Il silenzio assordante di Beppe Grillo sulla condanna del figlio e amici

         La condanna del figlio Ciro e tre amici per stupro è arrivata nel silenzio, direi assordante, di Beppe Grillo. Anche sul suo blog personale, oggi impegnato a capire che cosa ci toccherà mangiare fra “bistecche senza mucca e caffè senza chicchi”. A tavola, insomma, siamo messi male come nei tribunali. Dove per arrivare ad una prima sentenza, su prevedibili tre, a carico del figlio e amici del fondatore del Movimento 5 Stelle, ci sono voluti sei anni, tre di “dibattimento”, cioè di processo in aula, e 3 ore di camera di consiglio.

Eppure di questa sentenza siamo solo al cosiddetto dispositivo, occorrendo almeno tre mesi per averne il testo completo, contro cui poter ricorrere da parte della difesa e dell’accusa. Completo cioè delle motivazioni. E questa sarebbe giustizia, pur con la minuscola? Sì.

E’ la giustizia, bellezza, si potrebbe dire evocando la stampa di Humphrey Bogart a Casablanca. E lo sarà, dicono una volta tanto a ragione i critici della omonima riforma Nordio entrata ormai nell’ultima curva dello speciale percorso parlamentare. Nota soprattutto per la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, il raddoppio del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio anticorrentizio per la sua composizione e una Corte speciale di disciplina delle toghe, abituate a giudicarsi da sole, a casa.   

Nulla -dicono i critici già impegnati a preparare al referendum- per abbreviare il processo. Ma abbastanza, dico io per chiarire ogni equivoco, almeno per migliorarne la qualità. Che non è cosa da poco.  

Quella palestinese è la causa peggio servita nel mondo, anche in Italia

         “I vandali non aiutano la causa”, ha detto giustamente il sindaco di Milano Beppe Sala commentando i disordini di piazza, i sessanta agenti di Polizia e le devastazioni compiute nella sua città, e in altre delle ottanta in cui ieri si è manifestato per la Palestina. La cui causa, appunto, è fra quelle peggio servite sul posto e fuori.

         Servite, cioè disservite sul posto dai terroristi di Hamas che, essi sì, hanno imprigionato i palestinesi allestendo sotto le loro case, scuole, ospedali, chiese, mercati, vie e piazze arsenali di guerra e di tortura di altri ostaggi: quelli che catturarono due anni fa in Israele nel pogrom noto per la data del 7 ottobre. Una mattanza che non bastò, se non per qualche ora soltanto, a farci sentire tutti israeliani, come si dice quando si solidarizza con le vittime. Poi si è scesi per strada in tutto il mondo per contestare non i terroristi palestinesi ma gli israeliani decisi a liberarsene per salvaguardare la propria sicurezza.

         Strada per strada, paese per paese, città per città siamo arrivati a quelle italiane dove ieri sono stati prodotti violenze fisiche e devastazioni materiali. E si è paralizzata la vita dei cittadini col concorso degli scioperi. Tutto in nome della Palestina e dei palestinesi, che non avrebbero proprio niente e nessuno da ringraziare per i danni così procurati anche alla loro causa, ripeto.

         Lo stesso discorso vale per la corsa in atto al riconoscimento dello Stato inesistente e, a questo punto ancora più improbabile, della Palestina. Un riconoscimento che, nella indifferenza o stoltezza dei governi che lo hanno adottato o si accingono a farlo, i terroristi di Hamas hanno già orgogliosamente inserito fra i loro bottini di guerra.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Si salvi chi può dalla lotta elettorale continua

“Due anni di campagna elettorale?”, si è chiesto il direttore Luciano Fontana sul Corriere della Sera.  “Un grave rischio per l’Italia”, si è risposto scrivendone a un lettore deluso dalla solita, siderale distanza fra la inconcludenza, l’asprezza, il livore, l’odio -dice la premier Giorgia Meloni- del dibattito politico, persino nelle aule parlamentari create apposta per un confronto fra idee e programmi, quando ve ne sono davvero, e i problemi del Paese, che rimangono senza soluzioni. Le campagne elettorali di certo non aiutano, a cominciare da quella che Fontana avverte già iniziata, fra appuntamenti regionali e referendari, in vista del voto del 2027 per il rinnovo delle Camere. In attesa di un’alternativa indefinita, per ammissione di alcune parti che dovrebbero contribuirvi, o di una conferma invece definita per forza delle cose.

         Perché, caro direttore, ti soffermi solo sui due anni che ci sono davanti? Dove metti quelli che ci sono alle spalle, o ancora sotto i piedi, fra le elezioni europee dell’anno scorso, altri referendum e altri voti regionali e comunali? Siamo sempre in campagna elettorale. Una lotta continua elettorale, direi, infarcita naturalmente di sondaggi che, alimentando paure e ambizioni, attizzano le fiamme come la tramontana e il maestrale.

E’ d’altronde un rischio, come lo chiama il direttore del Corriere, o un inconveniente inevitabile. Non se ne può materialmente prescindere, neppure riuscendo, quando capita, a raccogliere le elezioni di livello diverso da quello nazionale in almeno due scadenze l’anno. Non parliamo di una sola perché sarebbe troppo nel clima di “polverizzazione”, come ha scritto Fontana di questo autunno elettorale, cui  è abituata la politica.

         Che cosa fare, allora? Occorre cambiare, riformare. Ma più che leggi e regolamenti, occorre riformare il nostro rapporto, di elettori e di lettori e spettatori, con la politica. Occorre, per noi che ne scriviamo, attenerci al racconto, all’analisi, rinunciando alla propaganda e ad una certa partigianeria esasperata che finisce per alzare i toni dello scontro sino all’istigazione.

         Vasto programma, diciamo sempre in queste circostanze scopiazzando l’ironia della buonanima del generale Charles De Gaulle. Ma, francamente, non ne vedo altri più realistici.

         Aldo Moro si lamentò una volta, scrivendone sul Giorno, che il bene già ai suoi tempi non facesse notizia. O non la facesse come il male. Era ed è vero. E lo sarà sempre, temo, per il legno storto che è nella natura umana. Ma ciascuno nelle dimensioni che gli sono proprie dovrebbe sentirsi impegnato a porvi rimedio. So bene che è difficile, specie circondati come siamo da guerre vere, che tutti sono pronti ad aprire e nessuno alla fine riesce a fermare nei loro aspetti e contenuti feroci, non solo nominalistici, da vocabolario. Non entro nei particolari perché ne inorridisco. Ma non c’è altro modo per difendersene o sottrarvisi.

Pubblicato sul Dubbio

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