Quel processo al processo all’odio contestato alla destra italiana

         Alle otto e mezzo di ieri sera non so se più Lilli Gruber, la padrona di casa televisiva, spalleggiata da Marco Travaglio, o Travaglio spalleggiato dalla Gruber, ed entrambi spalleggiati da Lina Palmerini, Giovanni Floris e Beppe Severgnini, tutti insomma d’accordo in assenza fisica di una controparte, hanno fatto il processo al processo che la destra italiana avrebbe fatto all’odio dopo l’assassinio del giovane attivista trumpiano Charlie Kirk, negli Stati Uniti. Ucciso con un colpo miratissimo di fucile mentre dibatteva in un campus universitario sfidando gli interlocutori dissidenti a dargli torto. Lui pensava alle parole, ai ragionamenti, ma da duecento metri di distanza, su un tetto raggiunto in tutta tranquillità, in assenza quindi di una protezione fisica alla quale penso che avrebbe avuto diritto per la notorietà, o la notoria vicinanza a Trump nel sostegno mediatico, uno più giovane di lui, tale Tyler Robinson, gli ha dato torto uccidendolo. E con una pallottola tanto di sinistra, diciamo così, da essere stata incisa dall’assassino con le parole di una celebre canzone italiana non proprio di destra: bella ciao. Più addio, in verità, che ciao come nella canzone. Ma vaglielo a contestare adesso a quell’invasato d’odio, come spero che si possa dire senza essere processati.

         Lo spettacolo del processo al processo, o controprocesso, condotto dalla Gruber e ospiti convinti che di odio ci sia, almeno adesso, solo quello della destra contro la sinistra, merita come risposta quella che ho trovato sulla prima pagina del Corriere della Sera nel titolo, fra virgolette, di un articolo dell’ex presidente della Camera, e anche ex magistrato, Luciano Violante, non proprio di destra. Il quale ha scritto, in particolare, contro “quegli odiatori e falsi maestri a destra e a sinistra”.

Urbano Cairo, editore tanto de la 7 quanto del Corriere della Sera, spero si sia riconosciuto più in Violante che nella Gruber e i  suoi ospiti. Spero, ripeto.   

Il voto cattolico a destra non è più in libera uscita, come ai tempi della Dc

Impropriamente -come può accadere in un comizio, anche ad una professionista della politica com’è una pur giovane leader che non ha fatto praticamente altro nella sua vita- la premier Giorgia Meloni in un tripudio di scudi crociati ha invitato avversari, critici e amici a “stare tranquilli” di fronte alla “caccia” ai cattolici che le viene attribuita nella prospettiva di un “clerico melonismo”. Che è, in particolare, la formula addebitatale da Marco Damilano sul Domani dell’editore Carlo De Benedetti. 

         La caccia, come la pesca, dà il senso certamente di una competizione, ma non necessariamente a lieto fine sia per la preda sia per i concorrenti, che possono rimanere vittime di qualche incidente. Meno impropriamente la premier avrebbe dovuto parlare di corteggiamento, ma da donna -lo ammetto- potrebbe essere stata trattenuta dalla paura di apparire sfacciata. Tuttavia sono davvero i voti cattolici in senso lato, comprensivi dei  democristiani della storia politica italiana, che la premier ha raccolto con le sue posizioni e declamazioni politiche, e di credente, portando il suo partito di destra dal 3 al 30 per cento? Cioè moltiplicandolo per 10, a spese degli alleati d centrodestra ma anche del Pd, dove la sofferenza della componente di provenienza democristiana è di una sconcertante evidenza.

         Non è la Meloni che si è democristianizzata, o andreottianizzata più in particolare, come le viene rimproverato dimenticando che a 15 anni, quando le venne la vocazione politica sotto l’effetto dell’attentato mortale a Paolo Borsellino e alla scorta, la Dc era già verso lo scioglimento, avvenuto diciotto mesi dopo, all’incirca. E’ il voto cattolico, ripeto, comprensivo dell’elettorato sopraggiunto per ragioni naturali a quello della Dc, che si è accasato stabilmente a destra, più che a sinistra come nelle aspirazioni della omonima area democristiana. Si è accasato stabilmente, questo voto, senza più andarsene a destra “in libera uscita”, come diceva fiduciosamente Giulio Andreotti nella cosiddetta prima Repubblica, quando commentava i guadagni elettorali del Movimento Sociale di Giorgio Almirante. E pensava al ritorno, per lui scontato, di quegli elettori alla Dc.

         Quello che la Meloni prima ancora di capire e di inseguire in tenuta da caccia o pesca ha semplicemente avvertito, e giustamente cerca di consolidare, è che non c’è più per dimensioni elettorali e programmi politici una Dc dove certi voti potrebbero tornare. C’è qualche scheggia o cespuglio, quantitativamente parlando, come l’Udc di Lorenzo Cesa e Antonio De Poli, già di Pier Ferdinando Casini, alla cui festa la Meloni è accorsa in un albergo romano sull’Aurelia, accolta come una sorella, parafrasando i suoi fratelli d’Italia.

         Ci sono devoti anche altrove, per carità. Come Dario Franceschini, non so di preciso di quale Santo, e Giuseppe Conte, devoto anche per ragioni familiari di Padre e Santo Pio. Essi si sono consultati e confortati alla festa dell’Unità nella prospettiva di un’alternativa al centrodestra a guida però necessariamente indefinita. Necessariamente, perché solo a cercare di definirla se ne compromette la sorte.

Pubblicato sul Dubbio

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