Tutte le ambizioni della Cina e le frustrazioni dell’Occidente

         In Cina, si sa, tutto è o diventa grande. Anzi, enorme. Dalla miseria di certa periferia geografica e sociale ai missili che sfilano nelle parate militari, alla cui sola vista ti senti a casa schiacciato come un verme. Lo era già ai tempi dell’esplorazione di Marco Polo, avventuratosi da Venezia in quelle terre. Figuriamoci adesso, con la popolazione che si si misura a miliardi e la tecnologia nella quale i cinesi sono diventati dei fenomeni, copiando l’Occidente sino a superarlo, o quanto meno a minacciarne la sicurezza. Che d’altronde è già messa a dura prova dagli errori dei “bulli” di turno, come ha detto Xi in tenuta maoista alludendo naturalmente al presidente americano Donald Trump. Vi dice niente questo nome e cognome, senza vederne la firma a forma di torri svettanti?

         In Cina è diventata grande, grandissima, enorme anche l’ambizione, pur suicida perché i contenitori sono quelli che sono, di vivere a lungo. Addirittura sino a 150 anni, come si è proposto Xi, sempre lui, parlandone con Putin. Che magari avrà pensato, con tutto il tempo che gli si offre, di riuscire anche a farsi ricrescere i capelli. Chissà cosa avrebbe pensato, se fosse ancora vivo, a sentire questa storia il nostro Silvio Berlusconi, spintosi ad immaginarsi attorno ai 100 anni, poco sopra o poco sotto, e andatosene solo, diciamo così, agli 87 neppure compiuti, se non ricordo male.

         Diventa grande in Cina, con riflessi sulle prima pagine dei giornali domestici, come dicono gli americani, anche la comparsa dell’ex premier Massimo D’Alema, l’unico che Matteo Renzi sia riuscito a rottamare in Italia. Egli è corso fra gli spettatori, ospiti e quant’altro della parata celebrativa della conclusione della seconda guerra mondiale, e del contributo datovi dai cinesi alle prese con i giapponesi, piegati tuttavia solo dall’atomica americana. Ma queste sono inezie, diciamo così, che dovremmo vergognarci solo a pensare, figuratevi a scrivere.

         In questa orgia di esibizioni muscolari, di minacce e simili dovremmo vergognarci anche delle miserie della nostra politica interna, presa su pagine intere di giornali stampati da poche elezioni regionali d’autunno da cui sembra che debba dipendere, sotto sotto, anche il futuro della…Cina. Via, signori, cercate di contenervi.

Quando Emilio Fede andava a messa privata dal Papa

Nell’angolo archeologico dove gli anni inevitabilmente relegano il cronista, che rivive l’attualità collegandola ai suoi ricordi, metto da parte i dissapori, che ho pur avuto con lui sino ad archiviare una sia pur lunga amicizia, e riconosco al collega Emilio Fede, morto a 94 anni compiuti a giugno, di essere stato un giornalista attivo, appassionato, valente come pochi altri che hanno avuto più fortuna di lui nell’esercizio della loro professione. Senza imbattersi in disavventure che, come tutte le disavventure, finiscono abitualmente per sommergere anche le avventure.

         Non dimenticherò mai quella mattina dei primi anni Ottanta in cui fui invitato da lui nel suo ufficio di direttore del Tg 1. Era una mattina caldissima d’estate, dalla quale lui si proteggeva con l’aria condizionata regolata al massimo, tanto da costringerlo a proteggere lo stomaco avvolgendolo in un maglione arrotolato. “Sono le correnti della Dc”, mi disse scherzando, ma non troppo.

  Gli era infatti capitato di succedere da vice, e poi a tiolo pieno,  ad un direttore di anagrafe democristiana, nella lottizzazione praticata alla Rai, coinvolto e infine travolto dalla vicenda della P2, Che era una loggia massonica speciale alla cui iscrizione, spesso persino inconsapevole, corrispondeva il sospetto, l’accusa e quant’altro di scalare affari e persino attentare alla sicurezza dello Stato.

         Pur socialdemocratico di adozione certificata anche dal matrimonio con la figlia di un allora potente vice presidente della Rai amico personale e fidatissimo di Giuseppe Saragat, Italo De Feo, a Emilio toccò quindi per tre anni di dirigere il tg maggiore dell’azienda pubblica. E per tre anni la Dc sopportò, sino a quando il segretario di turno, che era Ciriaco De Mita, non sbottò e non pretese il ristabilimento di quella che lui considerava la normalità: un democristiano doc, di fiducia, a quel posto. Non ci fu verso di ritardare ulteriormente il ripristino dell’ordine, diciamo così. Neppure giocando con la fede, al minuscolo, in qualche modo entrata nel curriculum di Emilio con qualche simpatia guadagnatasi in Vaticano. Dove il direttore del Tg 1 veniva qualche volta invitato alle messe private del Papa, specie sotto Natale.

         A quei tre anni in qualche modo anomali vissuti alla guida del maggiore -ripeto- telegiornale italiano, con ascolti di tutto rispetto e prestazioni professionali quasi da antalogia, come la diretta televisiva, poi raccontata da un pezzo novanta come Walter Veltroni, della morte di un bambino romano caduto in un pozzo, sono forse legati i ricordi migliori e più gratificanti della carriera giornalistica di Emilio. Sarebbe seguita la parte più insidiosa, rischiosa e faticosa, in un intreccio sfortunatissimo di cronaca politica e giudiziaria, di ingenita debolezza umana aggravata da una concorrenza sleale, fatta più di livore e di invidia che di racconto. Emilio, pur col gusto della sfida e dell’ironia, sino a scriverne lui stesso prendendosi a parolacce, ne ha sofferto molto e a lungo. Ora ha smesso davvero.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 7 settembre

Blog su WordPress.com.

Su ↑