Ciò che non torna, scusate, nei tempi e modi dell’agguato mortale a Charlie Kirk

         Eppure c’è qualcosa che non mi torna nella vicenda dell’attentato mortale al trumpissino Charlie Kirk e della rapida cattura del responsabile Tyler Robinson, della quale il presidente americano ha auspicato la condanna a morte. Cattura avvenuta non ho ancora ben capito se per merito più della polizia, intesa in senso lato, parlando cioè di tutti gli apparati di sicurezza necessariamente coinvolti nelle indagini, ricerche ed altro, o del padre e amici che, avendolo riconosciuto nelle foto ricavate da telecamere sul luogo dell’attentato, gli hanno consigliato di consegnarsi.

         I rapporti fra Trump e il suo “adorato”, “leggendario” giovane ammiratore e propagandista non sono certamente venuti fuori dopo il delitto. Erano arcinoti ben prima. Mi chiedo allora perché  la sua difesa, la sua protezione fisica si sia rivelata così bassa, scadente, per non dire inesistente. Come è stato così facile a Tyler Robinson conoscere così bene l’agenda di Kirk, i suoi appuntamenti, i suoi incontri col pubblico nelle modalità e nei turni di campagne permanenti da attenderlo sul solito tetto a 200 metri di distanza e di sparargli addosso il proiettile che lo ha praticamente freddato. E andarsene via semplicemente saltando giù dal tetto di un’altezza relativa  e lasciando a disposizione tutto ciò che poteva essere utile, peraltro, ad arrivare a lui: dal fucile ai proiettili incisi anche con le parole “bella ciao”, ormai internazionali come canzone antifascista dei partigiani italiani.

         E’ stato solo un difetto di sorveglianza, d’intelligence, nonostante l’allarme scattato sul fronte trumpista, chiamiamolo così, con l’attentato fallito poco prima della seconda elezione del presidente, e forse decisivo per la sua vittoria? E’ stato solo un accidente, o incidente? Ed è casuale, dannatamente casuale, l’avvertimento o effetto intimidatorio che forse si è già prodotto o potrà affiorare o aumentare su Trump, al di là delle sue parole e dei suoi atteggiamenti abituali di sfida? Come se qualcuno, parlandone al singolare ma pensando al complesso di forze che controllano o costituiscono il sistema di un paese grande e complesso come gli Stati Uniti, avesse voluto mandare un messaggio, un segnale e quant’altro al presidente appunto tanto spavaldo. E sempre più discusso e sorprendente. Alla cui buona salute, parlandone in tutti i sensi, si ha spesso la sensazione, giusta o sbagliata, che tenga più Putin, oltre Atlantico che una certa, consistente parte del cosiddetto apparato americano.

         A pensare male si fa peccato, diceva il tante volte e giustamente citato Giulio Andreotti. “Ma s’indovina”, diceva  stringendosi sempre di più nelle sue spalle. Non parlo poi delle volte in cui si lasciava scappare che qualcuno se la fosse cercata morendo ammazzato.   

Droni volano e cadono sul campo largo di Schlein e Conte

Droni svolazzano e cadono anche sul campo largo festeggiato dalla segretaria del Pd Elly Schlein dopo essersi accordata con Giuseppe Conte su candidature comuni al vertice delle regioni interessate alla tornata autunnale ormai alle porte. Non ce n’è per nessuno, aveva praticamente annunciato la segretaria del Nazareno, poiettando le intese nella prospettiva di un’alternativa nazionale al centrodestra, fra due anni, quando dovranno essere rinnovate le Camere. E ammonendo, o sfidando direttamente la premier Giorgia Meloni, fratelli, sorelle, cugini e nipoti d’Italia a non fare più affidamento sulle “divisioni” abituali, quasi croniche della sinistra. Che avrebbero regalato la vittoria al centrodestra due anni e mezzo fa, come se esso non avesse avuto merito in un  successo peraltro previsto con un certo, non nascosto sollievo dall’allora presidente del Consiglio Mario Draghi. Che pure aveva visto originariamente la destra meloniana sola all’opposizione del suo governo tecnico e bipartisan, succeduto al secondo governo di un Conte convinto, con Marco Travaglio, di avere una dimensione e una qualità seconda solo al compianto Camillo Benso conte (al minuscolo) di Cavour. Per cui doveva sfilarsi pure lui dalla maggioranza e proporsi di tornare per altre vie a Palazzo Chigi. Gli estimatori, sotto le stelle e sopra, ne stanno ancora aspettando l’arrivo.

         Lo stesso Conte, a sorpresa, fra le pieghe delle procedure che lo stanno confermando alla presidenza almeno del Movimento che fu, ormai, di Beppe Grillo e del compianto Gianroberto Casaleggio, morto in tempo forse per non pentirsene; lo stesso Conte, dicevo, è svolazzato come un drone sul campo largo festeggiato dalla Schlein sottolineando i limiti, geografici e politici, delle intese regionali. E avvertendo di non avere alcuna voglia di ripercorrere la strada di Romano Prodi guidando, se mai dovessero permetterglielo gli alleati, o solo partecipando a coalizioni capaci di sottoscrivere lunghi e dettagliati programmi, sino alle 300 pagine del secondo governo Prodi appunto, ma non di governare. O governare solo nove mesi trascinandosi appresso nella caduta le stesse Camere.

         So da buona fonte che la Schlein, pur nel riserbo impostole, e da lei imposto agli amici, dalle comprensibili e imbarazzanti circostanze, sia rimasta male all’uscita di Conte, leggendone e rileggendone l’intervista al Corriere della Sera. Immagino quanto ancora sia rimasta male, se non peggio ancora, consultando i risultati di un sondaggio appena condotto dall’Ipsos, a due settimane dall’appuntamento con le urne, sulle elezioni regionali nelle Marche. Che anche Nando Pagnoncelli, scrivendone sempre sul Corriere della Sera, ha paragonato all’Ohaio americano, che riflette tanto bene la maggioranza degli Stati Uniti nel loro complesso da anticipare abitualmente i risultati generali.

         Fra le poche- solo tre, col Veneto e la Calabria- regioni alle urne a maggioranza uscente di centrodestra, le Marche erano apparse alla Schlein contendibili grazie all’appoggio riuscito a strappare a Conte, pur fra qualche esitazione iniziale, alla candidatura a presidente di Matteo Ricci, europarlamentare e già sindaco piddino di Pesaro, pur incorso con la solita puntualità o coincidenza nelle indagini e attenzioni giudiziarie.  Ma tanto candidato, pur con i vantaggi che possono procurare indagini dai tempi sospetti in un Paese abbastanza maturato, per fortuna, dopo le mattanze giudiziarie di una trentina d’anni fa, è risultato fermo nel sondaggio Ipsos al 44,8 per cento delle intenzioni di voto. Contro il 50,1 del presidente uscente Francesco Acquaroli, del partito della Meloni, amico anche personale della premier. Un partito, quello della Meloni, che nelle Marche risulta, dallo stesso sondaggio, il primo in assoluto, col 25 per cento contro il 21.6 del Pd. Nelle regionali precedenti, cinque anni fa, era stato il Pd al 25 per cento, e il partito della Meloni al 18,7.

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