Papa Leone smentisce Francesco sulla guerra in Ucraina

         A cinque mesi dalla morte, e a qualche giorno dalla rimozione delle strutture di emergenza allestite per le visite affollate alla sua tomba, nella basilica romana di Santa Maria maggiore scelta da lui stesso per esservi sepolto, Papa Francesco è stato clamorosamente smentito dal suo successore Leone XIV nella valutazione della guerra ancora in corso, anzi aggravatasi per la ferocia della Russia, in Ucraina. “Martoriata” per entrambi i Pontefici nelle preghiere e nei discorsi, ma per Francesco trascinata, spinta e quant’altro nei guai dalla Nato. Che, sempre secondo Francesco, aveva “abbaiato” troppo alla Russia assecondando Zelensky. “La Nato non ha iniziato alcuna guerra”, ha ora puntualizzato il successore, risparmiando al predecessore solo un riferimento diretto, esplicito all’abbaio o latrato..

         L’intervento di Leone XIV è importante anche per il momento in cui è arrivato. Riportando sulla guerra in Ucraina l’attenzione ridotta dagli sviluppi della guerra a Gaza, dove i morti, i feriti, le distruzioni fanno più notizia, attirano di più l’interesse e le proteste, anzi le mobilitazioni politiche e mediatiche.

         Putin ma un po’ anche Trump, il connazionale di Papa Leone, Prevost all’anagrafe americana, non avranno forse gradito l’intervento correttivo arrivato dal Vaticano in tempi più rapidi, o meno lenti, di quelli che impiega abitualmente la Chiesa in queste operazioni, diciamo così, di discontinuità. Ma è mancato sia all’uno che all’altro il coraggio di lamentarsene, almeno pubblicamente. Anche questa potrebbe essere una notizia.

Ci tocca persino il rimpianto della dietrologia dopo l’assassinio di Kirk

  A leggere sul Foglio di qualche giorno fa Marco Bardazzi sarebbero almeno una decina i possibili eredi di Charlie Kirk nel cuore del presidente americano Donald Trump. Una decina di giovani anche un po’ anzianotti – come Amintore Fanfani nella sua Dc definiva molti dirigenti del movimento giovanile del partito prima di commissariarlo- che avrebbero la voglia e i requisiti per piacere al capo e ambire alla Casa Bianca  se non già la prossima volta, quando toccherà probabilmente al vice presidente Vance, in quella ancora successiva.

         Fra la decina di possibili successori di Kirk spicca l’afroamericana Candace Oweus, di 36 anni, meno giovane dell’attivista di 31 ucciso da Tyler Robinson con un proiettile sparatogli al collo con millimetrica precisione dal solito tetto ai soliti duecento metri di distanza. Ma per accorgimento e autodifesa spicca di più decisamente l’ancora meno giovane Ben Shapiro, che dopo l’attentato riuscito contro Kirk ha portato a 24 uomini la sua scorta personale. Personale nel senso di scorta da lui stesso pagata, come sembra che ne avesse anche lo sfortunatissimo Kirk, non so di quali dimensioni.

         Ecco, su questa storia della scorta, della protezione dei piccoli Trump, diciamo così, che crescono con attività pubbliche di sostegno al presidente in carica, imitandone anche il tipo di esposizione e lo stile, ho trovato quanto meno sorprendente la mancanza, da parte dello stesso Trump, di una domanda, di un dubbio, di una decisione delle sue, adottata con gli inconfondibili ordini a firma turrita. E in un paese, peraltro, come gli Stati Uniti d’America, dove la dietrologia è ancora più casa che in Italia, quando si creano o si scoprono falle negli apparati di sicurezza doverosamente federali, non certo privati.  Una dietrologia, per fare qualche esempio, come quella che ancora avvolge l’attentato al presidente americano Jhon Kennedy nel 1963 a Dallas, o come quella che ancora avvolge a Roma il sequestro prima e l’uccisione poi di Aldo Moro nel 1978, dopo 55 giorni in una prigione scoperta ma non assaltata per il timore, espresso anche dalla famiglia, che l’ostaggio rimanesse ucciso nell’operazione. Eliminato, magari, dagli stessi carcerieri.

         Non voglio fare, per carità, della dietrologia l’elogio quasi letterario della buonanima di Giulio Andreotti, che si consolava di peccare a pensar male perché convinto di indovinare. Non la voglio invocare, reclamare nella modestia, peraltro, di un vecchio giornalista distante settemila chilometri e più dagli Stati Uniti. Ma consentitemi qualche perplessità sulla fretta, a dir poco, con la quale è stata trattata, o non trattata per niente, la sicurezza mancata, negata o chissà cos’altro a Charlie Kirk. Che morendo in quel modo ha mandato inconsapevolmente un segno o messaggio a Trump, come per avvertirlo che potrebbe capitare anche a lui, per quanto protetto -si presume- meglio di lui.

Pubblicato sul Dubbio

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