In morte di Pippo Baudo, incoronato Re della Tv… pubblica

         In morte a 89 anni compiuti il 7 giugno scorso, spentosi all’ora giusta perché l’annuncio terremotasse le prime pagine dei giornali per lasciargli lo spazio dovuto, all’altezza della sua meritata popolarità, Giuseppe Raimondo Vittorio Baudo, Pippo per gli amici e per il pubblico che lo ha applaudito per una vita, è stato incoronato “Re della Tv”. In particolare, però, della Tv pubblica, della Rai, perché quando arrivò in quella commerciale, portato da Silvio Berlusconi in persona, lui non riuscì a superare resistenze, diffidenze, ostilità vere e proprie dei suoi colleghi, alla direzione dei quali l’editore lo aveva destinato in cuor suo.

         Colpito nell’orgoglio, che aveva e produceva in abbondanza senza bisogno di aiutarsi con qualche medicina, Pippo lasciò il Biscione, anche a costo di pagare una penale pari al valore di un palazzo che aveva all’Ostiense, a Roma, ad un Berlusconi esterrefatto. Che in vita sua, contrassegnata da tanti successi, oltre che guai giudiziari, ha mancato due soli obiettivi: il Quirinale e Pippo Baudo, appunto, alla direzione artistica della sua televisione.

         Quel passaggio, pur breve e sfortunato nella Tv commerciale, costò carissimo a Baudo anche per la fatica che dovette compiere per tornare alla Rai, che pure era destinata a trarne grandi vantaggi nella competizione artistica e commerciale. Quel pur simpatico testone di Biagio Agnes si mise a creagli problemi sino a quando non cedette agli umori e alle simpatie di Ciriaco  De Mita, il Re a suo modo della Dc in quegli anni. Tutto avvenne entro le mura di Roma, senza avventurarsi in Alaska, di attualità in questi giorni, diciamo così.

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La partita un pò (troppo) truccata di Trump e Putin in Alaska

         Tutto bene per Trump e Putin, ma solo per loro, anche il giorno dopo l’incontro in Alaska, dove si sono dati entrambi il massimo dei voti senza potere tuttavia annunciare un accordo, almeno nel senso comune, abitudinario, razionale di questa parola.

A meno che, come ha sospettato o intuito Maurizio Molinari parlandone in onda su la 7, senza lasciarsi distrarre dalle esegesi sulla parte mancante del tappeto rosso sotto le scarpe di Putin sceso dall’aereo russo; a meno che, dicevo, l’accordo appartenga alla cosiddetta diplomazia segreta Un accordo così poco conveniente all’Ucraina da più di tre anni e mezzo sotto il fuoco russo e ai paesi europei che la continuano a sostenere davvero, da non poter essere rivelato. O rivelato ancora, dovendosi fare evidentemente un duro, sotterrano lavoro ai fianchi di Zelensky e dei suoi perduranti alleati per convertirli. O piegarli con la forza e la logica del fatto compiuto. O della realtà del resto già ricordata, o rinfacciata, da Trump a Zelensky nella telefonata che si sono scambiati prima ancora di potersi vedere, delle dimensioni della Russia rispetto all’Ucraina. Che potrebbe pure rassegnarsi a perdere circa un quarto del suo territorio già occupato, conquistato e quant’altro pur non interamente dai russi e dai coreani che li hanno affiancati nella “operazione speciale” per la “denazificazione” dell’Ucraina.

Dell’accordo o della parte dell’accordo più segreta potrebbe far parte, sempre per l’ex direttore di Repubblica e della Stampa, che ha ora più tempo a disposizione per occuparsi della sua specialità, che è la geopolitica, la presenza nell’Ucraina non amputata di un contingente militare europeo, non delle ormai fantomatiche Nazioni Unite, garantito anche dagli americani attraverso la Nato.  Alla quale tuttavia l’Ucraina debitamente demilitarizzata, con un esercito cioè ridotto, potrebbe non più aspirare a partecipare. Potrebbe invece, con una pratica dl resto già avviata, all’Unione europea contrastata sinora soprattutto dall’Ungheria del filoputiniano Orban. Su cui lo stesso Putin potrebbe magari intervenire al tempo debito per chiedergli di non rompere più le scatole. Di non esagerare insomma, come già raccomandava ai suoi tempi a dipendenti e amici della Francia il cardinale Charles Maurice de Talleyrand-Perigord.

L’amarcord comunista di Chicco Testa e Claudio Velardi

Con tutto il caldo che fa, e giustamente per la stagione in cui ci troviamo, pur frammisto capricciosamente a piogge e grandinate, mi tolgo il cappello di paglia di ordinanza davanti a Chicco Testa e Claudio Velardi, nell’ordine assegnato loro dall’anagrafe, per l’amarcord della loro gioventù comunista che offrono da tempo scrivendosi sul Riformista. Una corrispondenza piacevolissima, che vedrei ben raccolta in un libro sul romanticismo comunista.

Il bergamasco Chicco Testa, 73 anni, che si autodefinisce “dirigente d’azienda, ex politico”, con una passione e una competenza d’ambiente e d’energia davvero eccezionale, e una scrittura fluente che manderebbe in brodo di giuggiole Indro Montanelli, ha una memoria inesauribile della sezione milanese del Pci intestata a Carlo Marx alla quale si iscrisse nel 1972. Un po’ perché “sotto casa” e un po’, forse ancora di più, per averla scoperta frequentata da “gente normale”. Che andava a letto presto perché la mattina dopo doveva alzarsi di buon’ora per andare a lavorare. E non alle manifestazioni post-sessantottine peggiori di quelle d’origine.

Il napoletano Claudio Velardi, 70 anni, ha una memoria altrettanto inesauribile della sua sezione, rigorosamente di Napoli, che tradiva già dal nome -1° maggio, festa del lavoro- “una certa propensione -ha scritto lui stesso- più al riposo che all’attivismo spinto”.  

         Diavolo di un simpaticamente, imprevedibilmente  rompiscatole, Velardi si è guadagnato via via, nella sua adolescenza, nella sua giovinezza, nella sua maturità e ora nella sua anticamera alla vecchiaia lo stupore, l’interesse, persino l’arruolamento e alla fine il disappunto, la delusione e il sarcasmo di uomini alquanto duri di esperienza o militanza. Compreso o a cominciare da Massimo D’Alema, 76 anni, che se lo portò appresso anche a Palazzo Chigi nell’unico passaggio di un comunista, pur a denominazione ormai cambiata del partito, nella sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Spintovi da un altro uomo imprevedibile, forse il più imprevedibile della politica italiana, che fu Francesco Cossiga prima di arrivare al Quirinale, rimanendovi per quasi tutta la durata del mandato e poi trasferendosi a Palazzo Madama come senatore di diritto, avendo peraltro già presieduto il Senato da parlamentare eletto.

         In particolare, Cossiga da presidente emerito della Repubblica improvvisò un partito e relativi gruppi parlamentari, prelevandoli in maggior parte dal centrodestra di Silvio Berlusconi, per mandare a Palazzo Chigi appunto D’Alema, al posto di Romano Prodi che, caduto col suo primo governo, avrebbe voluto strappare a Oscar Luigi Scalfaro le elezioni anticipate, propedeutiche ad un altro suo governo non più condizionato dalla sinistra “parolaia” di Fausto Bertinotti, come la chiamava impietosamente il carissimo Giampaolo Pansa.

         Cossiga s’inventò D’Alema presidente del Consiglio, con Velardi al seguito, scorgendo in lui l’unico uomo della sinistra capace di fare partecipare l’Italia all’operazione militare della Nato, chiamiamola pure guerra, nella Iugoslavia smembratasi alla morte di Tito. Ma fra i risultati indiretti di quella sponsorizzazione di D’Alema ci fu anche quello, diavolo di un Cossiga, di dare al centrosinistra della cosiddetta seconda Repubblica bipolare, nata con la vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994, un assetto di instabilità quasi assoluta.

         Velardi, per tornare a lui e alla sua sezione comunista napoletana 1° maggio, dove non poteva neppure immaginare sin dove sarebbe arrivato,  pose in un’assemblea di iscritti onorata dalla presenza di un poi esterrefatto senatore Carlo Fermariello, che per poco non gli svenne accanto, il problema della “proletarizzazione della classe media”. Un problema eretico per i comunisti di quei tempi, ma destinato ad essere realizzato dalla sinistra dichiaratamente post comunista con i governi e le politiche condotte negli ultimi vent’anni, quando le è capitato di alternarsi al centrodestra o di partecipare ad esperienze tecniche ed emergenziali come furono quelle di Lamberto Dini, di Mario Monti e di Mario Draghi.

         Il problema – il dannato problema- del ceto medio proletarizzato, con stipendi e pensioni falcidiate dall’inflazione e simili, è stato ereditato non creato, come vorrebbe il solito racconto tossico delle opposizioni, dal governo in carica. Un problema impostato con quella inconsapevole, ripeto, eresia di Velardi. Che temo abbia perso via via i capelli, simpaticamente come al solito, vedendolo realizzare dai suoi amici e compagni.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 23 agosto

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