Le opposizioni fuggono a gambe levate dalla realtà che non gradiscono

Negli spazi televisivi scampati, diciamo così, ad una monumentalizzazione di Pippo Baudo così ridondante da non piacere- credo- all’interessato che la sta osservando da lassù, stropicciavo gli occhi a vedere le immagini provenienti dalla Casa Bianca. Dove, nel vertice euro americano sull’Ucraina seguito al suo incontro in Alaska con Putin, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha voluto alla sua sinistra la premier italiana Giorgia Meloni.  “Grande leader e fonte di ispirazione”, ha detto Trump quasi spiegando la ragione della sua scelta. Ne ha poi apprezzato con una mimica inequivocabile la proposta ribadita di garantire la sicurezza dell’Ucraina, violata da Putin con la sua invasione chiamata eufemisticamente operazione speciale, attraverso un congegno politico e militare riconducibile al famoso articolo 5 del trattato dell’alleanza atlantica. Sì, proprio quella: la Nato, alla quale Putin è riuscito ad impedire l’adesione dell’Ucraina ma non potrà probabilmente impedire di garantirle la sicurezza nei confini e nelle dimensioni che usciranno dalle trattative per la pace.

         La Meloni seduta e dialogante alla sinistra di Trump, col presidente ucraino Zelensky di fronte, il presidente francese Macron alla destra di quello americano e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a un’estremità del tavolo, quasi come in una curva allo stadio, è stato per me uno spettacolo eccezionale. Eppure, scusatemi della immodestia, ne ho visto di cose, e vissute di esperienze, in 65 anni di mestiere, cominciati con la cronaca nera e il giro degli ospedali, continuata con la cronaca bianca, quella del Campidoglio, e poi con la cronaca politica, la frequentazione di leader di ogni colore. E con avventure professionali come la partecipazione alla fondazione del Giornale di Indro Montanelli, la direzione del primo telegiornale privato, che fu quello di Rete 4 chiamato Dentro la notizia traducendo in italiano una trasmissione americana di notizie di cui si era innamorato Silvio Berlusconi seguendola da spettatore in un soggiorno di studio oltre Oceano, e di un giornale pubblico come era ancora in quei tempi Il Giorno, voluto dal mitico Enrico Mattei.

         Ne ho viste, sentite e vissute -ripeto- di tutti i colori e di tutti i suoni. Ho visto la Dc di Amintore Fanfani perdere il referendum sul divorzio e imboccare, con quella sconfitta, la strada di un declino solo rallentato dall’aiuto fornitole da Montanelli invitando a votarla “col naso turato”. Ho visto catapultato, o quasi, uno storico e giornalista, Giovanni Spadolini, dalla direzione  del Corriere della Sera sottrattagli sorprendentemente  dall’editrice Giulia Maria Crespialla prima guida non democristiana del governo nella storia della Repubblica. Ho visto succedergli alla guida del governo il primo socialista, sempre nella storia della Repubblica, Bettino Craxi con un altro socialista quasi regnante al Quirinale, Sandro Pertini. Una combinazione che la Dc visse come una maledizione non accorgendosi che serviva, anch’essa come il voto a naso turato di Montanelli, ad allontanarne la fine, sopraggiunta con Tangentopoli, annessi e connessi.

         Ho visto crollare il comunismo col muro di Berlino e i comunisti italiani cercare di salvarsi cambiando nome e simbolo al loro partito. E scoprendosi battuti nelle elezioni politiche del 1994 da Silvio Berlusconi, il migliore amico di quel Craxi di cui erano riusciti a liberarsi con l’aiuto della magistratura.

         Potrei ancora continuare ed esaurire lo spazio senza arrivare alla conclusione. Che è di non avere mai immaginato di vedere quella Meloni dell’altra sera (ora italiana) alla Casa Bianca, con tutto ciò che la sua postazione e il suo intervento hanno significato e significano. Anche in Italia, dove vale, per le opposizioni sempre rosicanti la massima ricavata dal latino su Dio che accieca chi vuole perdere. “Quem Juppiter vult perdere dementat prius”, in originale.

Pubblicato su Libero

Giorgia Meloni ormai di casa…alla Casa Bianca di Trump

         Pur rimpicciolita dalle dimensioni dell’auto da cui era scesa e della guardia presidenziale che le aveva sorretto la portiera sulla soglia della Casa Bianca, la premier Giorgia Meloni ha fatto la sua figura nel vertice euro-americano svoltosi con la partecipazione del presidente ucraino Zelensky, precedentemente incontratosi sia con i rappresentanti europei sia col presidente degli Stati Uniti.

         Il rapporto amichevole e dichiaratamente “speciale” con Trump, tradotto in Italia dalle opposizioni rosiconi in una subordinazione umiliante, e persino pericolosa per l’Unione europea, non ha impedito alla Meloni di partecipare agli stimoli pro-Ucraina avvertite ed espressi, rispettivamente, dopo l’incontro del presidente americano in Alaska con Putin. E il massimo di voti datosi dall’uno e dall’altro pur in mancanza di un accordo. O di un accordo esplicito, a meno di accordi segreti e per ciò stesso sospetti o persino inquietanti perché inevitabilmente sopra la testa sia dell’Ucraina sia degli europei che la sostengono più degli americani, o del loro presidente. Che pure- -va detto- non ha potuto o voluto sottrarsi al gesto significativo di consegnare in Alaska una lettera di sua moglie Melania a Putin su un aspetto fra i più disumani della guerra, o “operazione speciale”, della Russia contro l’Ucraina sequestrando e deportando bambini. Sino a incorrere in una precisa accusa e sanzione pur declamatoria della Corte Penale Internazionale dell’Aja, come è accaduto al premier israeliano per la guerra a Gaza pur provocata dai terroristi palestinesi col pogrom del 7 ottobre di due anni fa.

         Alla Casa Bianca Trump ha riservato non certamente a caso il primo posto alla sua sinistra, nel vertice, proprio alla Meloni, e alla sua destra al presidente francese Emmanuel Macron. E della Meloni, presentata come “grande leader e fonte di ispirazione”, ha condiviso con cenni del capo la riproposizione di una garanzia di sicurezza all’Ucraina attraverso il ricorso e l’applicazione del famoso articolo 5 del trattato della Nato notoriamente ostica a Putin. Può diventare realistico proprio attraverso questo che non può essere considerato un espediente, per le forze politiche e militari che ne sono coinvolte, a cominciare dagli Stati Uniti, il superamento definitivo delle resistenze di Zelensky ad una trattativa trilaterale per la pace pur in assenza di una tregua rifiutata da Putin. E riproposta con forza da Macron alla Casa Bianca.

         Negare alla Meloni, come già avverto nell’aria mediatica e politica, l’importanza del ruolo svolto in una Casa Bianca che le è ormai….di casa, non è solo una pratica di opposizione preconcetta. E’ semplicemente, più gravemente, una notizia falsa.

Quella nostalgia democristiana di Pippo Baudo

Gli indizi, chiamiamoli così, erano già tanti, ma il senatore quasi a vita Pier Ferdinando Casini, il più democristiano di certo fra gli ospiti nelle liste elettorali del Pd, ha voluto testimoniarlo. Pippo Baudo, l’appena scomparso “Re della Tv” per riconoscimento generale, anche nella formula sarcastica di “Sua Puppità” affibbiatagli da Marco Travaglio sul Fatto quotidiano”, è rimasto democristiano sino alla fine.

         “Due anni fa -ha raccontato Casini ai giornali dell’amico Andrea Riffeser Monti- mi telefonò per dirmi: bisogna rifare la Democrazia Cristiana. Timidamente argomentai che mi sembrava impossibile, che i tempi erano passati. Per vigliaccheria alla fine gli dissi. Vediamoci e parliamone. Volevo buttare la palla avanti. Ma mi colpì la sua determinazione”. Vigliaccheria, l’ha chiamata Casini. Ma fu più generosità, per ridurre il peso dei rimpianti, delle delusioni, e non solo dei successi fra i quali Baudo ha trascorso i suoi ultimi anni. E dei quali la Rai ha ritenuto forse di scusarsi a morte avvenuta, celebrandolo su tutte le sue reti come a nessun altro, credo, sia mai accaduto. O accadrà di nuovo.

         Richiesto praticamente delle ragioni per le quali, viste la stima, l’amicizia e le affinità politiche appena vantate, non avesse mai offerto una candidatura parlamentare a Pippo Baudo quando poteva farlo disponendo di partiti e di liste, prima di accasarsi in qualche modo nel Pd, Casini ha risposto che in effetti “mai” gli aveva offerto ospitalità politica. “Né mai lo avrei fatto- ha aggiunto- perché lo avrei ritenuto inappropriato. I monumenti vanno rispettati”.

         Anche Fabio Fazio, sul versante televisivo e artistico, ha monumentalizzato  Pippo Baudo, sino ad avvertirne la mancanza adesso come se gli fosse crollato davanti “il Colosseo”. Non so se facendo più torto all’uno o all’altro. Il troppo, si sa, stroppia.

         Il ricordo della democristianità di Pippo Baudo è stato condiviso e al tempo stesso rilanciato sulla Stampa da Marco Follini evocando l’infelice esperienza vissuta da consigliere di amministrazione della Rai, per conto della Dc, quando un duro attacco rivolto all’artista e conduttore dal presidente socialista dell’azienda, Enrico Manca, creò le condizioni dell’”allontanamento” di Pippo Baudo. Che fu catturato da Silvio Berlusconi per la sua televisione commerciale come direttore artistico. Un ruolo però che Baudo non riuscì a svolgere per le resistenze dei cosiddetti colleghi del Biscione. Vi rinuncio abbastanza rapidamente,  e costosamente, non volendo aspettare i tempi di ambientamento e di convincimento invocati dall’editore. Un democristiano insomma, Pippo Baudo, di una risolutezza sottovalutata da un Berlusconi – “Sua emittenza”, come era chiamato indistintamente da avversari e amici- che riteneva di essere ineguagliabile nel giudizio sugli altri, e nella scoperta dei talenti.  Adesso avranno cose da dirsi quei due nel più misterioso degli spazi.

Pubblicato sul Dubbio

I palinsesti televisivi della Rai…sequestrati da Pippo Baudo

         I palinsesti della Rai sono stati inconsapevolmente sequestrati da Pippo Baudo, celebrato in morte su tutte le reti pubbliche con un sottinteso di pentimento, credo, per la solitudine alla quale era stato abbandonato in vita, prima ancora che le condizioni di salute lo avessero imprigionato.

Uno come Pippo Baudo, che Emilio Giannelli nella bellissima vignetta di prima pagina del Corriere della Sera ha messo oggi in groppa al cavallo della Rai per il suo ultimo viaggio, non lo si lascia invecchiare senza un ruolo, fosse anche simbolico, in un’azienda che aveva ricevuto da lui più di quanto non gli avesse dato.

         Marco Follini, militante, dirigente e infine storico della Democrazia Cristiana, ha voluto ricordare sulla Stampa l’esperienza amara, credo, vissuta da consigliere d’amministrazione della Rai quando Baudo di fatto “ne venne allontanato” perché “si era scontrato col presidente Manca”. Enrico Manca, socialista, ma non proprio di tendenza craxiana, avendo partecipato con Francesco De Martino, il predecessore di Bettino Craxi come segretario del Psi  alla riduzione del partito a forza subalterna al Pci, annunciando per esempio, sino a provocare le elezioni anticipate del 1976, che mai più i socialisti avrebbero partecipato a governi con la Dc senza l’appoggio dei comunisti. Eppure la Dc era ancora quella di Aldo Moro, presidente del Consiglio in quei tempi.

         Il povero Baudo, liquidato da Manca come “nazionalpopolare”, pur dopo un simile “allontanamento” -ripeto l’espressione di Follini- dalla Rai non trovò nelle televisioni di Silvio Berlusconi le condizioni per svolgere le funzioni di direttore artistico conferitegli dall’editore. E preferì allontanarsene subito e spontaneamente, piuttosto che farsi logorare dalle resistenze e dalle invidie dei colleghi cosiddetti artisti. E lo fece senza intentare cause che avrebbe probabilmente vinto, rimettendoci una ventina di milioni di euro, quanto lui stesso valutò il danno parlandone con distacco nel 2005.

         “Sua Pippità”, come oggi lo lascia sfottere Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, lasciò di stucco con quel gesto di dignitosa insofferenza e protesta “Sua Emittenza” Silvio Berlusconi, come il Cavaliere di Arcore veniva chiamato da avversari, critici ed anche qualche amico spiritoso. Chissà se Pippo Baudo avrà modo di incontrarlo nell’aldilà, e di riceverne le scuse, prima ancora del benvenuto.

Ripreso da http://www.startmag.it il 23 agosto 

Il balenotto Pippo Baudo, di tendenza e amicizia andreottiana

Al pur bravissimo, inesauribile, poliedrico Pippo Baudo, “una persona gentile -ha scritto di lui Walter Veltroni, che di tv capisce forse ben più di politica che pure gli ha dato molto, ma non tutto quello che meritava, francamente- che entrava nelle case senza far rumore, che sapeva fare televisione e spettacolo senza gridare”, non è riuscito ciò che fu possibile invece nel cinema a Greta Garbo e lo è tuttora, per la televisione e la canzone, a Mina. Che a 85 anni di età, quattro in meno di quanti ne avesse compiuti il mio amico Pippo il 7 giugno scorso, riesce a incuriosire e piacere al pubblico per la bravura con la quale gestisce il suo ritiro, non solo la sua vecchiaia. 

         Il ritiro dalla scena è stato vissuto da Pippo con sofferenza, anche fisica. Walter Veltroni, sempre lui, ha raccontato sul Corriere della Sera di aver sentito dire qualche anno fa a Pippo, da lui richiesto come vedesse il futuro: “Domanda difficilissima che, fortunatamente, non mi pongo perché, guardando l’età, guardando il calendario e i giorni che passano, dico: che succede? Quando arriva?”. E Walter ha concluso con una sofferenza partecipe e liberatoria insieme, con sapienza di scrittore e di giornalista restituitoci dal Pd: E’ arrivata, purtroppo”.

         A proposito della politica, Baudo non è stato certo un agnostico: uno tutto spettacolo, studio televisivo, teatro, musica, scherzo, divertimento. E’ stato un figlio, diciamo così, della balena bianca, cioè della Democrazia Cristiana, con le sue correnti più o meno stabili. Alle quali capitava che anche uomini dello spettacolo, e non solo giornalisti, venissero iscritti d’ufficio da esperti veri o presunti di quel partito. Per qualche tempo Pippo si trovò attribuito alla corrente di Ciriaco De Mita, che ad un certo punto consigliò all’amico e potente Biagio Agnes, sopra al cavallo di viale Mazzini, di farla finita con un certo ostracismo al ritorno di Baudo, che aveva abbandonato la Rai per lasciarsi assumere come direttore artistico da Silvio Berlusconi. Il quale però non riuscì a imporlo, o a farlo ingoiare nel Biscione, da cui Pippo uscì anche a costo di rimetterci, per penali e simili, un palazzo che possedeva a Roma, in viale Aventino, a due passi dal centro di produzione Fininvest del Palatino.  Un danno poi calcolato da Baudo attorno ad una ventina di milioni di euro.

         Classificato in senso spregiativo come “nazional-popolare” dal presidente socialista della Rai Enrico Manca, che non gli perdonava di aver lasciato attaccare in una sua trasmissione i socialisti da Beppe Grillo come ladri,  a cominciare da Bettino Craxi, il povero Baudo -che, vi assicuro, personalmente apprezzava il leader del Psi- si fece un po’ tentare dalla politica solo una volta, corteggiato dagli amici di Giulio Andreotti che, a Dc bella che sciolta e sepolta, volevano allestire per un turno elettorale non ricordo più di quale livello, regionale o nazionale, una lista  di sapore terzopolista nella seconda Repubblica bipolare. Lo stesso Baudo mi confidò che, accertatosi personalmente di una certa freddezza di Andreotti per quella iniziativa, che pure gli veniva intestata da cronisti e retroscenisti di prima, seconda e terza fila, si risparmiò. E così rimase andreottiano davvero, come io penso che sia sempre stato fra i balenotti. Siciliano di nascita e andreottiano di spirito, direi. Dell’Andreotti noto per la sua convinzione che a pensare male si faccia peccato ma s’indovini con una certa frequenza. O che il potere logori chi non ce l’ha. O, quasi di conseguenza, che sia meglio tirare a campare che tirare le cuoia.

         La sicilianità o insulirità, diciamo così, irriducibile di Pippo deve avere contribuito a farlo apprezzare in modo particolare dal presidente, sicilianissimo, della Repubblica Sergio Mattarella, che si è detto addolorato della morte di “un protagonista e innovatore della televisione”, capace per professionalità, cultura e garbo di “interpretare i gusti e le aspettative dei telespettatori italiani”. E’ vero.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 30 agosto

In morte di Pippo Baudo, incoronato Re della Tv… pubblica

         In morte a 89 anni compiuti il 7 giugno scorso, spentosi all’ora giusta perché l’annuncio terremotasse le prime pagine dei giornali per lasciargli lo spazio dovuto, all’altezza della sua meritata popolarità, Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo, Pippo per gli amici e per il pubblico che lo ha applaudito per una vita, è stato incoronato “Re della Tv”. In particolare, però, della Tv pubblica, della Rai, perché quando arrivò in quella commerciale, portato da Silvio Berlusconi in persona, lui non riuscì a superare resistenze, diffidenze, ostilità vere e proprie dei suoi colleghi, alla direzione dei quali l’editore lo aveva destinato in cuor suo.

         Colpito nell’orgoglio, che aveva e produceva in abbondanza senza bisogno di aiutarsi con qualche medicina, Pippo lasciò il Biscione, anche a costo di pagare una penale pari al valore di un palazzo che aveva all’Ostiense, a Roma, ad un Berlusconi esterrefatto. Che in vita sua, contrassegnata da tanti successi, oltre che guai giudiziari, ha mancato due soli obiettivi: il Quirinale e Pippo Baudo, appunto, alla direzione artistica della sua televisione.

         Quel passaggio, pur breve e sfortunato nella Tv commerciale, costò carissimo a Baudo anche per la fatica che dovette compiere per tornare alla Rai, che pure era destinata a trarne grandi vantaggi nella competizione artistica e commerciale. Quel pur simpatico testone di Biagio Agnes si mise a creagli problemi sino a quando non cedette agli umori e alle simpatie di Ciriaco  De Mita, il Re a suo modo della Dc in quegli anni. Tutto avvenne entro le mura di Roma, senza avventurarsi in Alaska, di attualità in questi giorni, diciamo così.

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La partita un pò (troppo) truccata di Trump e Putin in Alaska

         Tutto bene per Trump e Putin, ma solo per loro, anche il giorno dopo l’incontro in Alaska, dove si sono dati entrambi il massimo dei voti senza potere tuttavia annunciare un accordo, almeno nel senso comune, abitudinario, razionale di questa parola.

A meno che, come ha sospettato o intuito Maurizio Molinari parlandone in onda su la 7, senza lasciarsi distrarre dalle esegesi sulla parte mancante del tappeto rosso sotto le scarpe di Putin sceso dall’aereo russo; a meno che, dicevo, l’accordo appartenga alla cosiddetta diplomazia segreta Un accordo così poco conveniente all’Ucraina da più di tre anni e mezzo sotto il fuoco russo e ai paesi europei che la continuano a sostenere davvero, da non poter essere rivelato. O rivelato ancora, dovendosi fare evidentemente un duro, sotterrano lavoro ai fianchi di Zelensky e dei suoi perduranti alleati per convertirli. O piegarli con la forza e la logica del fatto compiuto. O della realtà del resto già ricordata, o rinfacciata, da Trump a Zelensky nella telefonata che si sono scambiati prima ancora di potersi vedere, delle dimensioni della Russia rispetto all’Ucraina. Che potrebbe pure rassegnarsi a perdere circa un quarto del suo territorio già occupato, conquistato e quant’altro pur non interamente dai russi e dai coreani che li hanno affiancati nella “operazione speciale” per la “denazificazione” dell’Ucraina.

Dell’accordo o della parte dell’accordo più segreta potrebbe far parte, sempre per l’ex direttore di Repubblica e della Stampa, che ha ora più tempo a disposizione per occuparsi della sua specialità, che è la geopolitica, la presenza nell’Ucraina non amputata di un contingente militare europeo, non delle ormai fantomatiche Nazioni Unite, garantito anche dagli americani attraverso la Nato.  Alla quale tuttavia l’Ucraina debitamente demilitarizzata, con un esercito cioè ridotto, potrebbe non più aspirare a partecipare. Potrebbe invece, con una pratica dl resto già avviata, all’Unione europea contrastata sinora soprattutto dall’Ungheria del filoputiniano Orban. Su cui lo stesso Putin potrebbe magari intervenire al tempo debito per chiedergli di non rompere più le scatole. Di non esagerare insomma, come già raccomandava ai suoi tempi a dipendenti e amici della Francia il cardinale Charles Maurice de Talleyrand-Perigord.

L’amarcord comunista di Chicco Testa e Claudio Velardi

Con tutto il caldo che fa, e giustamente per la stagione in cui ci troviamo, pur frammisto capricciosamente a piogge e grandinate, mi tolgo il cappello di paglia di ordinanza davanti a Chicco Testa e Claudio Velardi, nell’ordine assegnato loro dall’anagrafe, per l’amarcord della loro gioventù comunista che offrono da tempo scrivendosi sul Riformista. Una corrispondenza piacevolissima, che vedrei ben raccolta in un libro sul romanticismo comunista.

Il bergamasco Chicco Testa, 73 anni, che si autodefinisce “dirigente d’azienda, ex politico”, con una passione e una competenza d’ambiente e d’energia davvero eccezionale, e una scrittura fluente che manderebbe in brodo di giuggiole Indro Montanelli, ha una memoria inesauribile della sezione milanese del Pci intestata a Carlo Marx alla quale si iscrisse nel 1972. Un po’ perché “sotto casa” e un po’, forse ancora di più, per averla scoperta frequentata da “gente normale”. Che andava a letto presto perché la mattina dopo doveva alzarsi di buon’ora per andare a lavorare. E non alle manifestazioni post-sessantottine peggiori di quelle d’origine.

Il napoletano Claudio Velardi, 70 anni, ha una memoria altrettanto inesauribile della sua sezione, rigorosamente di Napoli, che tradiva già dal nome -1° maggio, festa del lavoro- “una certa propensione -ha scritto lui stesso- più al riposo che all’attivismo spinto”.  

         Diavolo di un simpaticamente, imprevedibilmente  rompiscatole, Velardi si è guadagnato via via, nella sua adolescenza, nella sua giovinezza, nella sua maturità e ora nella sua anticamera alla vecchiaia lo stupore, l’interesse, persino l’arruolamento e alla fine il disappunto, la delusione e il sarcasmo di uomini alquanto duri di esperienza o militanza. Compreso o a cominciare da Massimo D’Alema, 76 anni, che se lo portò appresso anche a Palazzo Chigi nell’unico passaggio di un comunista, pur a denominazione ormai cambiata del partito, nella sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Spintovi da un altro uomo imprevedibile, forse il più imprevedibile della politica italiana, che fu Francesco Cossiga prima di arrivare al Quirinale, rimanendovi per quasi tutta la durata del mandato e poi trasferendosi a Palazzo Madama come senatore di diritto, avendo peraltro già presieduto il Senato da parlamentare eletto.

         In particolare, Cossiga da presidente emerito della Repubblica improvvisò un partito e relativi gruppi parlamentari, prelevandoli in maggior parte dal centrodestra di Silvio Berlusconi, per mandare a Palazzo Chigi appunto D’Alema, al posto di Romano Prodi che, caduto col suo primo governo, avrebbe voluto strappare a Oscar Luigi Scalfaro le elezioni anticipate, propedeutiche ad un altro suo governo non più condizionato dalla sinistra “parolaia” di Fausto Bertinotti, come la chiamava impietosamente il carissimo Giampaolo Pansa.

         Cossiga s’inventò D’Alema presidente del Consiglio, con Velardi al seguito, scorgendo in lui l’unico uomo della sinistra capace di fare partecipare l’Italia all’operazione militare della Nato, chiamiamola pure guerra, nella Iugoslavia smembratasi alla morte di Tito. Ma fra i risultati indiretti di quella sponsorizzazione di D’Alema ci fu anche quello, diavolo di un Cossiga, di dare al centrosinistra della cosiddetta seconda Repubblica bipolare, nata con la vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994, un assetto di instabilità quasi assoluta.

         Velardi, per tornare a lui e alla sua sezione comunista napoletana 1° maggio, dove non poteva neppure immaginare sin dove sarebbe arrivato,  pose in un’assemblea di iscritti onorata dalla presenza di un poi esterrefatto senatore Carlo Fermariello, che per poco non gli svenne accanto, il problema della “proletarizzazione della classe media”. Un problema eretico per i comunisti di quei tempi, ma destinato ad essere realizzato dalla sinistra dichiaratamente post comunista con i governi e le politiche condotte negli ultimi vent’anni, quando le è capitato di alternarsi al centrodestra o di partecipare ad esperienze tecniche ed emergenziali come furono quelle di Lamberto Dini, di Mario Monti e di Mario Draghi.

         Il problema – il dannato problema- del ceto medio proletarizzato, con stipendi e pensioni falcidiate dall’inflazione e simili, è stato ereditato non creato, come vorrebbe il solito racconto tossico delle opposizioni, dal governo in carica. Un problema impostato con quella inconsapevole, ripeto, eresia di Velardi. Che temo abbia perso via via i capelli, simpaticamente come al solito, vedendolo realizzare dai suoi amici e compagni.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 23 agosto

I consigli (non) richiesti di Pier Ferdinando Casini a Elly Schlein

         Con i suoi 42 anni ininterrotti vissuti fra Camera e Senato, dei 70 che compirà a dicembre, fra 4 mesi e mezzo, il mio amico Pier Ferdinando Casini può ben essere considerato il veterano del Parlamento. Il veterano forse più giovane o meno anziano, in un gioco di ossimori perfettamente compatibile con la politica.

         Democristiano sino al midollo pur con la Dc sciolta telegraficamente dall’ultimo segretario Mino Martinazzoli, rimproverato per questo persino da Umberto Bossi, che ne avrebbe ereditato con la Lega buona parte dell’elettorato al Nord, lasciandone le briciole alla Forza Italia di Silvio Berlusconi, il buon Casini ha mancato per poco, almeno in una occasione, l’obbiettivo del Quirinale.  Cui si era trovato candidato quasi inconsapevolmente, col solo precedente della presidenza della Camera, senza passaggio alcuno di governo, né come ministro né come segretario dei tanti alla nascita dei quali aveva pure contribuito sin dalla cosiddetta prima Repubblica.

         Come una volta si disse di Mario Monti arrivato a Palazzo Chigi, che fosse stato il genero ideale delle mamme tedesche per il credito guadagnatosi come commissario europeo designato dall’Italia sia di destra sia di sinistra, di Pier Ferdinando Casini si può dire che sia stato, e forse sia ancora, a quasi 70 anni di età e con più esperienze matrimomali, il genero ideale delle mamme italiane. Non gli manca di certo la simpatia, che sola può spiegare, senza le analisi politiche che forse lui preferirebbe, la capacità avuta di crearsi a Bologna e dintorni un elettorato personale che lo segue dappertutto, ovunque egli decida di chiedere o sentirsi offrire ospitalità, anche nel Pd di Matto Renzi, e poi di Enrico Letta e ora di Elly Schlein. Alla quale egli ha appena detto, in una lunga intervista ferragostana al Corriere della Sera, senza timore -credo- di rendersi irriducibilmente antipatico, se non menagramo, che non versa in buone condizioni di salute politica.

         In particolare, chiesto di quante possibilità ritenga di poter dare agli aspiranti all’alternativa al centrodestra nelle elezioni non più tanto lontane del 2027, Casini ha detto, fra l’analista e il consigliere capace di qualche utile suggerimento, ove fosse gradito: “Al momento poche, se non si cerca qualcosa di convincente”. Al prossimo Ferragosto, fra un anno, egli potrà forse dire di più, sempre che la Schlein rimanga al suo posto e non finisca per arrendersi a Giuseppe Conte prima ancora dell’ultima tappa della corsa alla leadership della coalizione di cosiddetto centro sinistra, o dei progressisti indipendenti, come lo stesso Conte preferisce chiamare quelli che furono i grillini. Indipendenti nel senso di non dipendenti dal Pd, nè alleati organici, come furono democristiani e socialisti nella cosiddetta prima Repubblica.

Trump si promuove da solo, con 10 su 10, dopo tre ore di vertice con Putin

         Tutto bene, sembra fra Trump e Putin dopo tre ore di incontro in Alaska, contro le sette programmate. E l’annuncio di un nuovo vertice, questa volta a Mosca, ha precisato Putin dopo avere accettato un territorio americano per il primo appuntamento.

Tutto bene anche nella prospettiva avanzata da Trump di una partecipazione del presidente ucraino Zelensky ai negoziati alla ricerca della pace- assunta come titolo del primo vertice-  a meno dei soliti dettagli, dove il diavolo preferisce nascondersi. Tali sono i “pochissimi problemi non risolti” ancora, annunciati dallo stesso Trump. Fra i quali si hanno buoni motivi di ritenere che ci sia quello delle garanzie all’Ucraina per la sicurezza, che non sia solo quella di un’Europa che non a caso ha chiesto di essere coinvolta anch’essa in un negoziato che per essere credibile, concreto avrebbe bisogno quanto meno di una tregua sul campo devastato da più di tre anni e mezzo di guerra d’invasione. O di “operazione speciale”, come Putin volle chiamarla facendo mettere in galera chiunque la chiamasse in Russia col suo vero nome di guerra.

         I dieci voti su dieci assegnatisi da solo da Trump in terra americana di Alaska fra sorrisi, strette di mano, occhiate e passi a tratti marziali, come per tradire una vocazione imperiale pari a quella di Putin, appartengono naturalmente più alla propaganda che alla storia, più alla scena che alla trama effettiva, più alle lucciole che alle lanterne.  

         Forse Trump, sorpreso -diciamo così- di recente nei retroscena a informarsi direttamente e personalmente della sua pratica in Norvegia, ha pensato di avere compiuto un passo, dei suoi abbastanza lunghi con questi due metri di altezza che ha, verso il premio Nobel della pace proposto per lui dal governo israeliano in guerra contro i palestinesi terroristi e, paradossalmente, quelli non terroristi che ne sono però ostaggi.  E sono più numerosi, sia vivi che morti, degli altri. Sono le tragedie delle guerre.

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