Il quarto d’ora in italiano all’assemblea delle Nazioni (dis)unite

         Dei 16 minuti del discorso di Giorgia Meloni in italiano all’assemblea generale dell’Onu -sedici, non di più, e confinati in un orario poco propizio, diciamo così, all’affollamento dell’aula- mi ha colpito l’ordine assegnato alle guerre di cui ha parlato. E sulle quali ha espresso, anzi ribadito la posizione del suo governo.

         La premier italiana, rispettando l’esatto ordine cronologico del loro inizio, come fa anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando ne parla al Quirinale e fuori, ha dato la precedenza alla guerra in Ucraina rispetto a quella che porta ormai il nome di Gaza, anche se a provocarla fu il pogrom del 7 ottobre 2023 compiuto dai terroristi di Hamas in terra israeliana. E con una mattanza orribile,    programmata anche nelle tappe successive per gli ostaggi portati via, da ammazzare o scambiare secondo le esigenze della lunga guerra che ne sarebbe derivata. E che i terroristi avevano quindi ben messo nel conto.

         Sulla guerra in Ucraina, anche qui in piena sintonia con Mattarella, che si è per questo guadagnato a Mosca un paragone a Hitler, addirittura, la premier è tornata ad attribuirne tutte le responsabilità alla Russia di Putin. D’altronde, anche in Vaticano – con la successione di Papa Leone XIV a Papa Francesco, pace all’anima sua- si è finito di parlare della Nato che avrebbe “abbaiato” alla Russia andandosela un po’ “a cercare”, come diceva la buonanima di Giulio Andreotti delle vittime, secondo lui, anche della loro imprudenza.

         Su Gaza la premier italiana ha riconosciuto, avvertito, lamentato, diciamo pure denunciato il carattere “sproporzionato, oltre i limiti” della reazione del governo israeliano di Netanyahu al pogrom del 7 ottobre ma, diversamente da Francia, Gran Bretagna e altri alleati, ha negato il riconoscimento dello Stato, d’altronde fantomatico, della Palestina sino a quando i terroristi non rilasceranno tutti gli ostaggi, vivi o morti, che nascondono tra le macerie di Gaza e non si ritireranno davvero da una terra della quale hanno quanto meno abusato governandola come l’hanno governata. Cioè destinandola alla distruzione.

         Mentre la premier ne parlava all’assemblea delle Nazioni Unite, in Italia uno dei fondatori del Pd, Piero Fassino, smentiva il giudizio negativo espresso dalla segretaria Elly Schlein, che aveva parlato di “giochi di prestigio”, riconoscendo alla posizione del governo una sua novità e ragionevolezza. Se ne vedranno gli effetti nello stesso Pd, nel campo di larghezza variabile della sinistra aspirante all’alternativa e in Parlamento nel dibattito e nella votazione della mozione della maggioranza di centrodestra annunciata dalla stessa Meloni. A Fassino -ci scommetto, conoscendo i polli della Camera, del Senato e dintorni- si tornerà a rimproverare, per ritorsione, minaccia e quant’altro- la storia anche giudiziaria dei profumi all’aeroporto di Fiumicino. Una polemica per niente profumata.

Ripreso da http://www.startmag.it 

In apprezzabile controtendenza la misericordia di Mattarella

         Vanno viste, credo, anche in apprezzabile controdendenza misericordiosa, in questo clima imperante di odio e violenza, dalle piazze ai palazzi o viceversa, come preferite, le quattro grazie appena concesse dal presidente della Repubblica ad altrettanti condannati. Rispettivamente, per parricidio in difesa della madre, omicidio di rapinatore in fuga, furto ed estorsione, estorsione e droga.

         Fatti, gesti e contesti sono più importanti, credo, dei nomi. Che perciò ometto.

         Grazie, per rimanere in tema, al Capo dello Stato che ha voluto anche cristianamente praticare la misericordia, ripeto, piuttosto che la vendetta, il perdono piuttosto che la ritorsione, la pace piuttosto che la guerra in termini concettuali.

         In questo contesto è significativo anche il silenzio opposto su certe prime pagine di giornali muscolari, diciamo così, all’annuncio del Quirinale, I nomi, anche qui, sono meno importanti dei fatti.

La passeggiata di Donald Trump nella cristalleria delle Nazioni Unite

         Pur “un sacco bullo”, come lo hanno scolpito al manifesto nel titolo di copertina dedicato al suo intervento all’assemblea dell’Onu, il presidente americano Donald Trump ha detto quello che francamente si doveva al consesso internazionale ormai più inutile e costoso. Se non addirittura dannoso per gli equivoci che crea al posto della pace che dovrebbe promuovere e garantire con i caschi blu.

         Neppure le scale mobili funzionano più nel Palazzo di vetro a New York, come sperimentato dallo  stesso presidente americano e la moglie salendovi.

         In quel “sacco bullo” c’è naturalmente un’esagerazione, ma pari a quelle cui ricorre Trump parlando e soprattutto agendo, a cominciare dalle “sette guerre” di cui si è intestata una fine di cui francamente nessuno si è accorto nel fragore, nella ferocia ed altro delle due che continuano in Ucraina e in Medio Oriente. Continuano grazie anche alle incertezze e alle contraddizioni del presidente degli Stati Uniti nei rapporti, rispettivamente, con Putin e con Nethanyau.

         D’altronde l’aula delle Nazioni Unite -o (dis)unite, come ho visto felicemente titolare un giornale elettronico- è abituata a spettacoli di elefanti in cristalleria. Trump, con quei piedi datigli da madre Natura, ha almeno risparmiato al Palazzo di vetro lo spettacolo che diede il sovietico Nikita Kruscev togliendosi una scarpa e battendola sullo scranno. Per poi infilarsela daccapo e cercare qualcosa da prendere a calci.   

La sfida della Meloni al realismo sul riconoscimento della Palestina

         Da New York in missione alle Nazioni Unite -si fa per dire, naturalmente- la premier Giorgia Meloni ha mandato un annuncio alle opposizioni italiane prima ancora di prendere la parola in assemblea, visto che l’ordine assegnatole negli interventi  l’avrebbe messa fuori orario nelle redazioni dei giornali d’oltre Oceano.

         L’annuncio è quello di una mozione parlamentare che la maggioranza presenterà, al suo ritorno a Roma, a favore del tanto reclamato riconoscimento della Palestina a due condizioni però. Che altri Stati in Europa, soci dell’Unione Europea e/o dell’Alleanza Atlantica, non hanno ritenuto più necessarie, ma non per questo hanno perso la loro ragionevolezza, a dir poco. La prima è la restituzione di tutti gli ostaggi, vivi o morti, che i terroristi di Hamas detengono ancora nelle viscere di Gaza dopo il pogrom del 7 ottobre di due anni fa. La seconda condizione è il ritiro degli stessi terroristi da una terra che hanno così mal governato, al posto dell’Associazione Nazionale Palestinese, da averla ridotta com’è, con le reazioni di Israele che dovevano pur prevedere due anni fa a quel pogrom, cioè a quella mattanza.

         In Italia la segretaria del Pd Elly Schlein, che vorrebbe esserne l’antagonista se riuscisse a contenere il concorrente Giuseppe Conte delle 5 Stelle, ha risposto liquidando a mezzo stampa la mozione annunciata dalla Meloni come un “gioco di prestigio”. Al quale si deve presumere che il Partito Democratico, non certo da solo sul fronte dell’improbabile alternativa di governo, voterà contro. E quindi a favore, praticamente e logicamente, dei terroristi e delle loro nefandezze. Giochi di prestigio per giochi di prestigio, anche la Meloni mi sembra che abbia il diritto di liquidare così le dissociazioni verbali della sinistra, in Italia, da ciò che hanno fatto e continuano a fare i terroristi a Gaza, anche fra le macerie ormai dei quella terra sfortunata.

         Se la Schlein, e compagni, reduci peraltro da una riunione di direzione convocata alla vigilia delle elezioni regionali nelle Marche per sterilizzarla mettendo la museruola, o quasi, ai dissidenti pur cresciuti di numero negli ultimi nove mesi, hanno buttato la palla fuori dal campo gridando appunto ai giochi di prestigio, dalla maggioranza i leghisti hanno tenuto a precisare che la disponibilità annunciata dalla Meloni al riconoscimento della Palestina non va fraintesa. Non è stata e non è -ha detto in particolare il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari- una “concessione” alle piazze di lunedì e ai loro devastatori. Una precisazione, direi, superflua in condizioni normali, che non sono naturalmente quelle attuali, né in Italia né altrove. 

Lo stato di belligeranza politica nell’analisi di Cassese

In perfetto e usuale aplomb scientifico il giurista Sabino Cassese sul Corriere della Sera, dove l’argomento era stato già trattato dal direttore Luciano Fontana scrivendone il giorno prima ad un lettore, ha tradotto in “belligeranza” la campagna elettorale continua che si svolge in Italia. E che trasforma ogni polemica, ogni contrasto, ogni discussione, ogni sospiro in una specie di corpo a corpo, di partita decisiva per stendere al tappeto l’avversario. E gridare “vittoria”, per fortuna non ancora scrivendola sui muri come Mussolini nel secolo scorso.

         Se questo è il livello di quello che una volta chiamavamo ottimisticamente dibattito o confronto politico, in Parlamento e nei mezzi di informazione scritta, parlata ed elettronica, abbiamo poco da stupirci  e da protestare, se nel nostro piccolo vi contribuiamo, quando vediamo le piazze e le strade invase dalla guerriglia urbana come l’altro ieri.

         Urbana solo per locazione, diciamo così, perché di urbano non hanno niente quelle manifestazioni da tutti condannate per la loro violenza  in modo, una volta tanto, bipartisan. Per eterogenesi dei fini esse sotterrano anche le cause che pensano di sostenere. A cominciare naturalmente da quella palestinese, già tradita, anzi supertradita dai terroristi palestinesi che hanno compromesso Gaza e dintorni prima ancora del governo israeliano processato ormai in tutto il mondo per la reazione al pogrom del 7 ottobre di due anni fa. Processato e condannato con rito sommario per genocidio, addirittura, uguale e contrario a quello nazista del secolo scorso. Solo a leggerne, figuriamoci a scriverne, dovrebbe girarci la testa. Come nel mondo al contrario del generale, eurodeputato e ora anche vice segretario della Lega Roberto Vannacci, appena bagnatosi nelle acque metaforiche di Pontida. Spero inconsapevole del contributo che egli fornisce al sottosopra. Inconsapevole, ripeto, perché sennò dovrei andare ben oltre il rischio avvertito da leghisti altolocati come il presidente della Lombardia Attilio Fontana, della “vannicizzazione” di quello che pur rimane, con tutti i sottosopra precedenti, di carattere giudiziario e politico, il partito più antico di questa nostra cosiddetta seconda Repubblica. Al cui esordio fummo in tanti, forse in troppi, a salutare come salvifico il bipolarismo, vedendovi una semplificazione degli schieramenti e, più in generale, della politica.

         Ne è nato invece, per tornare a Cassese, uno stato di “belligeranza” che “alimenta il rifiuto”, visto che “solo poco più del 63 per cento degli aventi diritto al voto si reca alle urne, con la conseguenza che i nostri governi rappresentano solo un quarto del Paese reale”. E “negli ultimi vent’anni -ha proseguito il professore, ex ministro e giudice emerito della Corte Costituzionale- il numero degli uomini che si informano e discutono di politica è diminuito di quasi il 13 per cento e si attesta a poco più della metà”, scendendo a un terzo per i giovani tra 18 e 24 anni. Ma temo che i dati di Cassese non siano aggiornati al peggioramento intervenuto dopo la loro raccolta e sistemazione in archivio.

Pubblicato sul Dubbio

Il silenzio assordante di Beppe Grillo sulla condanna del figlio e amici

         La condanna del figlio Ciro e tre amici per stupro è arrivata nel silenzio, direi assordante, di Beppe Grillo. Anche sul suo blog personale, oggi impegnato a capire che cosa ci toccherà mangiare fra “bistecche senza mucca e caffè senza chicchi”. A tavola, insomma, siamo messi male come nei tribunali. Dove per arrivare ad una prima sentenza, su prevedibili tre, a carico del figlio e amici del fondatore del Movimento 5 Stelle, ci sono voluti sei anni, tre di “dibattimento”, cioè di processo in aula, e 3 ore di camera di consiglio.

Eppure di questa sentenza siamo solo al cosiddetto dispositivo, occorrendo almeno tre mesi per averne il testo completo, contro cui poter ricorrere da parte della difesa e dell’accusa. Completo cioè delle motivazioni. E questa sarebbe giustizia, pur con la minuscola? Sì.

E’ la giustizia, bellezza, si potrebbe dire evocando la stampa di Humphrey Bogart a Casablanca. E lo sarà, dicono una volta tanto a ragione i critici della omonima riforma Nordio entrata ormai nell’ultima curva dello speciale percorso parlamentare. Nota soprattutto per la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, il raddoppio del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anticorrentizio per la sua composizione e una Corte speciale di disciplina delle toghe, abituate a giudicarsi da sole, a casa.   

Nulla -dicono i critici già impegnati a preparare al referendum- per abbreviare il processo. Ma abbastanza, dico io per chiarire ogni equivoco, almeno per migliorarne la qualità. Che non è cosa da poco.  

Quella palestinese è la causa peggio servita nel mondo, anche in Italia

         “I vandali non aiutano la causa”, ha detto giustamente il sindaco di Milano Beppe Sala commentando i disordini di piazza, i sessanta agenti di Polizia e le devastazioni compiute nella sua città, e in altre delle ottanta in cui ieri si è manifestato per la Palestina. La cui causa, appunto, è fra quelle peggio servite sul posto e fuori.

         Servite, cioè disservite sul posto dai terroristi di Hamas che, essi sì, hanno imprigionato i palestinesi allestendo sotto le loro case, scuole, ospedali, chiese, mercati, vie e piazze arsenali di guerra e di tortura di altri ostaggi: quelli che catturarono due anni fa in Israele nel pogrom noto per la data del 7 ottobre. Una mattanza che non bastò, se non per qualche ora soltanto, a farci sentire tutti israeliani, come si dice quando si solidarizza con le vittime. Poi si è scesi per strada in tutto il mondo per contestare non i terroristi palestinesi ma gli israeliani decisi a liberarsene per salvaguardare la propria sicurezza.

         Strada per strada, paese per paese, città per città siamo arrivati a quelle italiane dove ieri sono stati prodotti violenze fisiche e devastazioni materiali. E si è paralizzata la vita dei cittadini col concorso degli scioperi. Tutto in nome della Palestina e dei palestinesi, che non avrebbero proprio niente e nessuno da ringraziare per i danni così procurati anche alla loro causa, ripeto.

         Lo stesso discorso vale per la corsa in atto al riconoscimento dello Stato inesistente e, a questo punto ancora più improbabile, della Palestina. Un riconoscimento che, nella indifferenza o stoltezza dei governi che lo hanno adottato o si accingono a farlo, i terroristi di Hamas hanno già orgogliosamente inserito fra i loro bottini di guerra.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Si salvi chi può dalla lotta elettorale continua

“Due anni di campagna elettorale?”, si è chiesto il direttore Luciano Fontana sul Corriere della Sera.  “Un grave rischio per l’Italia”, si è risposto scrivendone a un lettore deluso dalla solita, siderale distanza fra la inconcludenza, l’asprezza, il livore, l’odio -dice la premier Giorgia Meloni- del dibattito politico, persino nelle aule parlamentari create apposta per un confronto fra idee e programmi, quando ve ne sono davvero, e i problemi del Paese, che rimangono senza soluzioni. Le campagne elettorali di certo non aiutano, a cominciare da quella che Fontana avverte già iniziata, fra appuntamenti regionali e referendari, in vista del voto del 2027 per il rinnovo delle Camere. In attesa di un’alternativa indefinita, per ammissione di alcune parti che dovrebbero contribuirvi, o di una conferma invece definita per forza delle cose.

         Perché, caro direttore, ti soffermi solo sui due anni che ci sono davanti? Dove metti quelli che ci sono alle spalle, o ancora sotto i piedi, fra le elezioni europee dell’anno scorso, altri referendum e altri voti regionali e comunali? Siamo sempre in campagna elettorale. Una lotta continua elettorale, direi, infarcita naturalmente di sondaggi che, alimentando paure e ambizioni, attizzano le fiamme come la tramontana e il maestrale.

E’ d’altronde un rischio, come lo chiama il direttore del Corriere, o un inconveniente inevitabile. Non se ne può materialmente prescindere, neppure riuscendo, quando capita, a raccogliere le elezioni di livello diverso da quello nazionale in almeno due scadenze l’anno. Non parliamo di una sola perché sarebbe troppo nel clima di “polverizzazione”, come ha scritto Fontana di questo autunno elettorale, cui  è abituata la politica.

         Che cosa fare, allora? Occorre cambiare, riformare. Ma più che leggi e regolamenti, occorre riformare il nostro rapporto, di elettori e di lettori e spettatori, con la politica. Occorre, per noi che ne scriviamo, attenerci al racconto, all’analisi, rinunciando alla propaganda e ad una certa partigianeria esasperata che finisce per alzare i toni dello scontro sino all’istigazione.

         Vasto programma, diciamo sempre in queste circostanze scopiazzando l’ironia della buonanima del generale Charles De Gaulle. Ma, francamente, non ne vedo altri più realistici.

         Aldo Moro si lamentò una volta, scrivendone sul Giorno, che il bene già ai suoi tempi non facesse notizia. O non la facesse come il male. Era ed è vero. E lo sarà sempre, temo, per il legno storto che è nella natura umana. Ma ciascuno nelle dimensioni che gli sono proprie dovrebbe sentirsi impegnato a porvi rimedio. So bene che è difficile, specie circondati come siamo da guerre vere, che tutti sono pronti ad aprire e nessuno alla fine riesce a fermare nei loro aspetti e contenuti feroci, non solo nominalistici, da vocabolario. Non entro nei particolari perché ne inorridisco. Ma non c’è altro modo per difendersene o sottrarvisi.

Pubblicato sul Dubbio

Trump dietro un vetro di protezione nel Pantheon allestito per Kirk

         Il Pantheon elettronico di Phoenix, dove il presidente americano Donald Trump ha voluto celebrare il “martirio” del pur “immortale” Charlie Kirk, è stato imponente a vederlo in televisione. Figuriamoci a viverlo per i duecentomila e più accorsi al richiamo del presidente. Che, visti i tempi che corrono, ha prudentemente parlato dietro un enorme vetro a prova di proiettile, di cui invece è morto il povero Kirk pur “sorridendo”, come ha rivelato la vedova. Che probabilmente finirà per prendere il posto -e se lo meriterebbe- conteso da una ventina di candidati alla successione politica al marito di cui abbiamo letto sui giornali. Uno premurandosi anche di potenziare la scorta personale, e privata, di cui già disponeva.

         Ecco, questa storia del vetro di protezione di Trump mi ha colpito più del suo discorso, e di tutta la manifestazione allo stadio di Phoenix. Di fronte alla protezione giustamente alle stelle, non solo quelle della bandiera americana, assicurata a Trump, e probabilmente da lui stesso pretesa, mi sembra ancora più inquietante di quanto non abbia già scritto la protezione alle stalle fornita al più famoso e impegnato attivista del presidente degli Stati Uniti. E il fatto che Trump abbia continuato a non parlarne, e a reclamarne le ragioni più ancora della pena di morte per l’assassino riuscito così facilmente nel suo attentato, mi sembra anch’esso sconcertante. Misteri d’America.

La Lega del mondo al contrario, dove il generale dipende dal capitano

         Tra discorsi, musica, canti, bandiere e striscioni e una presenza assidua, assicurata anche con infusioni mediche per metterlo al riparo da coliche, con i calcoli trasferitisi dal cervello, producendo furbizie, ai reni producendo dolori paragonabili a quelli di un parto per la donna, tra ospiti vicini e lontani vecchi e nuovi, Matteo Salvini ha sicuramente posseduto la Lega a Pontida. E’ stata ed è sua, altro che di Roberto Vannacci, il generale indigesto a tanta parte della nomenclatura, direi, del Carroccio. Insensibili al mezzo milione di voti di preferenza, reali, con tanto di nome e cognome scritti sulle schede, raccolti dall’ex comandante della Folgore nelle elezioni europee dell’anno scorso.  Quel “vice segretario” conferitogli da Salvini, una volta iscrittosi al partito e pagata -presumo- la quota dovuta, il generale può pure farselo stampare sui biglietti da visita e sui manifesti, ma non gli conferisce nessun titolo di comando politico.

         A supporto della leadership indiscussa e assoluta di Salvini è intervenuto a Pontida anche il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Che, forte pure di quel + guadagnatosi internazionalmente nella valutazione dei conti nazionali ai quali sovrintende, ha reclamato nel partito ordine e obbedienza, rispetto dei gradi. Ma al contrario, come il mondo avvertito letterariamente da Vannacci, in cui il generale è sottoposto al capitano. Al quale ribellandosi si finisce “scomparsi nel nulla”, ha avvertito Giorgetti.

         Uno di questi scomparsi nel nulla, insieme col “Partito popolare del Nord” fondato nel benevolo silenzio di Umberto Bossi, è il quasi ottantenne Roberto Castelli. Cui la buonanima di Francesco Saverio Borrelli,, salito al vertice della magistratura milanese dopo le cariche delle “Mani pulite”, non rimproverava di essersi guadagnato da Silvio Berlusconi  la nomina a ministro della Giustizia pur essendo solo un ingegnere, per giunta specializzato in acustica.

         “E’ una Pontida snaturata”, ha detto Castelli a Repubblica parlando di quest’ultima edizione del raduno leghista e proponendo per le prossime “Grottaferrata o un’altra località del centro Italia, almeno del centro Italia, se non del sud”. I cui problemi erano stati affidati dalla Lega originaria di Bossi alle cure più dell’Etna, e di un Vesuvio riacceso, che a quelle di un governo a partecipazione leghista.

         La Pontida di questo 2025 per Castelli è stata “un inganno nei confronti dei leghisti ancora in buona fede, un simulacro”. Come il progetto del ponte sullo stretto di Messina rispetto al fiume Adda, a “pochi metri” proprio da Pontida, che “fra poco” perderà due ponti insieme perché  entrambi “saranno chiusi”  col permesso, quanto meno, se non su ordine di Salvini, ministro delle Infrastrutture, oltre che vice presidente del Consiglio e capo supremo della Lega.  

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