Doppia sia la vittoria sia la sconfitta elettorale nelle Marche

         Già avvertita persino al Nazareno alla fine della prima giornata di votazioni con l’affluenza alle urne calata di 5 punti rispetto all’analoga prima giornata di cinque anni fa, la sconfitta del centrosinistra orgogliosamente sfidante con la candidatura di Matteo Ricci alla presidenza è arrivata in tutta la sua concretezza nella regione marchigiana. La seconda mezza giornata di votazioni ha persino aggravato la situazione con la fuga dalle raddoppiata: da cinque a 9,7 punti, quasi 10.

         Le Marche sono quindi rimaste saldamente nelle mani del centrodestra. L’assalto agguerrito del cosiddetto centrosinistra o campo largo anziché portare più gente alle urne ne ha allontanata ulteriormente. Gli elettori sono stati meno sprovveduti di quanto non avessero immaginato gli avversari del presidente uscente Francesco Acquaroli contrapponendogli un cartello eterogeneo come un’Armata Brancaleone. Come a livello nazionale nel 1994 la famosa allegra “carovana” dell’ultimo segretario del Pci e primo del Pds, Achille Occhetto, contro Silvio Berlusconi. Sono passati 31 anni inutilmente per la sinistra, ostinata nel rifiutare la pratica e la logica di coalizioni fatte di programmi più che di ostilità, di rancori, di velleità.

         Eppure le Marche erano apparse alla segretaria del Pd e alleati la regione più contendibile al centrodestra delle tre contenute nel pacchetto elettorale di questo autunno, comprensive anche del Veneto e della Calabria. Erano state scambiate le Marche dell’improbabile Matteo Ricci per una proiezione italiana dell’Ohio americano, lo Stato civetta, diciamo così, degli Stati Uniti che abitualmente riflette nelle urne l’orientamento vincente a livello confederale.

         Vale doppia la sconfitta subita nelle Marche dalla sinistra, come sul versante opposto la vittoria della destra con otto punti di distacco, quanti sono stati quelli accumulati da Acquaroli rispetto a Ricci, arrivati al 52,5% e al 44,4 % dei voti.   Vale per la sconfitta in sé, e per quel supplemento di vittoria che la sinistra aveva accarezzato sognando di prevalere. Vale a dire lo sconquasso del centrodestra a livello addirittura nazionale per un “fallo di reazione” – così definito, in particolare, dal capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, gran consigliere e amico della Schlein- attribuibile ad una Meloni sconfitta e decisa a rifarsi rivendicando per i suoi fratelli d’Italia la candidatura alla presidenza del Veneto prenotata invece dai leghisti per il loro vice segretario Alberto Stefani, non potendo essere ricandidato il governatore uscente Luca Zaia.

         Ma già prima del risultato marchigiano, prevedendolo con più realismo degli avversari, la Meloni aveva rovesciato a mezzo stampa la ricotta di Boccia confermando l’appoggio alla candidatura veneta di Stefani. Non ne azzeccano una i campisti del Nazareno e dintorni.  Campisti, naturalmente, da campo largo, o santo, o largo e santo.  

Dal casino giudiziario di Garlasco al casinò di Campione d’Italia

Clamorosamente indagato a Brescia dai suoi ex colleghi per il sospetto di essersi lasciato corrompere salvando per due volte Andrea Sempio nella vicenda del delitto di Chiara Poggi a Garlasco, l’ex procuratore aggiunto di Pavia  Mario Venditti mi sembra un uomo, per ora, di sicuro sfortunato. Per il quale non avverto ma soprattutto non esprimo pena per il significato negativo che generalmente si attribuisce a questa parola, o sentimento. Egli merita comunque il rispetto dovuto ad una persona  innocente “sino alla condanna definitiva”, com’è scritto nell’articolo 27 della Costituzione, quasi fra i primi considerando i 139 complessivi, e al netto delle 18 “disposizioni transitorie e finali”. Un articolo che penso fra i più diffusamente violati dalla cultura e dalla pratica, anche o soprattutto giornalistica, del giustizialismo contrapposto al garantismo.

           A Mario Venditti è innanzitutto capitata la sfortuna, non credo proprio cercata, di lavorare come inquirente su un caso complicatissimo, del quale basta citare la data d’inizio -il lontano 2007, ben 18 anni fa- per farsene un’idea. Un caso per il quale è stato condannato in via definitiva l’ex fidanzato della vittima, Alberto Stasi, che ha continuato a scontare la sua pena anche dopo e mentre venivano aperte o riaperte altre indagini. Una circostanza, questa, che da sola dovrebbe consigliare prudenza. Non dico altro sul merito delle indagini. Basta e avanza l’incredulità espressa da un uomo dell’esperienza giudiziaria di Carlo Nordio, che oggi assiste a questa singolare vicenda anche come ministro della Giustizia. E che ha ricevuto dal difensore di Venditti la richiesta di disporre un’ispezione a Brescia, la sede competente ad occuparsi di un magistrato che ha operato a Pavia. 

         La ciliegina, diciamo così, sulla torta che a 72 anni compiuti    è toccata a Mario Venditti di vedersi servita dagli ex colleghi è un po’ quella dell’incarico attuale che l’ex magistrato ricopre: presidente del Casinò, con l’accento sulla vocale finale, di Campione d’Italia. Il cui il sindaco ne ha chiesto le dimissioni per le intervenute difficoltà giudiziarie.

 Diavolo, anche questo doveva capitare all’ex procuratore aggiunto.  Un incarico che barzellettari, vignettisti e simili saranno probabilmente tentati, nel solito, impietoso esercizio della satira, di associare ai soldi.  Che nelle sale da gioco saltano da un numero all’altro, da una ruota all’altra, come quelli finiti nelle carte delle indagini di Brescia: fra i 20 e 30 euro, moltiplicati per mille dalle cronache e dai sospetti accoppiati al nome di Venditti nell’appunto sequestrato ai genitori di Sempio. Soldi che per un altro documento acquisito dalle indagini confluirebbero in qualche modo nei 46 mila euro movimentati a suo tempo nei conti dei familiari, sempre di Sempio, attribuibili a compensi ed altro pagati per la vicenda giudiziaria intestata al delitto di Chiara Poggi.

         Qualcuno magari vi riderà sopra, col cinismo della cronaca e della casualità. Ma, francamente, c’è ben poco di cui ridere, O, magari, solo da sorridere.

Pubblicato sul Dubbio

Schlein & soci hanno messo in fuga i marchigiani dalle urne

Meno male che la segretaria del Pd Elly Schlein aveva personalmente battuto le Marche con la pancia, come dicevano al Nazareno commentandone il forte attivismo per trasformare le elezioni regionali nella occasione della vera svolta. Dello scacco matto al centrodestra e alla premier Giorgia Meloni in persona.

Non so in quali condizioni la segretaria del Partito Democratico abbia ridotto la sua pancia, e gli abiti. Certo, ha ridotto malissimo quelli del partito, dove molti faticheranno a sostenerla nell’inevitabile dopo-voto, per quanto la perdurante campagna elettorale per le altre regioni al voto potranno funzionare da freno. O quanto meno dare alla Schlein il motivo o il pretesto di differire la partita per attendere l’esito di tutto il campionato autunnale, diciamo così.

         Se è vero che di lei ha detto, vantandosene e vantandola, qualche giorno fa in un’intervista al Foglio il capogruppo al Senato Francesco Boccia, che cioè riesce a riempire le piazze di giovani, strappandoli alla tentazione e alla pratica dell’astensionismo elettorale, e riducendo a poche le teste di capelli bianchi, nelle Marche dev’essere accaduto qualcosa che da sola segna la sua sconfitta, prima e ancor più della sconfitta del suo candidato Matteo Ricci, sostenuto dal famoso, cosiddetto campo largo o santo. E’ accaduto che i giovani si siano tenuti ancora più lontani dalle urne. E a loro si siano aggiunti anche gli anziani post-comunisti abituati da una vita a ingoiare tutti i rospi del loro partito.          L’affluenza alle urne marchigiane rispetto alle precedenti, analoghe elezioni di cinque anni fa, è diminuita di cinque punti nella prima giornata intera di votazione, e di altrettanti ancora nella seconda metà giornata, salendo quindi complessivamente a quasi dieci punti. Caspita, complimenti. Questo è l’unico o il maggiore dato che la segretaria del Pd può vantare col segno più.

Del resto si potrebbe dire del Pd non dico come di Gaza, per carità, con tutto il suo dramma autentico e al netto dei giochi politici anche interni alla politica italiana che si fanno alle spalle di quella gente sequestrata dai terroristi palestinesi, prima ancora che colpita dagli israeliani; non dico come di Gaza, dicevo, ma di una regione devastata dal maltempo sì.

         E’ stato per la Schlein di ben scarso risultato l’abbraccio cercato e infine ottenuto con Giuseppe Conte nelle Marche, con la sua “testarda” ricerca dell’unità a sinistra per scongiurare non più soltanto un’altra vittoria elettorale nazionale di Meloni, fra due anni, ma ora anche o soprattutto una sua prenotazione del Quirinale, per quando scadrà il secondo mandato di Sergio Mattarella, fra quattro anni. Un’ambizione legittima, se fosse davvero coltivata, da parte di una premier che avrà nel frattempo maturato l’età di almeno 50 anni richiesta dalla Costituzione, ma diventata ormai l’ossessione dei vertici del Nazareno: dal già citato Francesco Boccia all’ancor più terrorizzato, anche fisicamente con quella dieta che si è imposta e la barba che gli avvolge il viso, Dario Franceschini. Anche lui abbandonatosi nei giorni scorsi alle confessioni col Foglio dopo averne parlato, credo, col Conte delle 5 Stelle.

         Vasto programma, direi, alla maniera gollista questo dei vertici del Nazareno, in fondo irriguardosi verso lo stesso presidente in carica, quello di fare cominciare con tanti anni di anticipo la cosiddetta corsa al Quirinale, come ai tempi di quella che ci siamo abituati a chiamare Prima Repubblica. Quando accadeva anche che lo sconfitto in una edizione della corsa al Colle si preparava, con un misto di rassegnazione e di spirito competitivo, se non addirittura di rivalsa, a quella successiva, dopo sette anni. La buonanima di Giovanni Spadolini, per esempio, sconfitto nel 1992 da Oscar Luigi Scalfaro, si consolò con me al telefono calcolando che dopo 7 anni avrebbe avuto la stessa età del presidente appena eletto. E ne ridemmo insieme. O fingemmo di ridere, entrambi.

Pubblicato su Libero

Fiato sospeso al Nazareno per il calo di affluenza elettorale nelle Marche

         Fiato sospeso al Nazareno dopo avere constatato il calo d’affluenza alle urne nelle Marche alla fine della prima giornata di votazioni: 37,7 per cento contro il 42,7 di cinque anni fa. Se e di quanto potrà risultare un recupero alla chiusura dei seggi, alle ore 15 di oggi? Esso serve generalmente più al concorrente, in questo caso l’europarlamentare del Pd Francesco Acquaroli, già sindaco di Pesaro, che al presidente uscente e ripropostosi Francesco Acquaroni, sostenuto dal cosiddetto campo largo aspirante all’alternativa al centrodestra anche a Roma. Un campo che ha molto scommesso sul voto marchigiano nella sua prospettiva nazionale ritenendo questa regione la più contendibile fra le tre guidate dal centrodestra e interessate a questa stagione elettorale d’autunno. Le altre due sono il Veneto e la Calabria. Quelle che invece il centrosinistra già detiene con buone probabilità di conservarle sono la Puglia e la Campania, dove il centrodestra non a caso arranca ancora a trovare un candidato da opporre, rispettivamente, ad Antonio Decaro e a Roberto Fico, rispettivamente del Pd e del Movimento 5 Stelle.

         A peggiorare gli umori al Nazareno alla fine della prima giornata di votazioni nelle Marche è stata anche la notizia, raccolta con una certa evidenza in prima pagina oggi dal Fatto Quotidiano, di un accordo ormai intervenuto nel centrodestra sulla candidatura di un leghista per la successione ad un altro leghista, il governatore uscente Luca Zaia, in Veneto. Dove invece il Pd, secondo un’intervista rilasciata alla vigilia del voto dal capogruppo al Senato Francesco Boccia, contava- e conta ancora per qualche ora- su un “fallo di reazione” di Giorgia Meloni ad una sconfitta del suo candidato nelle Marche. Il “fallo”, in particolare, della pretesa della presidenza del Veneto, sino a sfasciare la coalizione anche a livello nazionale.

         L’implosione del centrodestra è notoriamente la speranza maggiore al Nazareno. Dove, dietro la facciata di una sicurezza di vittoria ai punti del cosiddetto centrosinistra, ostentata dalla segretaria del partito Elly Schlein correndo per le Marche fra visite e comizi, si sa che il campo delle opposizioni proprio per la sua larghezza, e le sue contraddizioni interne di programma e di ambizioni personali a Palazzo Chigi, non ha per niente la strada spianata verso una vittoria quando si rinnoveranno le Camere. O una rivincita rispetto alla cocente sconfitta del 2022.  

Se davvero piovessero anche in Italia i droni di Putin…

         Il presidente ucraino Volodymir Zelensky con la competenza che si è tragicamente fatta in tema di droni russi, ne prevede o persino avverte un po’ destinati anche all’Italia per sfidare la Nato pure sul fronte meridionale, e non solo su quello settentrionale.

  Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, nonché vice presidente del Consiglio, si è affrettato ad assicurare che la contraerea italiana vorrà e saprà intercettare e abbattere i droni di Putin. Forse troverà il modo e la voglia di parlarne anche il ministro della Difesa Guido Crosetto, si spera per confermare il collega di governo, non una propria, recente e poco rassicurante rivelazione sulla impreparazione dell’Italia a fronteggiare condizioni belliche sul territorio nazionale. Su quello internazionale forse no, vista la partecipazione italiana a tante e anche appezzate missioni internazionali dichiaratamente di pace ma esposte quanto mano a rischi di guerra, come sanno i contingenti in Libano, per esempio.

         Personalmente mi auguro che Zelensky abbia compiuto un eccesso di previsione e avvertimento. E, paradossalmente, non per il timore di verificare se delle condizioni militari italiane sia più informato il ministro degli Esteri o il ministro della Difesa, ma per lo spettacolo politico che deriverebbe da un attacco russo. Al quale già vedo le opposizioni scatenate a dubitare della provenienza dei doni e a reclamare la corsa della premier Giorgia Meloni in Parlamento dove poterle non assicurare un momento di quella che una volta si chiamava “solidarietà nazionale”, o di emergenza, ma addebitarle la responsabilità di avere portato “in guerra” l’Italia con la sua politica estera. Che l’ex premier Giuseppe Conte, aspirante a un ritorno a Palazzo Chigi, in concorrenza con la segretaria del Pd Elly Schlein definisce pavida nei giorni pari e bellicista nei giorni dispari.  

         Sarebbe ben triste, e soprattutto pericoloso, sperimentare insieme la tenuta militare e quella politica dello stivale italiano della Nato.

Ripreso da http://www.startmag.it

Al voto nelle Marche e Val d’Aosta con ambizioni e fantasie nazionali

 Siamo dunque alla prima domenica di questa stagione elettorale di livello regionale, nella quale sono destinate a cadere come foglie d’autunno almeno alcune delle ambizioni nazionali come al solito coltivate all’ombra di votazioni locali. Specie per l’appuntamento di oggi nelle Marche, vista la particolarità del voto in Valle d’Aosta, una regione già speciale di suo. Dove il presidente, tanto per cominciare, non viene eletto direttamente dai cittadini ma dai consiglieri regionali.

Nelle Marche si vedrà domani, con i risultati dopo la mezza e seconda giornata di votazioni, se a cadere sarà la foglia di una conferma del presidente uscente di centrodestra della regione, il meloniano Francesco Acquaroli, rimasto in testa nei sondaggi regolari, superato solo da uno irregolare, fuori tempo, smentito anche dall’istituto cui era stato attribuito. O cadrà invece la foglia non tanto del concorrente del cosiddetto centrosinistra Matteo Ricci, europarlamentare e già sindaco di Pesaro, partito in svantaggio anche per una inchiesta giudiziaria dal solito, lungo percorso, quanto dei dirigenti nazionali del suo partito, il Pd. Che hanno pubblicamente sognato prima la sconfitta di Acquaroli e poi la conseguente esplosione del centrodestra a livello nazionale per una reazione “fallosa” della Meloni prevista o auspicata in particolare dal capogruppo de Pd al Senato Francesco Boccia. Che si aspetta, in particolare, da una premier sconfitta la rivendicazione di un suo candidato alle successive elezioni regionali in Veneto. Dove i leghisti reclamano la successione al loro governatore uscente Luca Zaia, impossibilitato a correre personalmente dal divieto legislativo del terzo mandato.

“Io conosco Meloni. Farà il fallo di reazione -ha detto testualmente Francesco Boccia- chiedendo a Salvini la guida del Veneto. Gielo toglierà. A quel punto si sfasceranno” anche a livello nazionale, ha scommesso il dirigente del Pd con l’aria della ragazza della fiaba che porta la ricotta al mercato immaginando la catena dei guadagni che potrebbe ricavarne. E finendo, notoriamente, col perdere la ricotta prima ancora di poterla vendere. 

D’altronde, lo stesso Boccia fantasticando nei corridoi del Senato con un giornalista del Foglio che pendeva appunti è un po’ tornato da solo con i piedi per terra dicendo che, per quanto sia brava Elly Schlein a Roma e Matteo Ricci sul posto, la partita della sinistra nelle Marche si gioca “fuori casa”. E se dovesse essere persa dal suo Pd non produrrebbe sfasci interni, ma solo “un momento di confronto senza drammi”, trattandosi di “un grande partito” fornito di “tutti gli strumenti” necessari per preservare “l’unità”: non solo quella di carta alla quale sono ancora intestate le feste annuali.

Siamo insomma al famoso ottimismo della ragione che prevaleva sul pessimismo della ragione già nel pensiero di Antonio Gramsci, fondatore dell’Unità, al maiuscolo.  

La democrazia onuana, persino sfacciata nel suo fallimento

         Si definisce di solito “onuano” ciò che accade o si riferisce all’Onu, acronimo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con tutte le maiuscole al loro posto, per carità. Unite nominalmente, in realtà attualmente divise come mai lo sono state in passato.  

         La democrazia -ripeto- onuana è quella vista in diretta o in differita dai telespettatori di tutto il mondo con lo svuotamento dell’aula del Palazzo di Vetro, a New York, mentre saliva al podio, negli orari e nei modi assegnatigli, il premier israeliano Netanyahu. Al quale numerose delegazioni hanno girato le spalle uscendo, in una fila impressionante quantitativamente e qualitativamente.

         Se la guerra che Israele sta conducendo a Gaza contro i terroristi palestinesi dopo il pogrom del 7 ottobre 2023 è “sproporzionata”, anche secondo il governo italiano, che tuttavia non si è unito agli alleati che hanno adottato come reazione il riconoscimento del fantomatico Stato della Palestina, altrettanto sproporzionata credo si possa definire la protesta all’Onu. Rifiutando l’ascolto, che è la prima regola, il presupposto -direi- di una democrazia. O, più semplicemente, di una convivenza civile.

         Con quella forma di protesta, intrinsecamente violenta come le piazze devastate lunedì scorso in Italia dai dimostranti filopalestinesi, l’assemblea dell’Onu ha confermato il suo fallimento. Semplicemente e drammaticamente.  

Il solito, continuo processo politico e mediatico a Giorgia Meloni

         Poco importa con quanta consapevolezza Walter Veltroni nella sua veste di editorialista del Corriere della Sera, ma pur sempre rappresentando anche la parte politica vissuta come uomo di partito e di governo, ha esorcizzato la deriva politica, appunto, dell’Italia lamentando solo quella americana con Trump alla Casa Bianca. Che ha portato gli Stati Uniti ad un “bivio”, probabilmente già superato in senso e modo naturalmente negativo, torcendo la democrazia con l’odio. Che Trump ha rivendicato il merito di sentire e praticare nei riguardi degli avversari anche nella celebrazione dell’attivista Charlie Kirk.

         L’unico riferimento di Veltroni alle cose, diciamo così, di casa nostra è alla mancata celebrazione in Parlamento, diversamente da quanto è accaduto con Kirk, dell’assassinio in America -a suo tempo-  della deputata Melissa Hortman e di altre violenze subite da esponenti della parte democratica, intesa come omonimo partito. Mancata celebrazione -mi permetto di rilevare- per un difetto d’iniziativa del Pd, assunta invece nel Parlamento italiano dal partito di maggioranza relativa, che è quello meloniano dei “fratelli d’Italia”.

         Piuttosto che ricordare Melissa Hortman o solidarizzare con Nency Pelosi quando fu aggredito il marito in casa, le opposizioni in Italia, a cominciare da quella di sinistra, preferiscono esibirsi anche muscolarmente da qualche anno contro il governo di centrodestra e la sua leader, contestando loro di tutto. Anche di avere vinto le elezioni nel 2022 sulla carta, rappresentando in realtà un terzo dell’elettorato, al netto degli elettori rimasti a casa.

         Ora poi, anche dopo che immagini e simili della Meloni vengono bruciate nelle piazze o rappresentate con la testa in giù, appesa ad una forca metaforica, si contesta alla premier il diritto, l’opportunità e quant’altro di lamentarsene. Le sue proteste sarebbero solo occasioni di alimentare durezza, a dir poco, in quello che la buonanima di Aldo Moro chiamava “confronto”, intestandogli anche una sua agenzia di stampa e una corrente nella Democrazia Cristiana.

         La Meloni, contestata fra  tutti i salotti televisivi in modo particolarmente  assiduo e scientifico, direi, in quello della Lilli Gruber su La 7, dovrebbe per stile e senso di responsabilità come presidente del Consiglio porgere l’altra guancia allo schiaffo di turno. E magari scusarsi per essere salita politicamente così in alto. E pure per alzare troppo la voce nei discorsi parlamentari e nei comizi, scadendo in quell’accento borgataro romano che non più tardi di ieri sera ho sentito contestarle, proprio nello studio televisivo della Gruber, dal novantenne Corrado Augias, compiaciuto del “saggio”, elegante”, “colto” che si procura. Ieri sera, ripeto, in qualche modo anche da Italo Bocchino, chiamato o ammesso dalla Gruber a prendere le difese della premier assente.

Dietro quel grappolo di grazie annunciate da Sergio Mattarella

Considerate una per una, le quattro grazie appena concesse dal presidente della Repubblica hanno risolto altrettanti casi personali di condannati in condizioni particolarmente difficili e penose. Condanne anche controverse emesse tra polemiche durissime in sede politica e mediatica, in un disagio avvertito anche dai magistrati che le avevano promosse ed emesse.

         Particolarmente clamorosa fu la condanna di Gabriele Filotello, oggi trentenne, che nel 2021 uccise il padre per difendere la madre delle sue violenze. O della guardia giurata Massino Zen, di 54 anni, che uccise dieci anni fa un ladro in fuga procurandosi la solidarietà pubblica di politici anche di primo piano. O di Patia Altanà, di 53 anni, autrice di furti ed estorsioni fra il 2012 e il 2016 e ridotta in precarie condizioni di salute. O di Acuta Strimbu, di 39 anni, autrice anch’essa di estorsioni, e in più di violazione delle norme di disciplina degli stupefacenti.

         Qui finisce il racconto sommario dei singoli casi, ripeto, risolti dall’intervento del Capo dello Stato nell’esercizio insindacabile delle sue funzioni, comunque sempre al riparo dei pareri favorevoli dei magistrati di sorveglianza e delle parti lese. E comincia una riflessione che mi sembra quanto meno opportuna, se non doverosa, sulle circostanze e modalità delle decisioni di Sergio Mattarella, prese simultaneamente controcorrente rispetto al clima politico e sociale in cui viviamo. Un clima di intolleranza e violenza che attraversa le piazze e persino le aule parlamentari, non so se le une più condizionate dalle altre, o viceversa. Un clima nel quale il problema dell’affollamento delle carceri viene risolto praticamente ignorandolo. E opponendo la cosiddetta certezza della pena alla impossibilità frequente di garantirne una decente applicazione.

         Non parliamo poi delle guerre, quelle vere in mezzo alle quali viviamo ormai da troppo tempo -nonostante la convinzione del presidente americano Donald Trump di averne risolte almeno sette da quando è tornato alla Casa Bianca- nel rischio di abituarvici. O di opporvi solo manifestazioni unilaterali di protesta o solidarietà che per ciò stesso, cioè per la loro parzialità, ne aumentano i danni e compromettono la fine. Guerre come quella, certo, a Gaza e dintorni ma anche in Ucraina.

A proposito di quest’ultima, le cui responsabilità risalgono incontrovertibilmente alla Russia di Putin, che la cominciò chiamandola “operazione speciale” di “denazificazione” del paese limitrofo, Mattarella non può parlare, come fa invece dal primo momento, senza finire in Italia e nella stessa Russia nell’elenco dei guerrafondai. Degli emuli di Hitler.

         In questo clima allucinante, a dir poco, adottare grazie al Quirinale e parlarne fuori può apparire un felice ossimoro. Anzi, felicissimo.

Pubblicato sul Dubbio

Nicolas Sarkozy condannato a Parigi, ma per la colpa minore….

         Il dimenticato e un po’ invecchiato Nicolas Sarkozy, accompagnato dalla moglie ma non dal solito sorriso sarcastico di sfida all’antipatico di turno, come fu una volta anche l’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, è tornato sulle prime pagine di parecchi, non tutti i giornali per via della condanna a 5 anni di carcere subita a Parigi per associazione a delinquere. Carcere dove -ha detto- se vi finirà davvero, com’è probabile, l’ex presidente della Repubblica francese dormirà “a testa alta”, come neppure all’Eliseo riusciva a fare sempre.

         La condanna, riferibile in particolare ai finanziamenti libici ricevuti per la sua attività politica, ha colpito Sarkozy per una colpa, storicamente e politicamente parlando, minore rispetto a quella per la quale non sarà mai processato. Almeno in tribunale.

         La colpa vera, o maggiore, di Sarkozy fu quella non di avere preso soldi da Gheddafi ma di avergli fatto poi la guerra, trascinandosi appresso anche l’Italia di Berlusconi, provocandone la caduta e la morte. Dopo la quale la Libia divenne, e permane, una terra destabilizzata e, ancor più, destabilizzante.

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