Veltroni deluso della Meloni, ma forse della Schlein ancora di più

         In un editoriale per il Corriere della Sera scritto nella sua vecchia logica del “ma anche” -che ne contrassegnò a suo tempo l’esperienza di primo segretario del Partito Democratico contribuendo forse alla sua breve durata, e alla sua restituzione alla vocazione giornalistica che era stata pure del padre-  il mio amico Walter Veltroni ha concesso qualcosa, certamente, alla campagna estiva di quella che rimane la sua parte politica contro il governo Meloni. A proposito del quale -si è lamentato- “non si può dire che la vita degli italiani e delle loro famiglia sia cambiata in meglio, o comunque sia cambiata”.

Ma Veltroni ha anche -appunto- ricordato alla sinistra che il tema, il problema, l’esigenza della sicurezza, che è quella più avvertita dalla gente, specie la più debole e indifesa, la riguarda non meno della destra. O forse anche di più appunto perché “la percezione della insicurezza” colpisce, danneggia, distorce la coscienza maggiormente di quell’elettorato che era una volta della sinistra. Ed ora, partecipe di una democrazia tentata addirittura dall’”eutanasia”, è portata a preferire la decisione di uno solo, o quasi, che comanda alla “farraginosa democrazia”.  In Italia, ma non solo, a cominciare dagli Stati Uniti di Donald Trump.

Ad occhio e croce, senza volergli forzare -o almeno forzargli troppo- la mano, il cervello e il cuore, Walter mi è sembrato rivolto nel suo editoriale più alla segretaria del Nazareno Elly Schlein che alla Meloni, al netto della polemica che ha riservato pure a lei per ragioni, diciamo così, di anagrafe politica, cioè di origini.

Da buon cronista, con la stessa efficacia narrativa messa scrivendo libri su vicende che hanno segnato molto la storia repubblicana, dalle brigate rosse al pozzo di Vermicino, Veltroni si è soffermato sull’attualità più stingente, come quella della banda di ragazzi, poco più di bambini, che con un’auto rubata a turisti francesi hanno travolto e ucciso una donna a Milano. Fatto, fattaccio sul quale ho avvertito personalmente la tentazione, leggendo le reazioni politiche, di attribuirne la responsabilità al governo Meloni, come del presunto calo del turismo in Italia e dei prezzi smodati negli stabilimenti balneari per assicurarsi un ombrellone, o semplicemente una sdraio al sole.

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Il generale Ferragosto mandato in riserva da Giorgia Meloni

E’ la terza estate consecutiva che il generale Ferragosto, promosso sul campo a Palazzo Chigi nel 1986 da Bettino Craxi, compiaciuto di essere stato da lui salvato dalla risi reclamata e ottenuta dal segretario della Dc Ciriaco De Mita, trascorre in riserva dopo la prestazione del 2022. Peraltro fallita perché la crisi del governo di Mario Draghi portò alle elezioni anticipate.

Da allora  non sono stati necessari interventi del generale, né richiesti né volontari, per risolvere o congelare situazioni  critiche, lasciando ai partiti il tempo di cambiare o confermare davvero alleanze, equilibri e quant’altro. Fra le novità del governo Meloni, il primo non solo di genere, c’è anche o soprattutto, come preferite, l’estate libera del generale Ferragosto.

         La carriera di questo alto ufficiale cominciò, non so dirvi francamente da quale grado perché non fu neppure avvertito dai cronisti, nell’estate del 1960. Quando il governo del democristiano Fernando Tambroni appoggiato dalla destra missina cadde praticamente nelle piazze con una rivolta che spianò la strada a due governi di Fanfani comunemente assegnati alla formula delle cosiddette convergenze parallele, propedeutiche al centro-sinistra, col trattino, coltivato dal segretario della Dc Aldo Moro. E sottoposto con lodevole trasparenza  all’approvazione del congresso democristiano prima delle elezioni del 1963. Dopo le quali tuttavia se i democristiani erano pronti, i socialisti non ancora per la dissidenza interna della sinistra.

         Il generale Ferragosto, o non so se ancora capitano, maggiore, colonnello, favorì la nascita del primo governo dichiaratamente balneare di Giovanni Leone, al quale seguì in autunno il primo governo “organico” di centro-sinistra presieduto da Aldo Moro.

         Tanta prudenza non bastò tuttavia a provocarne la crisi già nell’estate successiva. Quando il non ancora generale Ferragosto sconfisse un superiore che si era messo a disposizione dell’allora presidente della Repubblica Antonio Segni per garantire il controllo delle piazze nel caso in cui avesse voluto troncare l’esperienza dell’alleanza fra democristiani e socialisti con un governo elettorale di Mario Scelba. Che però rifiutò l’incarico prima ancora di riceverlo, per cui Moro, costretto per qualche giorno a dormire per prudenza fuori casa, riprese il suo percorso fino all’esaurimento ordinario della legislatura, nel 1968 della famosa contestazione.

         L’anno dopo, a proposito di contestazione, Mariano Rumor, succeduto a Moro a Palazzo Chigi dopo un secondo e ultimo governo balneare di Leone, si spaventò a tal punto all’annuncio di uno sciopero generale da dimettersi a sorpresa di tutti, per quanto avesse promesso un centrosinistra, senza più il trattino, “più coraggioso e incisivo” dei precedenti. Le elezioni anticipate, che erano il suo obiettivo, furono impedite con l’arrivo inatteso di Emilio Colombo a Palazzo Chigi.

         I partiti riuscirono a sorprendere il generale Ferragosto superando da soli dieci anni e più eccezionali di piombo. Ma, forse esausti per tanta fatica, una volta usciti dall’emergenza, tornarono ad avere bisogno di lui. Nell’estate del 1979, per esempio, prolungando la durata del primo governo di Francesco Cossiga post-solidarietà nazionale, colpito dai franchi tiratori. Per il tempo necessario a fare maturare le condizioni del pentapartito inteso come un centrosinistra allargato ai socialisti. Che tuttavia ebbe bisogno ancora dell’aiutino di quel generale per fare sopportare alla Dc i passaggi indigesti di Giovanni Spadolini e soprattutto di Bettino Craxi alla guida dei governi, fra il 1981 e il 1987.

         Alla stagione delle cosiddette mani pulite il generale Ferragosto neppure si affacciò, temendo forse di essene travolto pure lui. Seguì la magìa, anche per un generale come lui, della cosiddetta seconda Repubblica. E ora quella ancora più sorprendente del centrodestra a trazione meloniana. Col generale Ferragosto, come dicevo, ormai in riserva.

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