Non so francamente se più con l’aggravante o l’attenuante della paura rabbiosa procuratagli dalla eliminazione dell’”adorato” Charles Kirk negli Stati Uniti, compiuta con la precisione di altri attentati che hanno contrassegnato la storia americana, il presidente Donald Trump ha opposto una prudenza avvertita come inquietante da molti osservatori alla vicenda dei droni russi sulla Polonia.
Mentre i polacchi hanno disposto una trincea di 40 mila uomini lungo i confini con la Bielorussia, considerabile piuttosto come una Similrussia, e le strutture della Nato si sono allertate per i pericoli che corre il paese alleato, Trump e i suoi consiglieri oltre Atlantico non manifestano ma ostentano i loro dubbi sugli attacchi subiti dalla Polonia. Essi propendono più per un errore che altro dei russi e bielorussi. Un errore, magari, attribuibile neppure a loro ma agli ucraini, che avrebbero dirottato verso se stessi droni di altra direzione partiti nell’ambito di esercitazioni, manovre e simili dei russi e loro alleati.
Più che mandare truppe come in trincea, ripeto, ai loro confini orientali, i polacchi dorrebbero prendersela quindi con l’Ucraina e reclamarne le scuse. E noi tutti, in Occidente, dovremmo fare con Zelensky, anziché riceverne e condividerne le telefonate di protesta e di richiesta di ulteriori aiuti.
La linea sulla quale Trump continua dunque a muoversi, pur fra qualche insofferenza o rammarico verbale, sarebbe quella derivante dalle immagini del suo incontro con Putin in Alaska a ferragosto. Una linea di rapporto speciale, empatico con l’omologo russo, che è ben felice naturalmente di investire il suo riaccreditamento internazionale in direzione anche opposta agli interessi americani: sul versante, per esempio, cinese o, più in generale, asiatico e generalmente antioccidentale.