La giornata particolare, molto particolare, di Salvini in Vaticano

         E’ più, molto di più di una foto di opportunità quella dell’udienza concessa in Vaticano dal Papa a Matteo Salvini, accompagnato dalla figlia Mirta, dal tesoriere della sua Lega Alberto Di Rubbia, e dal capo del suo ufficio di segreteria Daniele Bertana. Mancava solo il suo amico Stefano Beltrame, proprio in quelle ore -o quasi- nominato dal governo ambasciatore d’Italia a Mosca, dopo esserlo stato a Vienna e assistito da diplomatico il ministro, sempre leghista, dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Un giornata insomma che non poteva essere migliore per il leader leghista, vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, reduce da passì, iniziative e altro che avevano messo in serie difficoltà la premier, rimasta in silenzio anche di fronte alle proteste ufficiali della Francia per attacchi rivolti dallo stesso Salvini al presidente Emmanuel Macron. Che non intendeva e non intende  rimanere attaccato al tram, dove lo aveva sistemato a parole  il leader leghista per la sua smania di mandare truppe in Ucraina e rendere più visibile, più concreta, più efficace la difesa europea del paese da più di tre anni sotto invasione e fuoco della Russia di Putin.

         Già la decisione di Papa Leone XIV di riceverlo in Vaticano, sia pure dopo un’udienza ufficiale alla premier Giorgia Meloni e una privata al vice presidente forzista del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, è stata per Salvini gratificante, a dir poco, specie nel contesto già accennato della politica estera italiana. Che è di pertinenza della premier a Palazzo Chigi e di Tajani alla Farnesina, come rivendicato continuamente dallo stesso Tajani, ma di cui Salvini rivendica il diritto di occuparsi pure lui come leader di partito nella coalizione di maggioranza ed esponente del governo. Col quale non a caso il Papa si è soffermato a parlare anche, se non soprattutto di politica estera.

         Per sottolineare, questa volta nel contesto non di questa stagione politica ma della storia quasi ottantennale della Repubblica, l’importanza della nomina di un diplomatico di simpatie leghiste, a dir poco, a Mosca in piena guerra con l’Ucraina è forse il caso di ricordare la caldissima estate del 1964. C’era la “guerra fredda” fra la perdurante Unione Sovietica e un Occidente ancora guidato saldamente dagli Stati Uniti. Non un leader qualsiasi della maggioranza di centro-sinistra, ancora col trattino, guidata da Aldo Moro, e appena ricompostasi a chiusura di una crisi nella quale si erano sentiti i famosi “rumori di sciabola” riferiti dal vice presidente socialista del Consiglio Pietro Nenni, ma il presidente della Repubblica Antonio Segni non riusciva a fare nominare il suo amico Federico Sensi ambasciatore a Mosca. Se ne lamentò col ministro degli Esteri Giuseppe Saragat. Che, presente un Moro particolarmente imbarazzato, gli ripose tanto male, anche per come aveva gestito la crisi appena conclusa, da procurargli un ictus da quale il capo dello Stato non si riprese più. E fini sostituito in meno di sei mesi dallo stesso Saragat.

L’epilogo inconsapevole della storia democristiana nella destra di Meloni

Ad un libro commissionatomi  nel 1979 per le edizioni del Giornale –“Dc contro Dc”, come il Kramer contro Kramer di quell’anno nelle sale cinematografiche- Indro Montanelli appose una sola correzione. Nel sottotitolo, che da “Miserie e splendori di un partito di cera”, da me proposto pensando alla capacità che aveva lo scudo crociato di adattarsi alle situazioni e di interpretare la maggioranza sostanzialmente moderata dell’elettorato, pur in presenza di correnti di sinistra, Montanelli preferì la dizione di “partito di gomma”. Per la capacità che aveva avuto e aveva ancora la Democrazia Cristiana, anche con l’aiuto  del “voto a naso turato” da lui procuratole per proteggerla dal pericolo concreto del sorpasso comunista, di assorbire i colpi, di ammortizzarli.

         Non dimentichiamo che non più tardi di quattro anni prima, nel 1974, la Dc appena tornata nelle mani o nelle redini di Amintore Fanfani, dopo una lunga segreteria del suo ormai ex delfino Arnaldo Forlani, aveva subìto la pesantissima sconfitta referendaria sul divorzio. Che l’aveva resa debole anche a quella specie di assedio che le aveva posto Enrico Berlinguer con la proposta del “compromesso storico”. Passata nella modesta e provvisoria variante della cosiddetta maggioranza di “solidarietà nazionale”, comprensiva appunto del Pci, che consentì allo scudo crociato di governare fra il 1976 e l’inizio del 1979 con due monocolori, interamente composti cioè da democristiani, sotto la guida di Giulio Andreotti.

         Scomparsa la Dc a cavallo fra il 1993 e il 1994 con lo scioglimento telegrafico disposto dal suo ultimo segretario Mino Martinazzoli, illuso di poterla fare rivivere nel vecchio, quasi archeologico contenitore del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, mi è toccato di seguirne le tracce, a destra e a sinistra, ma in verità più a destra che a sinistra, almeno in termini elettorali. Le tracce, per esempio, nella Forza Italia, specie originaria, di Silvio Berlusconi, che esordì preferendo personale politico proveniente dalla Dc per guidare i primi gruppi parlamentari del suo partito. Contemporaneamente tracce anche nell’apparentemente lontana o opposta Lega di Umberto Bossi, che pescò in acque democristiane i suoi primi amministratori locali.

         Ora analisti politici anche di un certo peso ed equilibrio, come l’Antonio Polito del Corriere della Sera o il Claudio Cerasa del Foglio citati ieri nel suo editoriale da Mario Sechi, avvertono odore o sapore democristiano in Giorgia Meloni e, più in generale, nei suoi Fratelli d’Italia. Che si trovano peraltro nelle stesse dimensioni elettorali della Dc all’epilogo della sua vicenda, cioè nelle ultime elezioni politiche affrontate col proprio nome, nel 1992. Ma è ormai un’altra storia, anche perché, diciamo la verità, l’elettorato democristiano è ormai consunto per ragioni naturali, anagrafiche.

         Gli applausi raccolti a scena aperta dalla premier a Rimini -che hanno fatto strabuzzare occhi e altro ancora a Rosy Bindi, facendole dare  alla Meloni della “bella più che bugiarda”, come una volta Vittorio Sgarbi e Berlusconi diedero a lei, presidente del Pd, della “bella più che intelligente”- non sono giunti da un pubblico di anziani o di “anziani giovanotti”, come Amintore Fanfani chiamava e sfotteva i dirigenti del movimento nominalmente giovanile della Dc. Il pubblico ciellino di Rimini   raccoltosi in standing ovation attorno all’ospite giunta lì per la prima volta da presidente del Consiglio era davvero giovanile. Un pubblico che non ha fatto in tempo neppure a votare una volta per la Dc, 33 anni fa.

         Della Democrazia Cristiana, della sua cultura, della sua capacità di essere cera e gomma insieme, per tornare al mio vecchio, vecchissimo, antico libro sulla “Dc contro Dc” passato agli esami di Montanelli, che era alquanto esigente in materia, la Meloni ha ereditato di fatto quella “forza tranquilla” avvertita dalla maggioranza del Paese. Una forza capace di guidarlo, nell’assenza di un’opposizione realistica lamentata persino da un professore come Romano Prodi, “in mezzo ai barracuda e agli squali” segnalati, sempre ieri, da Mario Sechi.

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