Il bicchiere di Carlo Nordio e la paura dei suoi avversari

         Il maggior problema del guardasigilli Carlo Nordio- maggiore anche del processo che il tribunale dei ministri vorrebbe fargli per l’affare del generale libico Almasri, fatto rimpatriare e sfuggire all’arresto ordinato dalla Corte Internazionale Penale dell’Aja per crimini contro l’umanità- è il suo bicchiere secondo Marco Travaglio e imitatori, o seguaci, nel Fatto Quotidiano.  Dove preferiscono i sobri agli ubriachi, o alticci. Come lo stesso Nordio, con ironia pari alla sua serietà o severità, lascia benevolmente farsi rappresentare dagli avversari ricordando che la buonanima del primo ministro britannico Winston Churchill, che lui ha studiato scrivendone spesso, “salvò l’Europa pasteggiando champagne e brandy”.

         “Garrula” e “curiosa” è definita oggi sul Fatto Quotidiano, appunto, una lunga intervista quasi ferragostana concessa al Corriere della Sera da Nordio parlando anche dell’amicizia personale e familiare con Andrea Panatta, il campione dl tennis  orgoglioso anche della possibilità di congiurare il suo socialismo dichiaratamente nenniano col liberalismo di Nordio di tendenza malagodiana. I due -Nordio e Panatta in ordine rigorosamente alfabetico- potrebbero insomma definirsi liberalsocialisti come i Rosselli. O come gli scomparsi Enzo Bettiza e Ugo Intini discutendone in un libro a ridosso dei due governi di Bettino Craxi, in cui socialisti e liberali si ritrovarono insieme dopo essersi contrapposti nelle prime edizioni del centro-sinistra, col trattino di Aldo Moro.

         Sarà pure stata garrula e curiosa, ripeto, ma l’intervista di Nordio è rimasta sul gozzo a Travaglio e amici anche o soprattutto perché indicativa della tranquilla fermezza con la quale il ministro intende farsi approvare dal Parlamento la riforma della giustizia, comprensiva della separazione delle carriere di giudici e dei pubblici ministeri, e poi farla confermare dagli elettori nel referendum.

Il Centro Leoncavallo sgomberato con 36 anni o 13.140 e più giorni di ritardo

         Altro che i 30 o 31 anni di ritardo lamentati dal ministro dall’Interno Matteo Piantedosi annunciando lo sgombero finalmente attuato del famoso Circolo sociale Leoncavallo, a Milano. E partendo da chissà quale tappa del percorso: forse quella che è costata tre milioni di euro al Viminale per risarcire i danni valutati dall’autorità giudiziaria ai proprietari dell’area occupata abusivamente. Uno sgombero di cui si è vantata personalmente anche la premier Giorgia Meloni spiegando che non ci possono essere “zone franche”, esentate dalla legalità.

         Il ritardo è di 36 anni, pari a 13 mila 140  e più giorni passati dal 16 agosto 1989. Quando l’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri, non lasciandosi trattenere dal prefetto che temeva le solite tensioni e complicazioni sociali, mandò centinaia di vigili urbani a sgomberare in via Leoncavallo l’omonimo centro contro il quale alla direzione del Giorno, assunta tre mesi prima, avevo condotto una campagna per soddisfare centinaia di lettori che da ancora più tempo scrivevano sistematicamente al giornale per denunciare il disordine, spesso anche la violenza praticata da quella comunità di protestatari, anche con musica al massimo volume suonata sino a notte inoltrata. Musica naturalmente non classica.

         A Paolo Pillitteri, del quale ero amico personale, e non perchè fosse il cognato di Bettino Craxi, avendone sposato la sorella Rosilde, chiesi un giorno a bruciapelo nel suo ufficio a Palazzo Marino che razza di “città da bere” potesse essere Milano, come anche i miei collaboratori scrivevano in terza pagina fra interviste e articoli d’analisi dopo la stagione degli anni di piombo, se si tollerava per vigliaccheria, più che per sociologia, un Centro come quello noto col nome della strada in cui si era installato abusivamente.

         Peraltro da qualche giorno arrivavano a casa mia, raccolte prevalentemente da mia moglie, telefonate di minacce e di schermo, peraltro su una linea riservata, senza il numero negli elenchi degli abbonati. “Il garofano sarà reciso”, promettevano avendomi evidentemente iscritto d’ufficio al partito di Craxi e di Pillitteri.

         Nel sospetto che quelle telefonate provenissero dai leoncavallini il questore mi aveva personalmente confidato di avere chiesto alla magistratura di mettere il mio telefono sotto controllo, ricevendone un rifiuto. Che contribuì alla decisione del questore, non so se anche del prefetto, di assegnarmi una scorta. E penso anche a fare maturare ancora di più nel sindaco la valutazione dell’anomalia che ormai da una decina d’anni costituiva quel centro sociale e alternativista. Dove poi avrei scoperto, con l’irruzione politica della Lega, che si affacciava ogni tanto anche un giovanissimo Matteo Salvini, convinto che ci fossero sì violenti, come da una intervista dopo la sua elezione a consigliere comunale, ma pochi e sotto controllo. Almeno il suo, debbo presumere. Violenti riusciti a vanificare il tentativo di sgombero del 1989 e altri cento e più -esattamente 133- contati sempre dal ministro Piantedosi, mentre il centro cambiava peraltro sedi,

         Vi ho brevemente raccontato questa esperienza personale e professionale, dilungandomi, anche per farvi capire lo sgomento, a dir poco, procuratomi dalle reazioni scandalizzate a questo intervento speriamo risolutivo del governo. A cominciare naturalmente da quella di stupore e di protesta del sindaco in carica, Beppe Sala. Che ha come attenuante solo la lista dei tanti predecessori, anche di destra, succeduti a Pillitteri senza seguirne l’esempio.

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