Gli sminatori italiani in Ucraina annunciati da Antonio Tajani

         Nel rivendicare per l’ennesima volta da quando è alla Farnesina la titolarità, insieme con la premier Giorgia Meloni,  della politica estera contestando le intrusioni del collega leghista alla vice presidenza del Consiglio Matteo Salvini, il buon Antonio Tajani in maniche stagionali di camicia si è lasciata scappare una rivelazione. Uno scoop come ne avrebbe voluto fare quando era solo  un giornalista, prima che Silvio Berlusconi se lo portasse appresso in politica non immaginando forse neppure lui dove avrebbe saputo o voluto spingere. Addirittura alla figura che ogni tanto gli viene attribuita, fra cronache e retroscena, di concorrente forse della stessa Meloni alla Presidenza della Repubblica, quando finirà -fra quattro anni- anche il secondo mandato di Sergio Mattarella “il lungo”, come potrebbe essere chiamato il Capo dello Stato in carica per avere già battuto il primato dei 9 anni raggiunto a suo tempo da Giorgio Napolitano. Anche lui eletto due volte, ma con la riserva, non accettata invece dal suo successore, di accorciare il secondo mandato per stanchezza dichiarata ma opportunità nascosta, conoscendo la smania che spesso intossica la politica.

         Tajani ha rivelato, in particolare, che l’Italia non invierà truppe in Ucraina, a presidiarne con altri la sicurezza a guerra finita, come invece teme Salvini mandando “appeso al tram” il presidente francese Macron, e chiunque alto tentato dalla sua ida e voglia di intervento. L’Italia si limiterà ad offrire -forse l’ha già fatto- la sua competenza, specialità e quant’altro di sminare i territori disseminati di ordigni dagli invasori russi. O dagli stessi ucraini per difendersene scordandosene però la collocazione precisa.

         Il mestiere o la specialità degli sminatori, con la esse   che li distingue da quelli che lavorano sotto terra per ricavarne il necessario a vivere meglio sopra, o peggio come a Gaza con quello che hanno fatto i terroristi di Hamas, è sin troppo nota per avere bisogno di molte parole per spiegarla. Le tecniche moderne, grazie a Dio, hanno moltiplicato vantaggi ed opportunità degli sminatori non più in carne e ossa ma robot, senza tuttavia potere sostituire del tutto gli umani. Ai quali chissà se Salvini riuscirà, al momento opportuno, a concedere la possibilità di accedere senza attaccarli al tram.

Figuratevi se partecipo al rimpianto del Centro sociale Leoncavallo

Al rimpianto di Pippo Baudo si vorrebbe far seguire quello del Centro sociale milanese appena sgomberato e chiamato Leoncavallo dal nome della strada in cui sorse una cinquantina d’anni fa, occupando abusivamente un’area privata con relativa struttura industriale. Una strada intestata al musicista Ruggero Leoncavallo noto anche per il dramma lirico dei Pagliacci, ricavato da un fatto di cronaca nera realmente accaduto in un borgo della Basilicata a fine Ottocento.

         Questo Centro sociale prodotto dalle scorie della contestazione settantottina e del terrrorismo, che ne derivò spesso negli anni di piombo, crebbe anchenel mito da martiri di due militanti -Fausto e Iaio- uccisi in circostanze misteriose il 18 marzo 1978. Un delitto rimasto impunito ma del quale quella comunità ricavò un clima di solidarietà non so ancora, francamente, quanto meritata per la natura tuttora misteriosa di quel delitto, in un ambiente degradato anche dalla droga.

         Pur già noto anche a livello nazionale il mio primo contatto professionale, diciamo così, con quella comunità dichiaratamente alternativa nacque sfogliando nella primavera dl 1989 la posta dei lettori del Giorno, di cui ero stato appena nominato direttore dall’Eni. Lettori tutti indignati, e invocanti aiuto, per le condizioni difficili in cui abitavano in via Leoncavallo e dintorni. Dove non si poteva neppure dormire perché di notte venivano imposti, a volume altissimo, concerti non proprio di musica classica.  Di giorno le cose riuscivano ad andare anche peggio.

         I lettori che scrivevano si firmavano spesso con iniziali o nomi di fantasia, evidentemente per paura di ritorsioni. Alcuni però avevano anche il coraggio di firmarsi, per cui mi fu possibile rintracciarne qualcuno. E farmi accompagnare in qualche sopralluogo. Ne ricavai a prima vista la stessa impressione appena confessata da Vittorio Feltri scrivendone sul Giornale. Di “sfaccendati”, piuttosto che di “creativi”, come qualcuno li definiva già allora e continua ancora a considerarli richiamandosi anche al buon Vittorio Sgarbi. Che da assessore alla cultura di Letizia Moratti a Milano, scambiando i murales dei leoncavallini nella nuova sede, sempre abusiva, dove si erano trasferiti, li promosse generosamente ad opere d’arte, sproloquiando -scusami, Vittorio- persino di Cappella Sistina.

         Quando cominciai ad occuparmene scrivendo, e parlandone anche con l’amico Paolo Pillitteri nel suo ufficio di sindaco a Palazzo Marino, mi resi subito conto che i leoncavallini non fossero solo degli sfaccendati. E a un certo punto delle polemiche provocate dalla mia attenzione diedi loro dei Pagliacci nel titolo di un editoriale, con la maiuscola dell’opera lirica.

Dopo qualche giorno cominciarono ad arrivare a casa telefonate minatorie, su una linea peraltro riservata, la più laconica era l’annuncio che “il garofano sarà reciso”. Una notte nell’androne del palazzo dove abitavo fu infilata e accesa della benzina.  

Una richiesta della polizia di mettere sotto controllo il mio telefono per risalire alla provenienza delle minacce fu respinta dalla magistratura, che forse- pensai, lo confesso- di non avere condiviso quei Pagliacci nel titolo e mi voleva dare anch’essa una lezione lasciandomi indifeso. Provvidero le autorità competenti, diciamo così, assegnandomi una scorta.

         Confidenza per confidenza, alla fine di quell’anno -nel quale peraltro il povero Pillitteri aveva anche cercato di sgomberare il Centro antagonistico prodigandosi per l’assistenza della forza pubblica, pur fra dubbi e riserve del prefetto che temeva complicazioni sociali- pensai anche ai leoncavallini quando trovai nell’ascensore che portava al piano del Giorno, nel palazzo della stampa di Piazza Cavour, due fogli di carta affissi su una parete della cabina. Uno era la fotocopia di un’immagine del dittatore rumeno Ceausescu giustiziato, sull’altro si chiedeva quando sarebbe arrivato “il turno” del sottoscritto, immondo anche perché “craxiano”. Carini. Neppure su quell’episodio si ritenne opportuna una qualche indagine. Seguì solo un rafforzamento della scorta.

         Con questi precedenti, che riviviamo qui in qualche modo per la nostra linea politica, pensate che io possa ora partecipare al rimpianto del Centro sociale Leoncavallo finalmente sgomberato dal governo? Figuratevi. 

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In attesa delle scuse, altamente consigliabili, della Meloni a Macron

         La premier Giorgia Meloni, imbarazzata nella generale rappresentazione giornalistica per gli insulti del suo vice leghista Matteo Salvini al presidente francese Emmanuel Macron, che si è beccato anche del “troppo permaloso” per la protesta espressa in via diplomatica, si starà chiedendo se le intemperanze del suo collega di governo e amico, almeno a parole, siano notate più da sole o con una sua dissociazione. Cioè se lei traduce l’imbarazzo in una richiesta pubblica di scuse a Macron. Come, magari, le avrà già consigliato direttamente e riservatamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, imbarazzato più ancora della Meloni nel ruolo che ha di Capo dello Stato che “rappresenta l’unità nazionale”, cioè la Nazione, secondo l’articolo 87 della Costituzione.

         Visto che la situazione creata da Salvini con i suoi attacchi e insulti a un Macron guerrafondaio, che dovrebbe “attaccarsi al tram” piuttosto che pensare a interventi più concreti delle parole a favore dell’Ucraina dopo tre anni  e mezzo di guerra con la Russia di Putin, che ne ha invaso il territorio e continua a devastarlo con più morti e feriti di quanti se ne stiano contando a Gaza su un altro versante di fuoco; vista, dicevo, la situazione creata da Salvini nei rapporti con la Francia ancora nostra alleata atlantica e socia europea, sarebbe ora che la Meloni si scusasse. Anche a costo di provocare una crisi che però credo improbabile. Più probabile vedrei una crisi nella Lega, dove l’imbarazzo per le posizioni del segretario è forse maggiore di quello della Meloni nel governo per lo stile e a volte anche il contenuto dell’azione di Salvini. Questa volta, credo, per lo stile e il contenuto insieme.

Il funerale preterintenzionale dell’Europa celebrato da Draghi a Rimini

         Se l’intenzione di Mario Draghi, parlando al raduno annuale di Comunione e  Liberazione a Rimini, senza cravatta e occhiali d’ordinanza, era quella -come spero anche per i ruoli che ha avuto a vario livello, e ha tuttora con gli studi e altro affidatigli dalla presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen; se l’intenzione, dicevo, era di “strigliare”, “sferzare”, stimolare e quant’altro, come si si legge oggi nei titoli di molti giornali, l’effetto è stato opposto. Infelicemente opposto, direi.

Quella di Draghi è stata la celebrazione di un funerale preterintenzionale, diciamo così, dell’Unione europea. Di cui egli ha sostenuto con una certa, forse eccessiva, spietata durezza, che sia “evaporata la forza” che pure poteva provenirle dai quattrocento milioni e più di consumatori che popolano il suo mercato. Un’Europa evaporata, ripeto, e “immobile” di fronte alle guerre che la circondano e la coinvolgono: dall’Ucraina a Gaza. Eppure l’Ucraina, per esempio, se non è stata -o non è ancora stata- abbandonata dal presidente americano Donald Trump nelle fauci di un Putin trattato quanto meno con eccessiva indulgenza, da invaso e non invasore, lo si deve all’Europa pur “evaporata” nelle parole dell’ex presidente della Banca Centrale europea e poi anche ex presidente del Consiglio.

         Diciamo che è stata per Draghi,  quella trascorsa ieri a Rimini, una giornata sfortunata. Più da “funerale”, come ha titolato impietosamente qualche giornale, che da occasione ricostituente per l’Unione europea. Una giornata da dimenticare, più che ricordare.

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Tutti liberati a Milano gli arrestati nelle indagini sull’urbanistica

Tombola fuori stagione, diciamo così, a Milano. Dove nessuno, ma proprio nessuno degli arresti ottenuti dall’accusa nelle indagini sull’urbanistica chiamate in vario modo- Palazzopoli, Pirellinpopoli, Affaropoli, Lussopoli e via declinando- ha retto al passaggio del tribunale del riesame. Neppure quello del costruttore Manfredi Catella, liberato per ultimo ieri dalla custodia domiciliare come, prima di lui, l’ex assessore all’UrbanisticaGiancarlo Tancredi, Giuseppe Marinoni, Federico Pella, Alessandro Scandurra e Andrea Bizzicchieri, l’unico ad avere provato il carcere davvero.

         Salvo complicazioni, e nei tempi ordinariamente lunghi della giustizia di rito italiano, e non solo ambrosiano, i liberati riusciranno ad andare liberi al processo. Ma intanto hanno dovuto subire il bagno dello sputtanamento.   E chissà quale altro li aspetterà nell’espletamento delle loro professioni, per alcuni di loro già interdette con misure sostitutive dell’arresto.

         Manfredi Catella già di suo più elegante e aitante del suo amico Beppe Sala, si porterà addosso ormai per tutta la vita la leggenda, ricavata dalla solita intercettazione fuori contesto, al limite fra il reale e lo scherzo, di essere stato in pieno, clamoroso conflitto d’interessi il vero sindaco della Milano dei grattacieli, annessi e connessi. Con Sala, sinora fra i tanti indagati, ridotto ad un prestanome con la complicità di tutti gli elettori che lo hanno portato a Palazzo Marino.

         Chissà perchè, forse stimolato, dirottato o altro ancora da una intervista appena letta sul Corriere della Sera, e rilasciata nella sua residenza campestre in Molise, alla notizia della tombola, ripeto, al tribunale del riesame di Milano il mio pensiero è andato ad Antonio Di Pietro. Che, con l’esperienza fattasi a Milano e altrove come sostituto procuratore, all’esplosione delle indagini sull’urbanistica ambrosiana è stato il primo, o fra i primi, ad essere colto da dubbi e ad esprimerli pubblicamente col suo solito ricorso ad immagini o espressioni ruspanti, ad effetto come la domanda che opponeva ai suoi tempi giudiziari agli interlocutori: “Che ci azzecca?”. Stavolta egli ha opposto alla proliferazione della fantasia e dei sospetti sui grattacieli di Milano progettati ed eseguiti da architetti e costruttori di una certa dimensione e notorietà ricordando che certe imprese non sono da “geometra di Canicattì”.

         Prima ancora dell’esplosione urbanistica di o a Milano, quando neppure aveva dismesso la toga per farsi tentare dalla politica, nella quale il suo capo Francesco Saverio Borrelli si augurava più o meno pubblicamente che trovasse finalmente la pace, l’inquieto Di Pietro, Tonino per gli amici, era diventato guardingo verso i suoi colleghi. Aveva cominciato a chiamare sarcasticamente “dipietrini” i magistrati che lo imitavano un po’ dappertutto nella caccia alle tangenti nella quale lui si era specializzato a Milano. Moltiplicandone i risultati con le doti “informatiche” che sorpresero anche Borrelli. Non tutti insomma sono davvero Di Pietro, specie da quando lo stesso Tonino ha cominciato ad avvertire dubbi sulla sua epopea.

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Il bicchiere di Carlo Nordio e la paura dei suoi avversari

         Il maggior problema del guardasigilli Carlo Nordio- maggiore anche del processo che il tribunale dei ministri vorrebbe fargli per l’affare del generale libico Almasri, fatto rimpatriare e sfuggire all’arresto ordinato dalla Corte Internazionale Penale dell’Aja per crimini contro l’umanità- è il suo bicchiere secondo Marco Travaglio e imitatori, o seguaci, nel Fatto Quotidiano.  Dove preferiscono i sobri agli ubriachi, o alticci. Come lo stesso Nordio, con ironia pari alla sua serietà o severità, lascia benevolmente farsi rappresentare dagli avversari ricordando che la buonanima del primo ministro britannico Winston Churchill, che lui ha studiato scrivendone spesso, “salvò l’Europa pasteggiando champagne e brandy”.

         “Garrula” e “curiosa” è definita oggi sul Fatto Quotidiano, appunto, una lunga intervista quasi ferragostana concessa al Corriere della Sera da Nordio parlando anche dell’amicizia personale e familiare con Andrea Panatta, il campione dl tennis  orgoglioso anche della possibilità di congiurare il suo socialismo dichiaratamente nenniano col liberalismo di Nordio di tendenza malagodiana. I due -Nordio e Panatta in ordine rigorosamente alfabetico- potrebbero insomma definirsi liberalsocialisti come i Rosselli. O come gli scomparsi Enzo Bettiza e Ugo Intini discutendone in un libro a ridosso dei due governi di Bettino Craxi, in cui socialisti e liberali si ritrovarono insieme dopo essersi contrapposti nelle prime edizioni del centro-sinistra, col trattino di Aldo Moro.

         Sarà pure stata garrula e curiosa, ripeto, ma l’intervista di Nordio è rimasta sul gozzo a Travaglio e amici anche o soprattutto perché indicativa della tranquilla fermezza con la quale il ministro intende farsi approvare dal Parlamento la riforma della giustizia, comprensiva della separazione delle carriere di giudici e dei pubblici ministeri, e poi farla confermare dagli elettori nel referendum.

Il Centro Leoncavallo sgomberato con 36 anni o 13.140 e più giorni di ritardo

         Altro che i 30 o 31 anni di ritardo lamentati dal ministro dall’Interno Matteo Piantedosi annunciando lo sgombero finalmente attuato del famoso Circolo sociale Leoncavallo, a Milano. E partendo da chissà quale tappa del percorso: forse quella che è costata tre milioni di euro al Viminale per risarcire i danni valutati dall’autorità giudiziaria ai proprietari dell’area occupata abusivamente. Uno sgombero di cui si è vantata personalmente anche la premier Giorgia Meloni spiegando che non ci possono essere “zone franche”, esentate dalla legalità.

         Il ritardo è di 36 anni, pari a 13 mila 140  e più giorni passati dal 16 agosto 1989. Quando l’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri, non lasciandosi trattenere dal prefetto che temeva le solite tensioni e complicazioni sociali, mandò centinaia di vigili urbani a sgomberare in via Leoncavallo l’omonimo centro contro il quale alla direzione del Giorno, assunta tre mesi prima, avevo condotto una campagna per soddisfare centinaia di lettori che da ancora più tempo scrivevano sistematicamente al giornale per denunciare il disordine, spesso anche la violenza praticata da quella comunità di protestatari, anche con musica al massimo volume suonata sino a notte inoltrata. Musica naturalmente non classica.

         A Paolo Pillitteri, del quale ero amico personale, e non perchè fosse il cognato di Bettino Craxi, avendone sposato la sorella Rosilde, chiesi un giorno a bruciapelo nel suo ufficio a Palazzo Marino che razza di “città da bere” potesse essere Milano, come anche i miei collaboratori scrivevano in terza pagina fra interviste e articoli d’analisi dopo la stagione degli anni di piombo, se si tollerava per vigliaccheria, più che per sociologia, un Centro come quello noto col nome della strada in cui si era installato abusivamente.

         Peraltro da qualche giorno arrivavano a casa mia, raccolte prevalentemente da mia moglie, telefonate di minacce e di schermo, peraltro su una linea riservata, senza il numero negli elenchi degli abbonati. “Il garofano sarà reciso”, promettevano avendomi evidentemente iscritto d’ufficio al partito di Craxi e di Pillitteri.

         Nel sospetto che quelle telefonate provenissero dai leoncavallini il questore mi aveva personalmente confidato di avere chiesto alla magistratura di mettere il mio telefono sotto controllo, ricevendone un rifiuto. Che contribuì alla decisione del questore, non so se anche del prefetto, di assegnarmi una scorta. E penso anche a fare maturare ancora di più nel sindaco la valutazione dell’anomalia che ormai da una decina d’anni costituiva quel centro sociale e alternativista. Dove poi avrei scoperto, con l’irruzione politica della Lega, che si affacciava ogni tanto anche un giovanissimo Matteo Salvini, convinto che ci fossero sì violenti, come da una intervista dopo la sua elezione a consigliere comunale, ma pochi e sotto controllo. Almeno il suo, debbo presumere. Violenti riusciti a vanificare il tentativo di sgombero del 1989 e altri cento e più -esattamente 133- contati sempre dal ministro Piantedosi, mentre il centro cambiava peraltro sedi,

         Vi ho brevemente raccontato questa esperienza personale e professionale, dilungandomi, anche per farvi capire lo sgomento, a dir poco, procuratomi dalle reazioni scandalizzate a questo intervento speriamo risolutivo del governo. A cominciare naturalmente da quella di stupore e di protesta del sindaco in carica, Beppe Sala. Che ha come attenuante solo la lista dei tanti predecessori, anche di destra, succeduti a Pillitteri senza seguirne l’esempio.

Pippo Baudo meriterebbe l’intestazione del Ponte sullo Stretto di Messina

         Di tutte le cronache stampate dei funerali di Pippo Baudo nella sua Militello, con le piazze, le strade, i balconi pieni, e spesso affittati, i tassisti furiosi per i clienti sfuggiti al pagamento della corsa dall’alto della loro dichiarata funzione di “dirigenti Rai”, la gente adorante del morto e curiosa dei vivi famosi accorsi all’ultimo saluto, ho trovato particolarmente efficace quella scritta per Il Foglio da Carmelo Caruso. Che con quel nome inconfondibilmente siciliano si meritava di certo di essere inviato, a tutti gli effetti, sul posto per un funerale che già in sé, a prescindere dal morto di turno o d’occasione, è “la sola grande opera della Sicilia”, ha scritto Caruso. E “il lutto la molla del progresso”, tradito per il testo dai ritardi. Come quelli dei lavori all’aeroporto di Catania, ancora in corso per il fuoco che lo danneggiò due anni fa. “Solo Baudo ostinato, voleva tornarci, perfino da morto”, senza riuscirvi.

         La bara di Pippo Baudo, che vi è stato rinchiuso nello smoking di ordinanza, come nell’ultimo dei suoi spettacoli televisivi, è arrivata a Militello per strada e mare. “Qui le salme -ha concluso e ripetuto Caruso il suo racconto- sono l’unico ponte con il progresso”.   

lI ponte, appunto. Mettiamogli la maiuscola e dedichiamogli quello sullo stretto di Messina giunto finalmente alla vigilia dei suoi cantieri. Lasciamo tornare al suo posto, in viale Mazzini, davanti alla sede nazionale della Rai, il cavallo pur “morente” in groppa al quale Emilio Giannelli sul Corriere della Sera lo ha immaginato salire in cielo, e che a Fiorello mi sembra non piacere, preferendogli una statua di Pippo Baudo.  E dedichiamo piuttosto a Pippo – quello “nazionalpopolare” di cui egli stesso era fiero, anche per il carattere unitario che conteneva quella definizione contestata infelicemente da un presidente della Rai- il Ponte. Che svetterà fra il continente e la Sicilia come la Cupola di Michelangelo nel cielo di Roma o quella del Brunelleschi nel cielo di Firenze.  

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Quella fuga di Toni Negri a Parigi favorita da Craxi e Scalfaro

Agosto è tempo anche di ricordi, magari sotto l’ombrellone per chi se lo può permettere con quel che ne costa l’uso in una spiaggia a pagamento. Ricordi magari stimolati dai giornali, come quello offerto dal Foglio raccontando di Sandro Parenzo, ora  ottantunenne “magro e brevilineo, produttore, sceneggiatore, imprenditore televisivo”, sospettato fiduciosamente nel gennaio del 1984 dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi di potersi mettere in contatto con Toni Negri. Che, non più coperto da immunità parlamentare come deputato eletto nelle liste radicali, avendone la Camera autorizzato l’arresto per reati di terrorismo, stava per essere catturato dai Carabinieri. “Devi avvisarlo di non tornare a casa”, disse Craxi a Parenzo, tuttora convinto -orgogliosamente, direi- di avere compiuto la missione, affidatagli dal capo dl governo, attraverso il comune amico Nanni Ballestrini, rintracciato per telefono a Parigi. Dove Negri da latitante lo avrebbe raggiunto dopo avere evitato l’arresto in Italia.

         Senza volere smentire Parenzo, che dispone peraltro di una testimonianza notarile consigliatagli a suo tempo dal suo avvocato, spero non per fini ricattatori, di quella stessa vicenda io ho un altro racconto. Fattomi personalmente dallo stesso Craxi non d’estate, e in anni successivi alla sua esperienza a Palazzo Chigi, parlandomi del suo ex ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro.  E ciò per farmi capire quanto fossero cambiati  sorprendentemente i rapporti fra di loro con l’elezione dell’amico democristiano  nel 1992 al Quirinale, per giunta avvenuta col suo appoggio, avendolo Craxi preferito al presidente del Senato Giovanni Spadolini nel finale della  corsa alla Presidenza della Repubblica.

 Al mio rientro da Hammamet, dove avevo raccolto le confidenze di Bettino, non trovai per fortuna avvocati che mi consigliassero un notaio al quale raccontare tutto documentalmente. Ma se ne avessi trovato uno, lo avrei mandato al diavolo.

         Craxi mi raccontò che, maturate le condizioni dell’arresto di Negri, contro cui arresto aveva votato per ragioni di garantismo, si sentì chiedere un incontro da Scalfaro. Che gli prospettò l’imbarazzo, a dir poco, nel quale quel diavolo di Marco Pannella, comune amico, stava mettendo il Parlamento e, più in generale, lo Stato. Incombeva lo spettacolo di un deputato non decaduto che avrebbe preteso di essere accompagnato dal carcere alla Camera per esercitare i suoi diritti parlamentari ogni volta che li avesse ritenuti irrinunciabili. Il ministro gli comunicò pertanto che avrebbe trovato il modo di allentare la sorveglianza per consentire a Negri di fuggire, se lo avesse voluto. E di disattendere anche il progettino che aveva su di lui il leader radicale.  

         Per conciliare i due racconti, di Parenzo al Foglio e questo mio al Dubbio, posso solo pensare che Craxi s’incontrò con Scalfaro dopo avere parlato con  Parenzo. Immagino con quale sollievo, trovando il ministro dell’Interno d’accordo con lui contro la prospettiva dello spettacolo di un onorevole detenuto diviso fra cella e Camera. Diavolo di un Pannella, ripeto,  ma anche di Craxi, di Scalfaro e dello stesso Negri, poi tornato in Italia quando volle lui, e infine a Parigi per morirvi due anni fa.

         Anche a livello di teatro, o di teatrino come lo chiamava Silvio Berlusconi prima di salirvi, o di scendervi come su un campo da gioco, la cosiddetta prima Repubblica temo che abbia battuto la seconda. Lo temo per la seconda, naturalmente.

Pubblicato sul Dubbio

La brodaglia…di carta addosso alla Meloni della Casa Bianca

         Quello stitico riconoscimento del Corriere della Sera alla Meloni di essere andata “meglio del previsto” al vertice euro-americano alla Casa Bianca sull’Ucraina – riconoscimento collocato alla fine del cosiddetto sommario del titolo di apertura della prima pagina- è a suo modo indicativo delle difficoltà della premier nei rapporti con i giornali. Difficoltà delle quali la stessa premier è talmente consapevole, e peraltro così poco preoccupata, preferendo sporsi il meno possibile alle domande in diretta, da scherzarci sopra parlandone proprio alla Casa Bianca col presidente finlandese in un fuori-onda. Che si è procurato sui quotidiani italiani più cronache e commenti allo stesso vertice.

         In questa corsa al dettaglio per cogliere il diavolo che vi si nasconde ha voluto distinguersi sulla Stampa Flavia Perina. Che, essendo stata direttrice del nerissimo, diciamo così, Secolo d’Italia, non si lascia scappare occasione per riscattarsi in qualche modo metaforico dal passato. E così ha scritto della Meloni e della sua battuta americana sui giornali con la puzza sotto il naso, quanto meno.

         Per fortuna, pluralismo, contrappasso e quant’altro scrive sulla Stampa anche Mattia Feltri, che riesce spesso a superare il padre Vittorio nella pratica del nuoto controcorrente.  Così oggi, con qualche decina di centimetri sotto la collega ha ricordato i rapporti ancora peggiori che riescono ad avere con i giornali i pur più loquaci “capi dell’opposizione”, generosamente al singolare. Che pretendono generalmente domande scritte e accessori del genere, a cominciare da Romano Prodi. Che tuttavia il mio amico Mattia ha in qualche modo aiutato alla fine risparmiandogli il ricordo di quel recente, assai sgradevole episodio, inizialmente negato e poi ammesso davanti all’evidenza delle foto senza neppure scusarsene, della mano addosso ad una giornalista tanto scortese da avergli fatto una domanda sgradita sulla controversia del momento. Che era quella della democrazia zoppicante in una parte del manifesto europeista di Ventotene citata con maggiore imprudenza ancora dalla premier Meloni parlandone in Parlamento.  

         Potrei continuare a incidere sulla stampa, al minuscolo e generale, e sulla sua partecipazione alla fuga delle opposizioni, doverosamente al plurale, dalla realtà quando non la gradiscono. Ma mi fermo per carità professionale.

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