La premier Giorgia Meloni incoronata regina…di Rimini

         Solo il mio amico Piero Sansonetti, riportando la sua Unità molto indietro negli anni, anche a quelli che spesso egli  ha mostrato di non rimpiangere, ha liquidato il discorso pronunciato da Giorgia Meloni al raduno annuale  e riminese di Comunione e Liberazione – di ritorno da vacanze che non l’hanno mai allontanata in verità dall’attività politica, specie di natura internazionale- ha avvertito, lamentato, denunciato nelle sue parole, e negli applausi raccolti, una “Italia reazionaria, autoritaria e bigotta”.

         Magari, Piero avrà trovato una conferma al suo giudizio nei “brividi” avvertiti da Antonio Polito sul Corriere della Sera” riferendo dell’accoglienza riservata dai “ragazzi” ciellini ad una Meloni ormai avviata sulla strada di una sostanziale democristianizzazione, in una marcia di avvicinamento ai “popolari europei”. Con i quali non a caso si è ritrovata appoggiando la presidente della Commissione dell’Unione, Ursula von der Leyen, e instaurando con lei un rapporto privilegiato, un po’ come quello stabilito oltre Oceano col presidente americano Donald Trump.

         Ma fra tutte le reazioni politiche e mediatiche, che lui di solito riesce ad esprimere al massimo essendo fra i giornalisti il più politico per provenienza e quasi indole, quella più rilevante è di Giuliano Ferrara. Che sul Foglio fondato negli anni del berlusconismo, cui contribuì consigliando il Cavaliere, scrivendogli i discorsi, tentando rapporti dove non arrivava Gianni Letta, cioè a sinistra, ha riconosciuto nella Meloni di Rimini “la donna giusta al posto giusto”, specie nella politica estera italiana. Una donna “pragmatica”, ostinata, preparata, moderata più che conservatrice, proiettata verso una “egemonia” diversa naturalmente da quella teorizzata a sinistra dalla buonanima di Antonio Gramsci, ma pur sempre indicativa di una vera forza politica.

         “Non la voto ma mi adeguo”, ha concluso Giuliano, che temo preferisca nella cabina elettorale la segretaria del Pd Elly Schlein, perdonandole anche quella Europa “comunità hippy” che a lui non piace. O ne diffida. Ma alla Meloni, di cui hanno incuriosito il già ricordato Polito “i nuovi mattoni” con i quali ha raccontato a Rimini di volere costruire in Europa, compresa l’Italia, “una casa che non abbiamo iniziato noi” della destra; alla Meloni, dicevo,  quel Giuliano Ferrara che comunque si “adegua” potrebbe andare bene lo stesso. Forse anche meglio di quel suo vice presidente leghista del Consiglio, Matteo Salvini, che sotto sotto, nonostante le frenate che ogni tanto concede, si adegua meno, e le procura più danni o problemi.

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L’opposizione della Schlein che non c’è, e che Romano Prodi reclama

Giorgia Meloni, si sa, avvertì la sua vocazione politica ad appena 15 anni per la morte di Paolo Borsellino, un magistrato orgogliosamente di destra ucciso nel 1992 nella strage mafiosa di via d’Amelio a Palermo. Seguita a quella di Capaci, sempre di mafia, in cui era stato ucciso il collega ed amico Giovanni Falcone. 

         Elly Schlein, l’antagonista in concorrenza con l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nostalgico di Palazzo Chigi da quando dovette lasciarlo a Mario Draghi, è stata meno precoce di Giorgia Meloni. Non a 15 ma a 23 anni, già munita di tre passaporti,  s’invaghì della campagna elettorale di Barak Obama a Chicago, nel 2008, partecipando anche a quella successiva per la conferma del presidente americano.

         In Italia Elly, per gli amici, dovette accontentarsi di Romano Prodi. Che nel 2013, reduce da due governi di breve durata a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, e da un mandato consolatorio, rimediatogli da Massino D’Alema che lo aveva sostituito nel 1998 a Palazzo Chigi, di presidente della Commissione europea a Bruxelles, tentò con apparente distacco anche fisico, non ricordo più bene se dall’Africa o dalla Cina, la scalata al Quirinale. Per quanto candidato dall’allora segretario in persona del Pd Pier Luigi Bersani col rito abbreviato dell’acclamazione, Prodi fu tradito dai cosiddetti, immancabili “franchi tiratori”. In guerra lo chiamano “fuoco amico”.

         La Schlein, reduce a 28 anni dai fasti americani e ormai decisa a contenersi nei confini italiani, rimase basita. La delusione di Prodi, che fingeva rassegnazione e indifferenza, procurò la tarantola alla Schlein. Che lanciò una campagna di occupazione di protesta delle sezioni del Partito Democratico, con l’obiettivo forse anche di arrivare sino al Nazareno, la sede nazionale. Con quella vicinanza fisica al Quirinale che poteva rendere l’occupazione in qualche modo riparatrice, sul piano simbolico, del torto subito da Prodi.

         Paolo Borsellino dall’aldilà, cui credeva da buon cristiano, credo abbia  buone ragioni per essere soddisfatto di quella ragazza inconsapevolmente avviata alla politica e arrivata in soli 30 anni a Palazzo Chigi, la prima donna nella storia d’Italia, e di destra, dopo essere stata anche vice presidente della Camera e ministra, O ministro, come probabilmente preferirà leggere per la sua nota preferenza al genere maschile di queste cariche istituzionali.

         Non così Prodi, felicemente vivo e in salute a 86 anni compiuti il 9 agosto scorso, nei riguardi della “sua” Elly Schlein. Alla quale non può non avere pensato, con quella memoria peraltro di elefante che gli attribuiscono anche gli amici, dicendo non più tardi dell’altro ieri, in una intervista pubblicata il giorno dopo su Repubblica, che manca in Italia un’opposizione. “Il centrosinistra- gli ha chiesto Claudio Tito- che cosa dovrebbe fare in Italia per fermare questa deriva” appena lamentata da Prodi in senso e segno autoritario, sul modello trumpiano? Senza avere naturalmente, a livello italiano ed europeo, i soldi e tutto il resto di Trump. “Esistere, basterebbe esistere”, ha laconicamente, tragicamente risposto Prodi, immagino contorcendo il viso come solo lui sa fare quando è giù di corda e cerca di trascinarsi appresso nello sconforto l’interlocutore di turno.

         La povera Schlein salta da una piazza all’altra, da un corteo all’altro, da un convegno all’altro, da un microfono all’altro, da una telecamera all’altra, non cambiando mai soltanto la sua addetta ai colori del proprio abbigliamento, e quel distratto, ingrato di Prodi le dà praticamente del fantasma, come a tutti gli altri inutilmente aspiranti all’alternativa di cosiddetto centrosinistra. Che come definizione peraltro va troppo stretta o troppo larga, secondo i giorni e gli umori, al già ricordato Conte. Che vorrebbe una carovana di “progressisti indipendenti” l’uno dall’altro, dipendenti solo dal caso in una eventuale, improbabile vittoria elettorale.

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