I consigli (non) richiesti di Pier Ferdinando Casini a Elly Schlein

         Con i suoi 42 anni ininterrotti vissuti fra Camera e Senato, dei 70 che compirà a dicembre, fra 4 mesi e mezzo, il mio amico Pier Ferdinando Casini può ben essere considerato il veterano del Parlamento. Il veterano forse più giovane o meno anziano, in un gioco di ossimori perfettamente compatibile con la politica.

         Democristiano sino al midollo pur con la Dc sciolta telegraficamente dall’ultimo segretario Mino Martinazzoli, rimproverato per questo persino da Umberto Bossi, che ne avrebbe ereditato con la Lega buona parte dell’elettorato al Nord, lasciandone le briciole alla Forza Italia di Silvio Berlusconi, il buon Casini ha mancato per poco, almeno in una occasione, l’obbiettivo del Quirinale.  Cui si era trovato candidato quasi inconsapevolmente, col solo precedente della presidenza della Camera, senza passaggio alcuno di governo, né come ministro né come segretario dei tanti alla nascita dei quali aveva pure contribuito sin dalla cosiddetta prima Repubblica.

         Come una volta si disse di Mario Monti arrivato a Palazzo Chigi, che fosse stato il genero ideale delle mamme tedesche per il credito guadagnatosi come commissario europeo designato dall’Italia sia di destra sia di sinistra, di Pier Ferdinando Casini si può dire che sia stato, e forse sia ancora, a quasi 70 anni di età e con più esperienze matrimomali, il genero ideale delle mamme italiane. Non gli manca di certo la simpatia, che sola può spiegare, senza le analisi politiche che forse lui preferirebbe, la capacità avuta di crearsi a Bologna e dintorni un elettorato personale che lo segue dappertutto, ovunque egli decida di chiedere o sentirsi offrire ospitalità, anche nel Pd di Matto Renzi, e poi di Enrico Letta e ora di Elly Schlein. Alla quale egli ha appena detto, in una lunga intervista ferragostana al Corriere della Sera, senza timore -credo- di rendersi irriducibilmente antipatico, se non menagramo, che non versa in buone condizioni di salute politica.

         In particolare, chiesto di quante possibilità ritenga di poter dare agli aspiranti all’alternativa al centrodestra nelle elezioni non più tanto lontane del 2027, Casini ha detto, fra l’analista e il consigliere capace di qualche utile suggerimento, ove fosse gradito: “Al momento poche, se non si cerca qualcosa di convincente”. Al prossimo Ferragosto, fra un anno, egli potrà forse dire di più, sempre che la Schlein rimanga al suo posto e non finisca per arrendersi a Giuseppe Conte prima ancora dell’ultima tappa della corsa alla leadership della coalizione di cosiddetto centro sinistra, o dei progressisti indipendenti, come lo stesso Conte preferisce chiamare quelli che furono i grillini. Indipendenti nel senso di non dipendenti dal Pd, nè alleati organici, come furono democristiani e socialisti nella cosiddetta prima Repubblica.

Trump si promuove da solo, con 10 su 10, dopo tre ore di vertice con Putin

         Tutto bene, sembra fra Trump e Putin dopo tre ore di incontro in Alaska, contro le sette programmate. E l’annuncio di un nuovo vertice, questa volta a Mosca, ha precisato Putin dopo avere accettato un territorio americano per il primo appuntamento.

Tutto bene anche nella prospettiva avanzata da Trump di una partecipazione del presidente ucraino Zelensky ai negoziati alla ricerca della pace- assunta come titolo del primo vertice-  a meno dei soliti dettagli, dove il diavolo preferisce nascondersi. Tali sono i “pochissimi problemi non risolti” ancora, annunciati dallo stesso Trump. Fra i quali si hanno buoni motivi di ritenere che ci sia quello delle garanzie all’Ucraina per la sicurezza, che non sia solo quella di un’Europa che non a caso ha chiesto di essere coinvolta anch’essa in un negoziato che per essere credibile, concreto avrebbe bisogno quanto meno di una tregua sul campo devastato da più di tre anni e mezzo di guerra d’invasione. O di “operazione speciale”, come Putin volle chiamarla facendo mettere in galera chiunque la chiamasse in Russia col suo vero nome di guerra.

         I dieci voti su dieci assegnatisi da solo da Trump in terra americana di Alaska fra sorrisi, strette di mano, occhiate e passi a tratti marziali, come per tradire una vocazione imperiale pari a quella di Putin, appartengono naturalmente più alla propaganda che alla storia, più alla scena che alla trama effettiva, più alle lucciole che alle lanterne.  

         Forse Trump, sorpreso -diciamo così- di recente nei retroscena a informarsi direttamente e personalmente della sua pratica in Norvegia, ha pensato di avere compiuto un passo, dei suoi abbastanza lunghi con questi due metri di altezza che ha, verso il premio Nobel della pace proposto per lui dal governo israeliano in guerra contro i palestinesi terroristi e, paradossalmente, quelli non terroristi che ne sono però ostaggi.  E sono più numerosi, sia vivi che morti, degli altri. Sono le tragedie delle guerre.

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