La passeggiata di Donald Trump nella cristalleria delle Nazioni Unite

         Pur “un sacco bullo”, come lo hanno scolpito al manifesto nel titolo di copertina dedicato al suo intervento all’assemblea dell’Onu, il presidente americano Donald Trump ha detto quello che francamente si doveva al consesso internazionale ormai più inutile e costoso. Se non addirittura dannoso per gli equivoci che crea al posto della pace che dovrebbe promuovere e garantire con i caschi blu.

         Neppure le scale mobili funzionano più nel Palazzo di vetro a New York, come sperimentato dallo  stesso presidente americano e la moglie salendovi.

         In quel “sacco bullo” c’è naturalmente un’esagerazione, ma pari a quelle cui ricorre Trump parlando e soprattutto agendo, a cominciare dalle “sette guerre” di cui si è intestata una fine di cui francamente nessuno si è accorto nel fragore, nella ferocia ed altro delle due che continuano in Ucraina e in Medio Oriente. Continuano grazie anche alle incertezze e alle contraddizioni del presidente degli Stati Uniti nei rapporti, rispettivamente, con Putin e con Nethanyau.

         D’altronde l’aula delle Nazioni Unite -o (dis)unite, come ho visto felicemente titolare un giornale elettronico- è abituata a spettacoli di elefanti in cristalleria. Trump, con quei piedi datigli da madre Natura, ha almeno risparmiato al Palazzo di vetro lo spettacolo che diede il sovietico Nikita Kruscev togliendosi una scarpa e battendola sullo scranno. Per poi infilarsela daccapo e cercare qualcosa da prendere a calci.   

La sfida della Meloni al realismo sul riconoscimento della Palestina

         Da New York in missione alle Nazioni Unite -si fa per dire, naturalmente- la premier Giorgia Meloni ha mandato un annuncio alle opposizioni italiane prima ancora di prendere la parola in assemblea, visto che l’ordine assegnatole negli interventi  l’avrebbe messa fuori orario nelle redazioni dei giornali d’oltre Oceano.

         L’annuncio è quello di una mozione parlamentare che la maggioranza presenterà, al suo ritorno a Roma, a favore del tanto reclamato riconoscimento della Palestina a due condizioni però. Che altri Stati in Europa, soci dell’Unione Europea e/o dell’Alleanza Atlantica, non hanno ritenuto più necessarie, ma non per questo hanno perso la loro ragionevolezza, a dir poco. La prima è la restituzione di tutti gli ostaggi, vivi o morti, che i terroristi di Hamas detengono ancora nelle viscere di Gaza dopo il pogrom del 7 ottobre di due anni fa. La seconda condizione è il ritiro degli stessi terroristi da una terra che hanno così mal governato, al posto dell’Associazione Nazionale Palestinese, da averla ridotta com’è, con le reazioni di Israele che dovevano pur prevedere due anni fa a quel pogrom, cioè a quella mattanza.

         In Italia la segretaria del Pd Elly Schlein, che vorrebbe esserne l’antagonista se riuscisse a contenere il concorrente Giuseppe Conte delle 5 Stelle, ha risposto liquidando a mezzo stampa la mozione annunciata dalla Meloni come un “gioco di prestigio”. Al quale si deve presumere che il Partito Democratico, non certo da solo sul fronte dell’improbabile alternativa di governo, voterà contro. E quindi a favore, praticamente e logicamente, dei terroristi e delle loro nefandezze. Giochi di prestigio per giochi di prestigio, anche la Meloni mi sembra che abbia il diritto di liquidare così le dissociazioni verbali della sinistra, in Italia, da ciò che hanno fatto e continuano a fare i terroristi a Gaza, anche fra le macerie ormai dei quella terra sfortunata.

         Se la Schlein, e compagni, reduci peraltro da una riunione di direzione convocata alla vigilia delle elezioni regionali nelle Marche per sterilizzarla mettendo la museruola, o quasi, ai dissidenti pur cresciuti di numero negli ultimi nove mesi, hanno buttato la palla fuori dal campo gridando appunto ai giochi di prestigio, dalla maggioranza i leghisti hanno tenuto a precisare che la disponibilità annunciata dalla Meloni al riconoscimento della Palestina non va fraintesa. Non è stata e non è -ha detto in particolare il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari- una “concessione” alle piazze di lunedì e ai loro devastatori. Una precisazione, direi, superflua in condizioni normali, che non sono naturalmente quelle attuali, né in Italia né altrove. 

Lo stato di belligeranza politica nell’analisi di Cassese

In perfetto e usuale aplomb scientifico il giurista Sabino Cassese sul Corriere della Sera, dove l’argomento era stato già trattato dal direttore Luciano Fontana scrivendone il giorno prima ad un lettore, ha tradotto in “belligeranza” la campagna elettorale continua che si svolge in Italia. E che trasforma ogni polemica, ogni contrasto, ogni discussione, ogni sospiro in una specie di corpo a corpo, di partita decisiva per stendere al tappeto l’avversario. E gridare “vittoria”, per fortuna non ancora scrivendola sui muri come Mussolini nel secolo scorso.

         Se questo è il livello di quello che una volta chiamavamo ottimisticamente dibattito o confronto politico, in Parlamento e nei mezzi di informazione scritta, parlata ed elettronica, abbiamo poco da stupirci  e da protestare, se nel nostro piccolo vi contribuiamo, quando vediamo le piazze e le strade invase dalla guerriglia urbana come l’altro ieri.

         Urbana solo per locazione, diciamo così, perché di urbano non hanno niente quelle manifestazioni da tutti condannate per la loro violenza  in modo, una volta tanto, bipartisan. Per eterogenesi dei fini esse sotterrano anche le cause che pensano di sostenere. A cominciare naturalmente da quella palestinese, già tradita, anzi supertradita dai terroristi palestinesi che hanno compromesso Gaza e dintorni prima ancora del governo israeliano processato ormai in tutto il mondo per la reazione al pogrom del 7 ottobre di due anni fa. Processato e condannato con rito sommario per genocidio, addirittura, uguale e contrario a quello nazista del secolo scorso. Solo a leggerne, figuriamoci a scriverne, dovrebbe girarci la testa. Come nel mondo al contrario del generale, eurodeputato e ora anche vice segretario della Lega Roberto Vannacci, appena bagnatosi nelle acque metaforiche di Pontida. Spero inconsapevole del contributo che egli fornisce al sottosopra. Inconsapevole, ripeto, perché sennò dovrei andare ben oltre il rischio avvertito da leghisti altolocati come il presidente della Lombardia Attilio Fontana, della “vannicizzazione” di quello che pur rimane, con tutti i sottosopra precedenti, di carattere giudiziario e politico, il partito più antico di questa nostra cosiddetta seconda Repubblica. Al cui esordio fummo in tanti, forse in troppi, a salutare come salvifico il bipolarismo, vedendovi una semplificazione degli schieramenti e, più in generale, della politica.

         Ne è nato invece, per tornare a Cassese, uno stato di “belligeranza” che “alimenta il rifiuto”, visto che “solo poco più del 63 per cento degli aventi diritto al voto si reca alle urne, con la conseguenza che i nostri governi rappresentano solo un quarto del Paese reale”. E “negli ultimi vent’anni -ha proseguito il professore, ex ministro e giudice emerito della Corte Costituzionale- il numero degli uomini che si informano e discutono di politica è diminuito di quasi il 13 per cento e si attesta a poco più della metà”, scendendo a un terzo per i giovani tra 18 e 24 anni. Ma temo che i dati di Cassese non siano aggiornati al peggioramento intervenuto dopo la loro raccolta e sistemazione in archivio.

Pubblicato sul Dubbio

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