Pippo Baudo meriterebbe l’intestazione del Ponte sullo Stretto di Messina

         Di tutte le cronache stampate dei funerali di Pippo Baudo nella sua Militello, con le piazze, le strade, i balconi pieni, e spesso affittati, i tassisti furiosi per i clienti sfuggiti al pagamento della corsa dall’alto della loro dichiarata funzione di “dirigenti Rai”, la gente adorante del morto e curiosa dei vivi famosi accorsi all’ultimo saluto, ho trovato particolarmente efficace quella scritta per Il Foglio da Carmelo Caruso. Che con quel nome inconfondibilmente siciliano si meritava di certo di essere inviato, a tutti gli effetti, sul posto per un funerale che già in sé, a prescindere dal morto di turno o d’occasione, è “la sola grande opera della Sicilia”, ha scritto Caruso. E “il lutto la molla del progresso”, tradito per il testo dai ritardi. Come quelli dei lavori all’aeroporto di Catania, ancora in corso per il fuoco che lo danneggiò due anni fa. “Solo Baudo ostinato, voleva tornarci, perfino da morto”, senza riuscirvi.

         La bara di Pippo Baudo, che vi è stato rinchiuso nello smoking di ordinanza, come nell’ultimo dei suoi spettacoli televisivi, è arrivata a Militello per strada e mare. “Qui le salme -ha concluso e ripetuto Caruso il suo racconto- sono l’unico ponte con il progresso”.   

lI ponte, appunto. Mettiamogli la maiuscola e dedichiamogli quello sullo stretto di Messina giunto finalmente alla vigilia dei suoi cantieri. Lasciamo tornare al suo posto, in viale Mazzini, davanti alla sede nazionale della Rai, il cavallo pur “morente” in groppa al quale Emilio Giannelli sul Corriere della Sera lo ha immaginato salire in cielo, e che a Fiorello mi sembra non piacere, preferendogli una statua di Pippo Baudo.  E dedichiamo piuttosto a Pippo – quello “nazionalpopolare” di cui egli stesso era fiero, anche per il carattere unitario che conteneva quella definizione contestata infelicemente da un presidente della Rai- il Ponte. Che svetterà fra il continente e la Sicilia come la Cupola di Michelangelo nel cielo di Roma o quella del Brunelleschi nel cielo di Firenze.  

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Quella fuga di Toni Negri a Parigi favorita da Craxi e Scalfaro

Agosto è tempo anche di ricordi, magari sotto l’ombrellone per chi se lo può permettere con quel che ne costa l’uso in una spiaggia a pagamento. Ricordi magari stimolati dai giornali, come quello offerto dal Foglio raccontando di Sandro Parenzo, ora  ottantunenne “magro e brevilineo, produttore, sceneggiatore, imprenditore televisivo”, sospettato fiduciosamente nel gennaio del 1984 dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi di potersi mettere in contatto con Toni Negri. Che, non più coperto da immunità parlamentare come deputato eletto nelle liste radicali, avendone la Camera autorizzato l’arresto per reati di terrorismo, stava per essere catturato dai Carabinieri. “Devi avvisarlo di non tornare a casa”, disse Craxi a Parenzo, tuttora convinto -orgogliosamente, direi- di avere compiuto la missione, affidatagli dal capo dl governo, attraverso il comune amico Nanni Ballestrini, rintracciato per telefono a Parigi. Dove Negri da latitante lo avrebbe raggiunto dopo avere evitato l’arresto in Italia.

         Senza volere smentire Parenzo, che dispone peraltro di una testimonianza notarile consigliatagli a suo tempo dal suo avvocato, spero non per fini ricattatori, di quella stessa vicenda io ho un altro racconto. Fattomi personalmente dallo stesso Craxi non d’estate, e in anni successivi alla sua esperienza a Palazzo Chigi, parlandomi del suo ex ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro.  E ciò per farmi capire quanto fossero cambiati  sorprendentemente i rapporti fra di loro con l’elezione dell’amico democristiano  nel 1992 al Quirinale, per giunta avvenuta col suo appoggio, avendolo Craxi preferito al presidente del Senato Giovanni Spadolini nel finale della  corsa alla Presidenza della Repubblica.

 Al mio rientro da Hammamet, dove avevo raccolto le confidenze di Bettino, non trovai per fortuna avvocati che mi consigliassero un notaio al quale raccontare tutto documentalmente. Ma se ne avessi trovato uno, lo avrei mandato al diavolo.

         Craxi mi raccontò che, maturate le condizioni dell’arresto di Negri, contro cui arresto aveva votato per ragioni di garantismo, si sentì chiedere un incontro da Scalfaro. Che gli prospettò l’imbarazzo, a dir poco, nel quale quel diavolo di Marco Pannella, comune amico, stava mettendo il Parlamento e, più in generale, lo Stato. Incombeva lo spettacolo di un deputato non decaduto che avrebbe preteso di essere accompagnato dal carcere alla Camera per esercitare i suoi diritti parlamentari ogni volta che li avesse ritenuti irrinunciabili. Il ministro gli comunicò pertanto che avrebbe trovato il modo di allentare la sorveglianza per consentire a Negri di fuggire, se lo avesse voluto. E di disattendere anche il progettino che aveva su di lui il leader radicale.  

         Per conciliare i due racconti, di Parenzo al Foglio e questo mio al Dubbio, posso solo pensare che Craxi s’incontrò con Scalfaro dopo avere parlato con  Parenzo. Immagino con quale sollievo, trovando il ministro dell’Interno d’accordo con lui contro la prospettiva dello spettacolo di un onorevole detenuto diviso fra cella e Camera. Diavolo di un Pannella, ripeto,  ma anche di Craxi, di Scalfaro e dello stesso Negri, poi tornato in Italia quando volle lui, e infine a Parigi per morirvi due anni fa.

         Anche a livello di teatro, o di teatrino come lo chiamava Silvio Berlusconi prima di salirvi, o di scendervi come su un campo da gioco, la cosiddetta prima Repubblica temo che abbia battuto la seconda. Lo temo per la seconda, naturalmente.

Pubblicato sul Dubbio

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