Se davvero piovessero anche in Italia i droni di Putin…

         Il presidente ucraino Volodymir Zelensky con la competenza che si è tragicamente fatta in tema di droni russi, ne prevede o persino avverte un po’ destinati anche all’Italia per sfidare la Nato pure sul fronte meridionale, e non solo su quello settentrionale.

  Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, nonché vice presidente del Consiglio, si è affrettato ad assicurare che la contraerea italiana vorrà e saprà intercettare e abbattere i droni di Putin. Forse troverà il modo e la voglia di parlarne anche il ministro della Difesa Guido Crosetto, si spera per confermare il collega di governo, non una propria, recente e poco rassicurante rivelazione sulla impreparazione dell’Italia a fronteggiare condizioni belliche sul territorio nazionale. Su quello internazionale forse no, vista la partecipazione italiana a tante e anche appezzate missioni internazionali dichiaratamente di pace ma esposte quanto mano a rischi di guerra, come sanno i contingenti in Libano, per esempio.

         Personalmente mi auguro che Zelensky abbia compiuto un eccesso di previsione e avvertimento. E, paradossalmente, non per il timore di verificare se delle condizioni militari italiane sia più informato il ministro degli Esteri o il ministro della Difesa, ma per lo spettacolo politico che deriverebbe da un attacco russo. Al quale già vedo le opposizioni scatenate a dubitare della provenienza dei doni e a reclamare la corsa della premier Giorgia Meloni in Parlamento dove poterle non assicurare un momento di quella che una volta si chiamava “solidarietà nazionale”, o di emergenza, ma addebitarle la responsabilità di avere portato “in guerra” l’Italia con la sua politica estera. Che l’ex premier Giuseppe Conte, aspirante a un ritorno a Palazzo Chigi, in concorrenza con la segretaria del Pd Elly Schlein definisce pavida nei giorni pari e bellicista nei giorni dispari.  

         Sarebbe ben triste, e soprattutto pericoloso, sperimentare insieme la tenuta militare e quella politica dello stivale italiano della Nato.

Ripreso da http://www.startmag.it

Al voto nelle Marche e Val d’Aosta con ambizioni e fantasie nazionali

 Siamo dunque alla prima domenica di questa stagione elettorale di livello regionale, nella quale sono destinate a cadere come foglie d’autunno almeno alcune delle ambizioni nazionali come al solito coltivate all’ombra di votazioni locali. Specie per l’appuntamento di oggi nelle Marche, vista la particolarità del voto in Valle d’Aosta, una regione già speciale di suo. Dove il presidente, tanto per cominciare, non viene eletto direttamente dai cittadini ma dai consiglieri regionali.

Nelle Marche si vedrà domani, con i risultati dopo la mezza e seconda giornata di votazioni, se a cadere sarà la foglia di una conferma del presidente uscente di centrodestra della regione, il meloniano Francesco Acquaroli, rimasto in testa nei sondaggi regolari, superato solo da uno irregolare, fuori tempo, smentito anche dall’istituto cui era stato attribuito. O cadrà invece la foglia non tanto del concorrente del cosiddetto centrosinistra Matteo Ricci, europarlamentare e già sindaco di Pesaro, partito in svantaggio anche per una inchiesta giudiziaria dal solito, lungo percorso, quanto dei dirigenti nazionali del suo partito, il Pd. Che hanno pubblicamente sognato prima la sconfitta di Acquaroli e poi la conseguente esplosione del centrodestra a livello nazionale per una reazione “fallosa” della Meloni prevista o auspicata in particolare dal capogruppo de Pd al Senato Francesco Boccia. Che si aspetta, in particolare, da una premier sconfitta la rivendicazione di un suo candidato alle successive elezioni regionali in Veneto. Dove i leghisti reclamano la successione al loro governatore uscente Luca Zaia, impossibilitato a correre personalmente dal divieto legislativo del terzo mandato.

“Io conosco Meloni. Farà il fallo di reazione -ha detto testualmente Francesco Boccia- chiedendo a Salvini la guida del Veneto. Gielo toglierà. A quel punto si sfasceranno” anche a livello nazionale, ha scommesso il dirigente del Pd con l’aria della ragazza della fiaba che porta la ricotta al mercato immaginando la catena dei guadagni che potrebbe ricavarne. E finendo, notoriamente, col perdere la ricotta prima ancora di poterla vendere. 

D’altronde, lo stesso Boccia fantasticando nei corridoi del Senato con un giornalista del Foglio che pendeva appunti è un po’ tornato da solo con i piedi per terra dicendo che, per quanto sia brava Elly Schlein a Roma e Matteo Ricci sul posto, la partita della sinistra nelle Marche si gioca “fuori casa”. E se dovesse essere persa dal suo Pd non produrrebbe sfasci interni, ma solo “un momento di confronto senza drammi”, trattandosi di “un grande partito” fornito di “tutti gli strumenti” necessari per preservare “l’unità”: non solo quella di carta alla quale sono ancora intestate le feste annuali.

Siamo insomma al famoso ottimismo della ragione che prevaleva sul pessimismo della ragione già nel pensiero di Antonio Gramsci, fondatore dell’Unità, al maiuscolo.  

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