Il funerale preterintenzionale dell’Europa celebrato da Draghi a Rimini

         Se l’intenzione di Mario Draghi, parlando al raduno annuale di Comunione e  Liberazione a Rimini, senza cravatta e occhiali d’ordinanza, era quella -come spero anche per i ruoli che ha avuto a vario livello, e ha tuttora con gli studi e altro affidatigli dalla presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen; se l’intenzione, dicevo, era di “strigliare”, “sferzare”, stimolare e quant’altro, come si si legge oggi nei titoli di molti giornali, l’effetto è stato opposto. Infelicemente opposto, direi.

Quella di Draghi è stata la celebrazione di un funerale preterintenzionale, diciamo così, dell’Unione europea. Di cui egli ha sostenuto con una certa, forse eccessiva, spietata durezza, che sia “evaporata la forza” che pure poteva provenirle dai quattrocento milioni e più di consumatori che popolano il suo mercato. Un’Europa evaporata, ripeto, e “immobile” di fronte alle guerre che la circondano e la coinvolgono: dall’Ucraina a Gaza. Eppure l’Ucraina, per esempio, se non è stata -o non è ancora stata- abbandonata dal presidente americano Donald Trump nelle fauci di un Putin trattato quanto meno con eccessiva indulgenza, da invaso e non invasore, lo si deve all’Europa pur “evaporata” nelle parole dell’ex presidente della Banca Centrale europea e poi anche ex presidente del Consiglio.

         Diciamo che è stata per Draghi,  quella trascorsa ieri a Rimini, una giornata sfortunata. Più da “funerale”, come ha titolato impietosamente qualche giornale, che da occasione ricostituente per l’Unione europea. Una giornata da dimenticare, più che ricordare.

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Tutti liberati a Milano gli arrestati nelle indagini sull’urbanistica

Tombola fuori stagione, diciamo così, a Milano. Dove nessuno, ma proprio nessuno degli arresti ottenuti dall’accusa nelle indagini sull’urbanistica chiamate in vario modo- Palazzopoli, Pirellinpopoli, Affaropoli, Lussopoli e via declinando- ha retto al passaggio del tribunale del riesame. Neppure quello del costruttore Manfredi Catella, liberato per ultimo ieri dalla custodia domiciliare come, prima di lui, l’ex assessore all’UrbanisticaGiancarlo Tancredi, Giuseppe Marinoni, Federico Pella, Alessandro Scandurra e Andrea Bizzicchieri, l’unico ad avere provato il carcere davvero.

         Salvo complicazioni, e nei tempi ordinariamente lunghi della giustizia di rito italiano, e non solo ambrosiano, i liberati riusciranno ad andare liberi al processo. Ma intanto hanno dovuto subire il bagno dello sputtanamento.   E chissà quale altro li aspetterà nell’espletamento delle loro professioni, per alcuni di loro già interdette con misure sostitutive dell’arresto.

         Manfredi Catella già di suo più elegante e aitante del suo amico Beppe Sala, si porterà addosso ormai per tutta la vita la leggenda, ricavata dalla solita intercettazione fuori contesto, al limite fra il reale e lo scherzo, di essere stato in pieno, clamoroso conflitto d’interessi il vero sindaco della Milano dei grattacieli, annessi e connessi. Con Sala, sinora fra i tanti indagati, ridotto ad un prestanome con la complicità di tutti gli elettori che lo hanno portato a Palazzo Marino.

         Chissà perchè, forse stimolato, dirottato o altro ancora da una intervista appena letta sul Corriere della Sera, e rilasciata nella sua residenza campestre in Molise, alla notizia della tombola, ripeto, al tribunale del riesame di Milano il mio pensiero è andato ad Antonio Di Pietro. Che, con l’esperienza fattasi a Milano e altrove come sostituto procuratore, all’esplosione delle indagini sull’urbanistica ambrosiana è stato il primo, o fra i primi, ad essere colto da dubbi e ad esprimerli pubblicamente col suo solito ricorso ad immagini o espressioni ruspanti, ad effetto come la domanda che opponeva ai suoi tempi giudiziari agli interlocutori: “Che ci azzecca?”. Stavolta egli ha opposto alla proliferazione della fantasia e dei sospetti sui grattacieli di Milano progettati ed eseguiti da architetti e costruttori di una certa dimensione e notorietà ricordando che certe imprese non sono da “geometra di Canicattì”.

         Prima ancora dell’esplosione urbanistica di o a Milano, quando neppure aveva dismesso la toga per farsi tentare dalla politica, nella quale il suo capo Francesco Saverio Borrelli si augurava più o meno pubblicamente che trovasse finalmente la pace, l’inquieto Di Pietro, Tonino per gli amici, era diventato guardingo verso i suoi colleghi. Aveva cominciato a chiamare sarcasticamente “dipietrini” i magistrati che lo imitavano un po’ dappertutto nella caccia alle tangenti nella quale lui si era specializzato a Milano. Moltiplicandone i risultati con le doti “informatiche” che sorpresero anche Borrelli. Non tutti insomma sono davvero Di Pietro, specie da quando lo stesso Tonino ha cominciato ad avvertire dubbi sulla sua epopea.

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