Gli sminatori italiani in Ucraina annunciati da Antonio Tajani

         Nel rivendicare per l’ennesima volta da quando è alla Farnesina la titolarità, insieme con la premier Giorgia Meloni,  della politica estera contestando le intrusioni del collega leghista alla vice presidenza del Consiglio Matteo Salvini, il buon Antonio Tajani in maniche stagionali di camicia si è lasciata scappare una rivelazione. Uno scoop come ne avrebbe voluto fare quando era solo  un giornalista, prima che Silvio Berlusconi se lo portasse appresso in politica non immaginando forse neppure lui dove avrebbe saputo o voluto spingere. Addirittura alla figura che ogni tanto gli viene attribuita, fra cronache e retroscena, di concorrente forse della stessa Meloni alla Presidenza della Repubblica, quando finirà -fra quattro anni- anche il secondo mandato di Sergio Mattarella “il lungo”, come potrebbe essere chiamato il Capo dello Stato in carica per avere già battuto il primato dei 9 anni raggiunto a suo tempo da Giorgio Napolitano. Anche lui eletto due volte, ma con la riserva, non accettata invece dal suo successore, di accorciare il secondo mandato per stanchezza dichiarata ma opportunità nascosta, conoscendo la smania che spesso intossica la politica.

         Tajani ha rivelato, in particolare, che l’Italia non invierà truppe in Ucraina, a presidiarne con altri la sicurezza a guerra finita, come invece teme Salvini mandando “appeso al tram” il presidente francese Macron, e chiunque alto tentato dalla sua ida e voglia di intervento. L’Italia si limiterà ad offrire -forse l’ha già fatto- la sua competenza, specialità e quant’altro di sminare i territori disseminati di ordigni dagli invasori russi. O dagli stessi ucraini per difendersene scordandosene però la collocazione precisa.

         Il mestiere o la specialità degli sminatori, con la esse   che li distingue da quelli che lavorano sotto terra per ricavarne il necessario a vivere meglio sopra, o peggio come a Gaza con quello che hanno fatto i terroristi di Hamas, è sin troppo nota per avere bisogno di molte parole per spiegarla. Le tecniche moderne, grazie a Dio, hanno moltiplicato vantaggi ed opportunità degli sminatori non più in carne e ossa ma robot, senza tuttavia potere sostituire del tutto gli umani. Ai quali chissà se Salvini riuscirà, al momento opportuno, a concedere la possibilità di accedere senza attaccarli al tram.

Figuratevi se partecipo al rimpianto del Centro sociale Leoncavallo

Al rimpianto di Pippo Baudo si vorrebbe far seguire quello del Centro sociale milanese appena sgomberato e chiamato Leoncavallo dal nome della strada in cui sorse una cinquantina d’anni fa, occupando abusivamente un’area privata con relativa struttura industriale. Una strada intestata al musicista Ruggero Leoncavallo noto anche per il dramma lirico dei Pagliacci, ricavato da un fatto di cronaca nera realmente accaduto in un borgo della Basilicata a fine Ottocento.

         Questo Centro sociale prodotto dalle scorie della contestazione settantottina e del terrrorismo, che ne derivò spesso negli anni di piombo, crebbe anchenel mito da martiri di due militanti -Fausto e Iaio- uccisi in circostanze misteriose il 18 marzo 1978. Un delitto rimasto impunito ma del quale quella comunità ricavò un clima di solidarietà non so ancora, francamente, quanto meritata per la natura tuttora misteriosa di quel delitto, in un ambiente degradato anche dalla droga.

         Pur già noto anche a livello nazionale il mio primo contatto professionale, diciamo così, con quella comunità dichiaratamente alternativa nacque sfogliando nella primavera dl 1989 la posta dei lettori del Giorno, di cui ero stato appena nominato direttore dall’Eni. Lettori tutti indignati, e invocanti aiuto, per le condizioni difficili in cui abitavano in via Leoncavallo e dintorni. Dove non si poteva neppure dormire perché di notte venivano imposti, a volume altissimo, concerti non proprio di musica classica.  Di giorno le cose riuscivano ad andare anche peggio.

         I lettori che scrivevano si firmavano spesso con iniziali o nomi di fantasia, evidentemente per paura di ritorsioni. Alcuni però avevano anche il coraggio di firmarsi, per cui mi fu possibile rintracciarne qualcuno. E farmi accompagnare in qualche sopralluogo. Ne ricavai a prima vista la stessa impressione appena confessata da Vittorio Feltri scrivendone sul Giornale. Di “sfaccendati”, piuttosto che di “creativi”, come qualcuno li definiva già allora e continua ancora a considerarli richiamandosi anche al buon Vittorio Sgarbi. Che da assessore alla cultura di Letizia Moratti a Milano, scambiando i murales dei leoncavallini nella nuova sede, sempre abusiva, dove si erano trasferiti, li promosse generosamente ad opere d’arte, sproloquiando -scusami, Vittorio- persino di Cappella Sistina.

         Quando cominciai ad occuparmene scrivendo, e parlandone anche con l’amico Paolo Pillitteri nel suo ufficio di sindaco a Palazzo Marino, mi resi subito conto che i leoncavallini non fossero solo degli sfaccendati. E a un certo punto delle polemiche provocate dalla mia attenzione diedi loro dei Pagliacci nel titolo di un editoriale, con la maiuscola dell’opera lirica.

Dopo qualche giorno cominciarono ad arrivare a casa telefonate minatorie, su una linea peraltro riservata, la più laconica era l’annuncio che “il garofano sarà reciso”. Una notte nell’androne del palazzo dove abitavo fu infilata e accesa della benzina.  

Una richiesta della polizia di mettere sotto controllo il mio telefono per risalire alla provenienza delle minacce fu respinta dalla magistratura, che forse- pensai, lo confesso- di non avere condiviso quei Pagliacci nel titolo e mi voleva dare anch’essa una lezione lasciandomi indifeso. Provvidero le autorità competenti, diciamo così, assegnandomi una scorta.

         Confidenza per confidenza, alla fine di quell’anno -nel quale peraltro il povero Pillitteri aveva anche cercato di sgomberare il Centro antagonistico prodigandosi per l’assistenza della forza pubblica, pur fra dubbi e riserve del prefetto che temeva complicazioni sociali- pensai anche ai leoncavallini quando trovai nell’ascensore che portava al piano del Giorno, nel palazzo della stampa di Piazza Cavour, due fogli di carta affissi su una parete della cabina. Uno era la fotocopia di un’immagine del dittatore rumeno Ceausescu giustiziato, sull’altro si chiedeva quando sarebbe arrivato “il turno” del sottoscritto, immondo anche perché “craxiano”. Carini. Neppure su quell’episodio si ritenne opportuna una qualche indagine. Seguì solo un rafforzamento della scorta.

         Con questi precedenti, che riviviamo qui in qualche modo per la nostra linea politica, pensate che io possa ora partecipare al rimpianto del Centro sociale Leoncavallo finalmente sgomberato dal governo? Figuratevi. 

Pubblicato su Libero

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