presidente americano Donald Trump. Vi dice niente questo nome e cognome, senza vederne la firma a forma di torri svettanti?

         In Cina è diventata grande, grandissima, enorme anche l’ambizione, pur suicida perché i contenitori sono quelli che sono, di vivere a lungo. Addirittura sino a 150 anni, come si è proposto Xi, sempre lui, parlandone con Putin. Che magari avrà pensato, con tutto il tempo che gli si offre, di riuscire anche a farsi ricrescere i capelli. Chissà cosa avrebbe pensato, se fosse ancora vivo, a sentire questa storia il nostro Silvio Berlusconi, spintosi ad immaginarsi attorno ai 100 anni, poco sopra o poco sotto, e andatosene solo, diciamo così, agli 87 neppure compiuti, se non ricordo male.

         Diventa grande in Cina, con riflessi sulle prima pagine dei giornali domestici, come dicono gli americani, anche la comparsa dell’ex premier Massimo D’Alema, l’unico che Matteo Renzi sia riuscito a rottamare in Italia. Egli è corso fra gli spettatori, ospiti e quant’altro della parata celebrativa della conclusione della seconda guerra mondiale, e del contributo datovi dai cinesi alle prese con i giapponesi, piegati tuttavia solo dall’atomica americana. Ma queste sono inezie, diciamo così, che dovremmo vergognarci solo a pensare, figuratevi a scrivere.

         In questa orgia di esibizioni muscolari, di minacce e simili dovremmo vergognarci anche delle miserie della nostra politica interna, presa su pagine intere di giornali stampati da poche elezioni regionali d’autunno da cui sembra che debba dipendere, sotto sotto, anche il futuro della…Cina. Via, signori, cercate di contenervi.

Quando Emilio Fede andava a messa privata dal Papa

Nell’angolo archeologico dove gli anni inevitabilmente relegano il cronista, che rivive l’attualità collegandola ai suoi ricordi, metto da parte i dissapori, che ho pur avuto con lui sino ad archiviare una sia pur lunga amicizia, e riconosco al collega Emilio Fede, morto a 94 anni compiuti a giugno, di essere stato un giornalista attivo, appassionato, valente come pochi altri che hanno avuto più fortuna di lui nell’esercizio della loro professione. Senza imbattersi in disavventure che, come tutte le disavventure, finiscono abitualmente per sommergere anche le avventure.

         Non dimenticherò mai quella mattina dei primi anni Ottanta in cui fui invitato da lui nel suo ufficio di direttore del Tg 1. Era una mattina caldissima d’estate, dalla quale lui si proteggeva con l’aria condizionata regolata al massimo, tanto da costringerlo a proteggere lo stomaco avvolgendolo in un maglione arrotolato. “Sono le correnti della Dc”, mi disse scherzando, ma non troppo.

  Gli era infatti capitato di succedere da vice, e poi a tiolo pieno,  ad un direttore di anagrafe democristiana, nella lottizzazione praticata alla Rai, coinvolto e infine travolto dalla vicenda della P2, Che era una loggia massonica speciale alla cui iscrizione, spesso persino inconsapevole, corrispondeva il sospetto, l’accusa e quant’altro di scalare affari e persino attentare alla sicurezza dello Stato.

         Pur socialdemocratico di adozione certificata anche dal matrimonio con la figlia di un allora potente vice presidente della Rai amico personale e fidatissimo di Giuseppe Saragat, Italo De Feo, a Emilio toccò quindi per tre anni di dirigere il tg maggiore dell’azienda pubblica. E per tre anni la Dc sopportò, sino a quando il segretario di turno, che era Ciriaco De Mita, non sbottò e non pretese il ristabilimento di quella che lui considerava la normalità: un democristiano doc, di fiducia, a quel posto. Non ci fu verso di ritardare ulteriormente il ripristino dell’ordine, diciamo così. Neppure giocando con la fede, al minuscolo, in qualche modo entrata nel curriculum di Emilio con qualche simpatia guadagnatasi in Vaticano. Dove il direttore del Tg 1 veniva qualche volta invitato alle messe private del Papa, specie sotto Natale.

         A quei tre anni in qualche modo anomali vissuti alla guida del maggiore -ripeto- telegiornale italiano, con ascolti di tutto rispetto e prestazioni professionali quasi da antalogia, come la diretta televisiva, poi raccontata da un pezzo novanta come Walter Veltroni, della morte di un bambino romano caduto in un pozzo, sono forse legati i ricordi migliori e più gratificanti della carriera giornalistica di Emilio. Sarebbe seguita la parte più insidiosa, rischiosa e faticosa, in un intreccio sfortunatissimo di cronaca politica e giudiziaria, di ingenita debolezza umana aggravata da una concorrenza sleale, fatta più di livore e di invidia che di racconto. Emilio, pur col gusto della sfida e dell’ironia, sino a scriverne lui stesso prendendosi a parolacce, ne ha sofferto molto e a lungo. Ora ha smesso davvero.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 7 settembre

L’apertura…verbale di Putin all’adesione di un’Ucraina mutilata all’Unione europea

         Dalla Cina, la lontanissima ma sempre più incombente Cina, che già Mussolini avvertiva come il pericolo giallo, prima che si tingesse e vestisse di rosso facendo concorrenza persino all’ancora Unione Sovietica; dalla Cina, dicevo, Putin ha confermato, con i toni di una prima volta, il suo consenso, o la sua generosa tolleranza, all’adesione dell’Ucraina, o di ciò che ne rimarrà, all’Unione europea. Dove la pratica d’ingresso, per diventare la 28.ma stella d’Europa, o ancora più avanti nei numeri, è già formalmente in corso. Ma sembrava potesse subire anch’essa i danni della guerra da più di tre anni cominciata dalla Russia con una invasione annunciata come   una “operazione speciale”, quasi di polizia militare, per la ”denazificazione” di un paese colpevole sole di esserle confinante. E di avere, pensate un po’, aspirazioni ad una vera, piena indipendenza e autonomia.

         Putin insomma, almeno a sentirne l’ultima o penultima versione, non teme l’Europa, pur pronto a invaderne lembi più o meno grandi, quanto la Nato, alla quale pure l’Ucraina vorrebbe ancora aderire. E con la quale intrattiene già rapporti ostentati come ospite illustre e gradito di riunioni, incontri, vertici e quant’altro. Una Nato, dicevo, temuta a Mosca anche  nella versione alquanto danneggiata dalle iniziative, dalle minacce, dagli sberleffi, dagli strappi, dai peti del presidente americano Donald Trump, tra un bacio e l’altro degli alleati e amici -uomini, donne e omosessuali- ammessi alla contemplazione del suo deretano.

         Nella sua immaginifica rappresentazione della realtà, efficace più di un editoriale a firma di maggiore autorità, Emilio Giannelli nella vignetta di giornata sulla prima pagina del Corriere della Sera ha dubitato della soddisfazione, fiducia, speranza, sollievo e quant’altro dell’ucraino comune. Ad uno, anzi ad una dei quali, egli ha attribuito, sullo fondo di un palazzo devastato dall’artiglieria russa, questa domanda tragicamente allusiva a Putin. “I bombardamenti non gli bastano?”.

 Per una volta lasciatemi sperare che Giannelli abbia esagerato, pur nei larghi margini che reclama di solito la satira, anche quella politica.

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