Il voto cattolico a destra non è più in libera uscita, come ai tempi della Dc

Impropriamente -come può accadere in un comizio, anche ad una professionista della politica com’è una pur giovane leader che non ha fatto praticamente altro nella sua vita- la premier Giorgia Meloni in un tripudio di scudi crociati ha invitato avversari, critici e amici a “stare tranquilli” di fronte alla “caccia” ai cattolici che le viene attribuita nella prospettiva di un “clerico melonismo”. Che è, in particolare, la formula addebitatale da Marco Damilano sul Domani dell’editore Carlo De Benedetti. 

         La caccia, come la pesca, dà il senso certamente di una competizione, ma non necessariamente a lieto fine sia per la preda sia per i concorrenti, che possono rimanere vittime di qualche incidente. Meno impropriamente la premier avrebbe dovuto parlare di corteggiamento, ma da donna -lo ammetto- potrebbe essere stata trattenuta dalla paura di apparire sfacciata. Tuttavia sono davvero i voti cattolici in senso lato, comprensivi dei  democristiani della storia politica italiana, che la premier ha raccolto con le sue posizioni e declamazioni politiche, e di credente, portando il suo partito di destra dal 3 al 30 per cento? Cioè moltiplicandolo per 10, a spese degli alleati d centrodestra ma anche del Pd, dove la sofferenza della componente di provenienza democristiana è di una sconcertante evidenza.

         Non è la Meloni che si è democristianizzata, o andreottianizzata più in particolare, come le viene rimproverato dimenticando che a 15 anni, quando le venne la vocazione politica sotto l’effetto dell’attentato mortale a Paolo Borsellino e alla scorta, la Dc era già verso lo scioglimento, avvenuto diciotto mesi dopo, all’incirca. E’ il voto cattolico, ripeto, comprensivo dell’elettorato sopraggiunto per ragioni naturali a quello della Dc, che si è accasato stabilmente a destra, più che a sinistra come nelle aspirazioni della omonima area democristiana. Si è accasato stabilmente, questo voto, senza più andarsene a destra “in libera uscita”, come diceva fiduciosamente Giulio Andreotti nella cosiddetta prima Repubblica, quando commentava i guadagni elettorali del Movimento Sociale di Giorgio Almirante. E pensava al ritorno, per lui scontato, di quegli elettori alla Dc.

         Quello che la Meloni prima ancora di capire e di inseguire in tenuta da caccia o pesca ha semplicemente avvertito, e giustamente cerca di consolidare, è che non c’è più per dimensioni elettorali e programmi politici una Dc dove certi voti potrebbero tornare. C’è qualche scheggia o cespuglio, quantitativamente parlando, come l’Udc di Lorenzo Cesa e Antonio De Poli, già di Pier Ferdinando Casini, alla cui festa la Meloni è accorsa in un albergo romano sull’Aurelia, accolta come una sorella, parafrasando i suoi fratelli d’Italia.

         Ci sono devoti anche altrove, per carità. Come Dario Franceschini, non so di preciso di quale Santo, e Giuseppe Conte, devoto anche per ragioni familiari di Padre e Santo Pio. Essi si sono consultati e confortati alla festa dell’Unità nella prospettiva di un’alternativa al centrodestra a guida però necessariamente indefinita. Necessariamente, perché solo a cercare di definirla se ne compromette la sorte.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 21 settembre

Cronache surreali dal campo largo dei giochi dell’alternativa

         Il campo largo, larghissimo, smisurato, asciutto o bagnato secondo le condizioni del tempo, non è necessariamente politico. Può diventare, se non lo è già diventato nelle feste annuali di partito, un campo da gioco in senso lato. Non quello del pallone. Ma un parco giochi, al plurale,  comprensivo di una giostra dove si sale o da dove si scende scambiando passeggeri e ruoli allegramente, anche quando in realtà  volano insulti e minacce.

         Allegramente, dicevo, come la segretaria del Pd Elly Scklein che dalla festa  dell’Unità ha ieri cantato, sempre più “testardamente unitaria”, come dice ovunque si trovi a parlare,  la vittoria immancabile dell’alternativa al governo di centrodestra di Giorgia Meloni. Che è stata esortata, tra un attacco e all’altro per come parla, per cosa dice, per come si veste e persino per come fa la madre, a rassegnarsi al destino che l’attende fra due anni, a elezioni puntuali o leggermente anticipate. Si vedrà. Ma la Meloni scaramanticamente si veste di rosso e continua a sperare, scommettere e quant’altro sul raddoppio del suo mandato di governo. Che potrebbe portarla poi al Quirinale, dove l’ex premier Lamberto Dini è tornato a immaginarla “bene”, parlandone al Tempo.

         Tuttavia, mentre la Schlein festeggiava, con anticipo largo come il campo che ritiene di presidiare, le vittorie regionali di quest’anno e quella nazionale del 2027, Giuseppe Conte dal palco di un’altra festa, quella del FattoQuotidiano, illuminata di giorno dal sole, quando c’è, e di sera dalle stelle che furono di Beppe Grillo, ha avvertito che col Pd “non” si sente “alleato”. Guadagnandosi naturalmente gli applausi di un pubblico di ormai consolidato scetticismo, a dir poco, verso il Nazareno, anche se agli appuntamenti congressuali del Pd esso ha il privilegio di poter concorrere all’elezione del segretario, e persino determinarla. Il compianto Emanuele Macaluso in qualche modo ne morì di stupore, a dir poco, non convinto alla rassegnazione neppure dal suo amico Giorgio Napolitano ormai ex presidente della Repubblica, ma anche quando era ancora in carica.

         Da questo pubblico di potenziali elettori del segretario o segretaria del Pd, coerentemente con la bizzarria di un parco giochi con giostre e altro, la Schlein era  corsa il giorno prima di raggiungere la festa dell’Unità. Ricevendone un’accoglienza così poco amichevole, di così poca empatia, da indurre il direttore del Fatto, e padrone di casa, a saltare ad un certo punto sul palco per richiamare al dovere di ospitalità, non di contestazione e di linciaggio. La Schlein ha ringraziato, come sventurata monaca di Monza che rispose al suo corteggiatore.

Ripreso da http://www.startmag.it

La Giorgia Meloni felice e applaudita fra tanti scudi crociati…

         Scusatemi ma di Gorgia Meloni nelle ultime ventiquattro ore mi hanno colpito, più del pur forte discorso di attacco alla sinistra per la cultura dell’odio che essa alimenta, tutti gli scudi di memoria e di grafica democristiane fra i quali parlava. E riscuoteva applausi del pubblico accorso alla festa dell’Unione di Centro, sopravvissuta alla decisione dell’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini di continuare a fare politica ospite del Pd, nelle cui liste egli continua ad essere eletto a Palazzo Madama diventando una specie di senatore a vita senza bisogno del decreto di nomina del presidente della Repubblica. Una particolarità, peraltro, che poteva intestarsi solo un democristiano dichiaratamente irriducibile come Casini, pur ospite di un partito dove sempre di più la componente di provenienza dc, con tanto di foto del compianto segretario del Pci Enrico Berlinguer sulla tessera di iscrizione, vive in sofferenza la segreteria movimentista, a dir poco, di Elly Schlein.

         Da parecchio ormai, specie dopo avere portato il suo partito alle abituali  dimensioni elettorali della Dc, in testa alla classifica  delle forze politiche di questa seconda, o terza, o quarta Repubblica, come preferite leggendo le cronache e seguendo la tv, specie quella privata degli eredi di Silvio Berlusconi; la Meloni, dicevo, è ormai avvertita come una specie di post-democristiana, più in particolare post-andreottiana. E lei mi pare, francamente, sempre meno imbarazzata. Comunque meno imbarazzata o contrariata di quanto siano o appaiano di fronte a questo scenario democristiani o post come Rosy Bindi, Marco Follini, Dario Franceschini, lo stesso Casini.

         Agli apprezzamenti vecchi e nuovi  della Meloni da parte dei democristiani ed ex ministri Gianfranco Rotondi ed Enrico La Loggia,  deluso peraltro dell’epilogo di Forza Italia, si è aggiunta una quasi certificazione di Calogero Mannino. Che in una intervista alla Gazzetta del Sud ha appena detto: “La Dc di De Gasperi, Fanfani, Andreotti e con le debite proporzioni Mannino non c’è più. Tuttavia l’esperienza storica della Dc è patrimonio non solo della storia. Anche la Meloni, senza fare abiure sul terreno delle grandi scelte politiche, fa quello che ha fatto e avrebbe continuato a fare la Dc. Soprattutto in Europa e nei rapporti con gli Stati Uniti d’America”.

Kirk tanto vicino a Trump quanto indifeso dall’apparato di sicurezza

Charlie Kirk con quel cognome peraltro così facile da scrivere, pronunciare e ricordare – ammazzato con un colpo di fucile di millimetrica precisione al collo da un certo Tyler Robinson, più giovane di lui ma già abbastanza intossicato dall’antitrumpismo, per quanto cresciuto in una famiglia non proprio di sinistra- poteva ben essere considerato un delfino politico del presidente americano. Che, col suo vice James David Vance, lo rimpiange come “leggendario”.

         Di un reale, possibile o solo immaginato erede di Trump, o soltanto il  più generoso, disinteressato seguace, già promosso da qualche tempo alle dimensioni delle gigantografie nella cartellonistica   elettorale e propagandistica del presidente americano , si poteva, anzi si doveva ritenere scontata una protezione adeguata da parte degli apparati federali di sicurezza. Invece non n’è risultata alcuna, almeno sinora. O non abbastanza efficiente da risparmiargli la fine che ha fatto, in piena attività trumpistica, in un incontro pubblico preannunciato in un campus universitario. Si stenta a crederlo ma è così. E qualcuno, penso, dovrebbe pur risponderne al presidente degli Stati Uniti. Che, indignato da tanta violenza e addolorato da tanta perdita, non può limitarsi a invocare la pena di morte per l’attentatore e ad annunciare una medaglia alla memoria del morto.

         Come tutte le cose direttamente o indirettamente riferibili agli apparati naturalmente segreti di sicurezza, anche o soprattutto americani per l’esperienza che essi hanno nella mancata o insufficiente protezione di chi doveva essere appunto protetto, anche al massimo livello istituzionale, già prima e anche dopo l’assassinio del mitico presidente Jhon Kennedy nel 1963, pure l’assassinio di Charlie Kirk si presta a inquietanti sospetti, interrogativi, misteri e simili.

Siamo nella dietrologia, d’accordo, con tutti i limiti che ha questa specie di pratica o di scienza. Ma la buonanima di Giulio Andreotti, che se ne intendeva praticamente, culturalmente e storicamente, scrivendone oltre che parlandone, usava dire che a pensare male si fa peccato ma s’indovina.

Qualcuno, in verità, gli attribuì anche qualche avverbio come sempre, spesso eccetera. Invece Andreotti non attenuò o limitò la casistica. Disse che s’indovina e basta, paradossalmente anche a costo di alimentare la dietrologia applicata contro di lui dai magistrati che lo avrebbero indagato e processato per mafia e altro, alla fine assolvendolo con formula apparentemente piena. Ma trasformata dagli avversari ed ex inquirenti, fra le proteste dei suoi avvocati e la sua stanca rassegnazione, in una specie di assocondanna: metà assoluzione, appunto, e metà condanna diluita o dissolta nella prescrizione.  

         In una congiuntura non solo americana ma internazionale come questa, dovrebbe destare non poca inquietudine il solo sospetto che un, anzi il presidente degli Stati Uniti non sia direttamente o indirettamente protetto a sufficienza. E ciò pur  dopo essere scampato ad un attentato prima della sua seconda elezione, con un proiettile anch’esso sparato contro il collo ma senza la precisione di Robinson contro il “leggendario”, ripeto,  Kirk: parola dello stesso Trump. Un presidente non sufficientemente protetto è di per sé intimidibile, al di là delle sue parole e dei suoi gesti.

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Ciò che non torna, scusate, nei tempi e modi dell’agguato mortale a Charlie Kirk

         Eppure c’è qualcosa che non mi torna nella vicenda dell’attentato mortale al trumpissino Charlie Kirk e della rapida cattura del responsabile Tyler Robinson, della quale il presidente americano ha auspicato la condanna a morte. Cattura avvenuta non ho ancora ben capito se per merito più della polizia, intesa in senso lato, parlando cioè di tutti gli apparati di sicurezza necessariamente coinvolti nelle indagini, ricerche ed altro, o del padre e amici che, avendolo riconosciuto nelle foto ricavate da telecamere sul luogo dell’attentato, gli hanno consigliato di consegnarsi.

         I rapporti fra Trump e il suo “adorato”, “leggendario” giovane ammiratore e propagandista non sono certamente venuti fuori dopo il delitto. Erano arcinoti ben prima. Mi chiedo allora perché  la sua difesa, la sua protezione fisica si sia rivelata così bassa, scadente, per non dire inesistente. Come è stato così facile a Tyler Robinson conoscere così bene l’agenda di Kirk, i suoi appuntamenti, i suoi incontri col pubblico nelle modalità e nei turni di campagne permanenti da attenderlo sul solito tetto a 200 metri di distanza e di sparargli addosso il proiettile che lo ha praticamente freddato. E andarsene via semplicemente saltando giù dal tetto di un’altezza relativa  e lasciando a disposizione tutto ciò che poteva essere utile, peraltro, ad arrivare a lui: dal fucile ai proiettili incisi anche con le parole “bella ciao”, ormai internazionali come canzone antifascista dei partigiani italiani.

         E’ stato solo un difetto di sorveglianza, d’intelligence, nonostante l’allarme scattato sul fronte trumpista, chiamiamolo così, con l’attentato fallito poco prima della seconda elezione del presidente, e forse decisivo per la sua vittoria? E’ stato solo un accidente, o incidente? Ed è casuale, dannatamente casuale, l’avvertimento o effetto intimidatorio che forse si è già prodotto o potrà affiorare o aumentare su Trump, al di là delle sue parole e dei suoi atteggiamenti abituali di sfida? Come se qualcuno, parlandone al singolare ma pensando al complesso di forze che controllano o costituiscono il sistema di un paese grande e complesso come gli Stati Uniti, avesse voluto mandare un messaggio, un segnale e quant’altro al presidente appunto tanto spavaldo. E sempre più discusso e sorprendente. Alla cui buona salute, parlandone in tutti i sensi, si ha spesso la sensazione, giusta o sbagliata, che tenga più Putin, oltre Atlantico che una certa, consistente parte del cosiddetto apparato americano.

         A pensare male si fa peccato, diceva il tante volte e giustamente citato Giulio Andreotti. “Ma s’indovina”, diceva  stringendosi sempre di più nelle sue spalle. Non parlo poi delle volte in cui si lasciava scappare che qualcuno se la fosse cercata morendo ammazzato.   

Droni volano e cadono sul campo largo di Schlein e Conte

Droni svolazzano e cadono anche sul campo largo festeggiato dalla segretaria del Pd Elly Schlein dopo essersi accordata con Giuseppe Conte su candidature comuni al vertice delle regioni interessate alla tornata autunnale ormai alle porte. Non ce n’è per nessuno, aveva praticamente annunciato la segretaria del Nazareno, poiettando le intese nella prospettiva di un’alternativa nazionale al centrodestra, fra due anni, quando dovranno essere rinnovate le Camere. E ammonendo, o sfidando direttamente la premier Giorgia Meloni, fratelli, sorelle, cugini e nipoti d’Italia a non fare più affidamento sulle “divisioni” abituali, quasi croniche della sinistra. Che avrebbero regalato la vittoria al centrodestra due anni e mezzo fa, come se esso non avesse avuto merito in un  successo peraltro previsto con un certo, non nascosto sollievo dall’allora presidente del Consiglio Mario Draghi. Che pure aveva visto originariamente la destra meloniana sola all’opposizione del suo governo tecnico e bipartisan, succeduto al secondo governo di un Conte convinto, con Marco Travaglio, di avere una dimensione e una qualità seconda solo al compianto Camillo Benso conte (al minuscolo) di Cavour. Per cui doveva sfilarsi pure lui dalla maggioranza e proporsi di tornare per altre vie a Palazzo Chigi. Gli estimatori, sotto le stelle e sopra, ne stanno ancora aspettando l’arrivo.

         Lo stesso Conte, a sorpresa, fra le pieghe delle procedure che lo stanno confermando alla presidenza almeno del Movimento che fu, ormai, di Beppe Grillo e del compianto Gianroberto Casaleggio, morto in tempo forse per non pentirsene; lo stesso Conte, dicevo, è svolazzato come un drone sul campo largo festeggiato dalla Schlein sottolineando i limiti, geografici e politici, delle intese regionali. E avvertendo di non avere alcuna voglia di ripercorrere la strada di Romano Prodi guidando, se mai dovessero permetterglielo gli alleati, o solo partecipando a coalizioni capaci di sottoscrivere lunghi e dettagliati programmi, sino alle 300 pagine del secondo governo Prodi appunto, ma non di governare. O governare solo nove mesi trascinandosi appresso nella caduta le stesse Camere.

         So da buona fonte che la Schlein, pur nel riserbo impostole, e da lei imposto agli amici, dalle comprensibili e imbarazzanti circostanze, sia rimasta male all’uscita di Conte, leggendone e rileggendone l’intervista al Corriere della Sera. Immagino quanto ancora sia rimasta male, se non peggio ancora, consultando i risultati di un sondaggio appena condotto dall’Ipsos, a due settimane dall’appuntamento con le urne, sulle elezioni regionali nelle Marche. Che anche Nando Pagnoncelli, scrivendone sempre sul Corriere della Sera, ha paragonato all’Ohaio americano, che riflette tanto bene la maggioranza degli Stati Uniti nel loro complesso da anticipare abitualmente i risultati generali.

         Fra le poche- solo tre, col Veneto e la Calabria- regioni alle urne a maggioranza uscente di centrodestra, le Marche erano apparse alla Schlein contendibili grazie all’appoggio riuscito a strappare a Conte, pur fra qualche esitazione iniziale, alla candidatura a presidente di Matteo Ricci, europarlamentare e già sindaco piddino di Pesaro, pur incorso con la solita puntualità o coincidenza nelle indagini e attenzioni giudiziarie.  Ma tanto candidato, pur con i vantaggi che possono procurare indagini dai tempi sospetti in un Paese abbastanza maturato, per fortuna, dopo le mattanze giudiziarie di una trentina d’anni fa, è risultato fermo nel sondaggio Ipsos al 44,8 per cento delle intenzioni di voto. Contro il 50,1 del presidente uscente Francesco Acquaroli, del partito della Meloni, amico anche personale della premier. Un partito, quello della Meloni, che nelle Marche risulta, dallo stesso sondaggio, il primo in assoluto, col 25 per cento contro il 21.6 del Pd. Nelle regionali precedenti, cinque anni fa, era stato il Pd al 25 per cento, e il partito della Meloni al 18,7.

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La prudenza a dir poco sospetta di Trump sul versante polacco

         Non so francamente se più con l’aggravante o l’attenuante della paura rabbiosa procuratagli dalla eliminazione dell’”adorato” Charles Kirk negli Stati Uniti, compiuta con la precisione di altri attentati che hanno contrassegnato la storia americana, il presidente Donald Trump ha opposto una prudenza avvertita come inquietante da molti osservatori alla vicenda dei droni russi sulla Polonia.

         Mentre i polacchi hanno disposto una trincea di 40 mila uomini lungo i confini con la Bielorussia, considerabile piuttosto come una Similrussia, e le strutture della Nato si sono allertate per i pericoli che corre il paese alleato, Trump e i suoi consiglieri oltre Atlantico non manifestano ma ostentano i loro dubbi sugli attacchi subiti dalla Polonia. Essi propendono più per un errore che altro dei russi e bielorussi. Un errore, magari, attribuibile neppure a loro ma agli ucraini, che avrebbero dirottato verso se stessi droni di altra direzione partiti nell’ambito di esercitazioni, manovre e simili dei russi e loro alleati.

         Più che mandare truppe come in trincea, ripeto, ai loro confini orientali, i polacchi dorrebbero prendersela quindi con l’Ucraina e reclamarne le scuse. E noi tutti, in Occidente, dovremmo fare con Zelensky, anziché riceverne e condividerne le telefonate di protesta e di richiesta di ulteriori aiuti.

         La linea sulla quale Trump continua dunque a muoversi, pur fra qualche insofferenza o rammarico verbale, sarebbe quella derivante dalle immagini del suo incontro con Putin in Alaska a ferragosto. Una linea di rapporto speciale, empatico con l’omologo russo, che è ben felice naturalmente di investire il suo riaccreditamento internazionale in direzione anche opposta agli interessi americani: sul versante, per esempio, cinese o, più in generale, asiatico e generalmente antioccidentale.

Piccoli Trump (non) crescono negli Stati Uniti d’America…

         Senza voler togliere nulla alle quinte e dietro le quinte dei droni russi sulla Polonia e, sul versante mediorientale, dell’assalto israeliano ai vertici dei terroristi palestinesi protetti dal e nel Qatar; senza volere sminuire l’allarme di Sergio Mattarella, che ripassa la storia della vigilia della prima guerra mondiale, cerchiamo di non sottovalutare la situazione non meno esplosiva del presidente americano Donald Trump negli Stati Uniti. Dove, non potendo, o non potendo ancora attentare di nuovo direttamente alla sua vita, come alla vigilia della rielezione, per il cordone di sicurezza rafforzato, di cui si sono avvertiti i segni anche nei ritardi imposti dalla sua presenza alla finale di tennis che è costata a Sinner la postazione di vertice, è stato colpito a morte il più giovane e famoso sostenitore di Trump.

         E’ stato ucciso, colpito al collo da un cecchino mentre parlava in un campus universitario americano il “leggendario” -lo ha definito lo stesso presidente degli Stati Uniti- Charlie Kirk. “Lo amavo e lo adoravo”, ha detto sempre Trump del suo trentunenne ammiratore e propagandista  mentre l’assassino sembrava già preso. Ma sembrava, appunto, secondo precisazioni sopraggiunte da fonti della sicurezza. Vedremo gli sviluppi.

         Trump non riesce a chiudere le guerre che si era proposto di archiviare, o almeno le maggiori, ne apre, chiude e riapre delle altre di tipo commerciale e soprattutto esaspera tensioni interne come accaduto ad alcuni, celebri predecessori. E’ una situazione, questa, che destabilizza ulteriormente il mondo. E non solo gli Stati Uniti.   

L’idrante di Giuseppe Conte sull’entusiasmo di Elly Schlein

Giuseppe Conte -sì, proprio lui, l’ex presidente del Consiglio che da presidente soltanto del Movimento 5 Stelle aspira senza alcuna reticenza a tornare a Palazzo Chigi, convinto al pari di Marco Travaglio di essere una mezza reincarnazione di Camillo Benso conte di Cavour, al minuscolo- si è messo a rovesciare acqua sul fuoco dell’ottimismo e dell’entusiasmo della segretaria del Pd Elly Schlein. Che è sicura di giocare nella partita in corso delle elezioni regionali la prova dell’alternativa nazionale al governo di centrodestra di Giorgia Meloni.

         Pur gonfio, anche lui, di orgoglio per avere strappato al Nazareno candidature pentastellate al vertice della Campania e della Calabria, in fila per le urne con Valle d’Aosta, Veneto, Marche e Toscana, Conte ha avvertito dalle colonne del Corriere della Sera la Schlein e amici che “stare insieme non basta”.

         “L’unità -ha spiegato l’ex premier a proposito di quella delle opposizioni testardamente perseguita dalla Schlein, e raggiunta appunto per queste regionali d’autunno, al netto delle resistenze di Carlo Calenda- è la migliore condizione per vincere, però non può essere una semplice invocazione”, come deve essergli apparsa quella della segretaria piddina

 “E’ un percorso non facile, paziente, di confronto -ha avvertito Conte- tra diversi sulle cose da fare e i valori da difendere”, a livello nazionale con l’inconveniente di dovere assumere anche una linea di politica estera, non compresa -o non ancora, neppure dopo la riforma del titolo quinto della Costituzione adottata a suo tempo dalla sinistra- nelle competenze regionali. Una politica estera che le opposizioni accusano la maggioranza di non avere, a parte un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti di Trump, per le contraddizioni che si avvertono fra i partiti al governo, specie fra la Lega di Matteo Salvini, e del vice segretario e generale Roberto Vannacci, e gli altri partiti della coalizione. Ma che neppure le opposizioni hanno. Anzi, l’hanno ancora di meno perché le divisioni attraversano anche il maggiore dei partiti aspiranti all’alternativa: il Pd di cui uno dei fondatori -Luigi Zanda- ha chiesto prima un congresso, poi un’assemblea tematica, infine – ma sempre inutilmente- una riunione apposita della direzione per discuterne, possibilmente senza sottintesi, senza reticenze o ambiguità verbali e scritte in un documento conclusivo.

“Stando semplicemente uniti si vince ma non si governa”, ha ammonito Conte con incontestabile realismo, e anche un po’ di esperienza personale non proprio cavouriana. Come quella di qualche suo predecessore più dichiaratamente e orgogliosamente di sinistra tipo Romano Prodi.

         “Dobbiamo assicurare stabilità- ha detto Conte immaginandosi forse capotavola in un incontro conviviale di progressisti indipendenti, anche l’uno dall’altro, ma accomunati da ambizioni governative- con un progetto serio, evitando un governo che si sfaldi poco dopo le elezioni, come accadde con l’Unione di Prodi” nel 2008. Ma in fondo come era già accaduto dieci anni prima con l’Ulivo, sempre di Prodi. Anche se in quell’altra occasione erano state evitate le elezioni anticipate per il soccorso fornito dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga ad un Massimo D’Alema deciso a salvare la legislatura. E, caduto anche lui, a farla arrivare all’epilogo ordinario col secondo governo di Giuliano Amato, dopo il primo fattogli formare nel 1992 da Bettino Craxi. Archeologia, o quasi.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it

Attenti a godere troppo delle difficoltà dei cugini francesi

         In un paese che ribolle di proteste, di crisi economica, di instabilità politica persino maggiore di una certa Italia della prima ma anche della seconda Repubblica; in un Paese come la Francia, dove già Giulio Andreotti ai suoi tempi avvertiva troppe ambizioni napoleoniche, diverse da quelle modeste degli italiani che reeclamavano  o promettevano la puntualità dei treni, è appena capitato a un ministro delle forze armate – un po’ più del nostro ministro della Difesa-  di fare un salto di carriera politica con la nomina a capo del governo da parte del presidente della Repubblica. Che ha deciso di mandarlo allo sbaraglio in un Parlamento che ha appena abbattuto Francois Bayrou allo scopo, dichiarato sia dalla destra sia dalla sinistra, di estromettere in anticipo dall’Eliseo proprio lui, il presidente della Repubblica Emmanuel Macron.

         “Vasto programma” avrebbe forse ripetuto col solito sarcasmo, dall’alto dei suoi quasi due metri -uno e 96 centimetri- Charles De Gaulle. Vasto, a questo punto, quanto quello di Macron di resistere affiancato dal suo fedelissimo e giovane Sebastien Lecornu. Al quale non aveva fatto in tempo, come Trump negli Stati Uniti col suo Segretario al Pentagono- a fargli assumere la guida del Ministero dichiaratamente e completamente della Guerra. Macron ha risparmiato al suo Lecornu un gradino nella scala delle promozioni, e in uno scenario internazionale dove la pace è sempre più un’aspirazione che una realtà: dall’Ucraina al Medio Oriente.

         Facciano pure auguri familiaristici e ironici ai cugini francesi che forse se li meritano anche nella loro carica polemica o ritorsiva, nella consapevolezza tuttavia, avvertita e dichiarata, dal ministro della Difesa -ancora- dell’Italia Guido Crosetto, tra gli amici più fidati e saggi della premier Giorgia, che sotto sotto, nel fondo del fondo, avremmo poco da godere delle difficoltà della Francia. Con la quale condividiamo l’appartenenza all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica, o ciò che ne rimane fra gli strappi del presidente americano Donald Trump, oltre Oceano.  

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