Già avvertita persino al Nazareno alla fine della prima giornata di votazioni con l’affluenza alle urne calata di 5 punti rispetto all’analoga prima giornata di cinque anni fa, la sconfitta del centrosinistra orgogliosamente sfidante con la candidatura di Matteo Ricci alla presidenza è arrivata in tutta la sua concretezza nella regione marchigiana. La seconda mezza giornata di votazioni ha persino aggravato la situazione con la fuga dalle raddoppiata: da cinque a 9,7 punti, quasi 10.
Le Marche sono quindi rimaste saldamente nelle mani del centrodestra. L’assalto agguerrito del cosiddetto centrosinistra o campo largo anziché portare più gente alle urne ne ha allontanata ulteriormente. Gli elettori sono stati meno sprovveduti di quanto non avessero immaginato gli avversari del presidente uscente Francesco Acquaroli contrapponendogli un cartello eterogeneo come un’Armata Brancaleone. Come a livello nazionale nel 1994 la famosa allegra “carovana” dell’ultimo segretario del Pci e primo del Pds, Achille Occhetto, contro Silvio Berlusconi. Sono passati 31 anni inutilmente per la sinistra, ostinata nel rifiutare la pratica e la logica di coalizioni fatte di programmi più che di ostilità, di rancori, di velleità.
Eppure le Marche erano apparse alla segretaria del Pd e alleati la regione più contendibile al centrodestra delle tre contenute nel pacchetto elettorale di questo autunno, comprensive anche del Veneto e della Calabria. Erano state scambiate le Marche dell’improbabile Matteo Ricci per una proiezione italiana dell’Ohio americano, lo Stato civetta, diciamo così, degli Stati Uniti che abitualmente riflette nelle urne l’orientamento vincente a livello confederale.
Vale doppia la sconfitta subita nelle Marche dalla sinistra, come sul versante opposto la vittoria della destra con otto punti di distacco, quanti sono stati quelli accumulati da Acquaroli rispetto a Ricci, arrivati al 52,5% e al 44,4 % dei voti. Vale per la sconfitta in sé, e per quel supplemento di vittoria che la sinistra aveva accarezzato sognando di prevalere. Vale a dire lo sconquasso del centrodestra a livello addirittura nazionale per un “fallo di reazione” – così definito, in particolare, dal capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, gran consigliere e amico della Schlein- attribuibile ad una Meloni sconfitta e decisa a rifarsi rivendicando per i suoi fratelli d’Italia la candidatura alla presidenza del Veneto prenotata invece dai leghisti per il loro vice segretario Alberto Stefani, non potendo essere ricandidato il governatore uscente Luca Zaia.
Ma già prima del risultato marchigiano, prevedendolo con più realismo degli avversari, la Meloni aveva rovesciato a mezzo stampa la ricotta di Boccia confermando l’appoggio alla candidatura veneta di Stefani. Non ne azzeccano una i campisti del Nazareno e dintorni. Campisti, naturalmente, da campo largo, o santo, o largo e santo.