Il teatrino gratuito della giustizia dopo o sopra quello vecchio della politica

         C’era una volta il teatrino della politica, come il non ancora politico Silvio Berlusconi lo chiamava, irridendolo e non immaginando che poi vi sarebbe salito sopra pure lui, rendendolo più vivace, imprevedibile e rumoroso di quanto non avessero saputo fare protagonisti  e attori della cosiddetta prima Repubblica rovesciati dalle Procure della Repubblica, a volte senza essere neppure rinviati a giudizio, A volte addirittura suicidi, preferendo la morte alla gogna e/o alla cosiddetta custodia cautelare, cioè al carcere.

         Ora a furia di prenderne il posto, invadendone il campo e a suo modo legiferando interpretando le norme che sarebbe tenuta ad applicare, la magistratura ha allestito il teatrino della giustizia. Come quello nel quale si sta recitando un processo che i magistrati per primi interessati alle indagini e all’accusa sanno benissimo, non essendo né scemi né disinformati, che non si svolgerà. O almeno non in un’aula o più di tribunale. E’ naturalmente il processo sul caso Almasri, il generale libico sfuggito alla Corte penale internazionale dell’Aja per colpa, secondo l’accusa, del governo italiano deciso a fare un favore a lui personalmente e più ancora al governo del suo Paese. Di cui, non a caso, negli atti giudiziari è stata bene infilata una lettera di ringraziamento.

         Su questo teatrino della giustizia è saltata abilmente, sul piano politico, la premier Giorgia Mwloni indossando metaforicamente la divisa militare, contestando l’archiviazione disposta a suo favore e reclamando di essere processata -naturalmente nel processo che non si farà perché non autorizzato, quando arriverà il momento, dal Parlamento ancora provvisto di qualche prerogativa- con i due ministri e il sottosegretario rimasti negli ingranaggi giudiziari. I quali dovrebbero rispondere di favoreggiamento, peculato, omissione di atti dovuti e chissà cos’altro potrebbero inventarsi ancora gli sceneggiatori.

         Il processo ai ministri della Giutizia Nordio e dell’Interno Piantedosi e al sottosegretario Mantovano alla Presidenza el Consiglio non si farà, ripeto, perché esiste una larga maggioranza in Parlamento decisa a non autorizzarlo. O a impedirlo, se preferite unendovi alle proteste delle opposizioni. Ma esso -sempre il processo- si è già in gran parte svolto sui giornali con la pubblicazione degli atti e documenti d’accusa, che sopravviveranno mediaticamente con la durezza delle espressioni e delle immagini: piano criminoso e via edittando.  Gli imputati  e la stessa Meloni, a causa della corresponsabilità rivendicata ma non riconosciuta dagli inquirenti, continueranno a soffrirne, degradati dall’immaginario collettivo e giustizialista, nonché manettaro, a complici di Almsarsi, del suo governo, delle loro nefandezze eccetera, eccetera. Non so se a voi questo teatrino diverta. A me fa venire il vomito.

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L’assordante silenzio di Conte, l’opposto della Meloni nel rapporto con le toghe

Con un ossimoro non nuovo alla e nella politica avverto l’assordante silenzio, almeno sino al momento in cui scrivo, di Giuseppe Conte di fronte all’ultimo scontro avuto dalla premier con la magistratura. Alla quale Giorgia Meloni ha contestato, con un paradosso solo apparente, l’archiviazione offertale, diciamo così, nel procedimento che continua invece contro due ministri, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio, e il sottosegretario di fiducia a Palazzo Chigi Alfredo Mantovano per la vicenda del generale libico Almasri.  Che, arrestato in Italia sotto l’accusa della Corte internazionale penale dell’Aja di crimini contro l’umanità, venne liberato su disposizione della Corte d’Appello per irregolarità nella documentazione rilevate dal ministro della Giustizia. E rimpatriato d’urgenza per ragioni di sicurezza nei rapporti fra Italia e Libia.

         La stessa Meloni in una parte allusiva della sua dichiarazione contro la separazione delle sue responsabilità da quelle dei due ministri e del sottosegretario, e Matteo Salvini in modo esplicito hanno contrapposto la scelta della premier alla condotta di un altro presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nel 2019. Che scaricò proprio Salvini, anche allora vice presidente del Consiglio e in più ministro dell’Interno, anziché delle Infrastrutture come oggi, nella controversia mediatica e poi giudiziaria sulle resistenze opposte allo sbarco degli immigrati regolari soccorsi dalla nave spagnola Open arms.

         Non solo Conte scaricò Salvini attribuendosi il merito di non averne condiviso o assecondato l’azione, pur disponendo dei modi e delle occasioni per fermarlo davvero, ma poi, rimanendo a Palazzo Chigi col cambio di maggioranza in una crisi promossa dallo stesso Salvini, ne consentì in modo determinante il processo per sequestro di persona e altro nella necessaria votazione parlamentare di autorizzazione. Processo conclusosi in primo grado a favore del leader legista.

         A parte, tuttavia, questo aspetto pur non secondario della vicenda innescata dalla protesta contro la sua archiviazione contrapposta nei fatti alla prosecuzione del procedimento contro i ministri Piantedosi e Nordio e il sottosegretario Mantovano, la premier ha voluto probabilmente cogliere l’occasione offertale dalla stessa magistratura per marcarne le distanze in un passaggio della politica e della legislatura molto particolare. Della politica, perché la Meloni di frequente contesta alla magistratura di volersi sostituire al governo, per esempio nella gestione dell’azione di contrasto dell’immigrazione clandestina. Della legislatura, considerando il percorso parlamentare della riforma della giustizia. Che la Meloni, contrariamente alle tentazioni di un rallentamento attribuitele ricorrentemente dalle cronache e dai retroscena, intende fare completare in tempo per affrontare il referendum cosiddetto confermativo prima delle elezioni politiche del 2027. Un referendum che evidentemente la premier, come il suo Guardasigilli, non teme.  A buon intenditor poche parole, dice un vecchio proverbio.

Pubblicato sul Dubbio

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Il favore preterintenzionale della magistratura alla premier Giorgia Meloni

Di preterintenzionale non c’è solo l’omicidio, punito dall’articolo 584 del codice penale col carcere dai 10 ai 18 anni. C’è anche un favore o persino un miracolo. Come quello o quelli compiuti involontariamente dalla magistratura archiviando un  procedimento contro la premier Giorgia Meloni e lasciandolo aperto a carico dei ministri della Giustizia Carlo Nordio e dell’Interno Matteo Piantedosi, nonché del sottosegretario alla Presidenza dl Consiglio Alfredo Mantovano, delegato ai servizi segreti. Un procedimento per favoreggiamento, peculato, omissione a causa del rimpatrio del generale Almasri in Libia con volo di Stato dopo essere stato arrestato in Italia per reati contro l’umanità, contestatigli dalla Corte penale internazionale dell’Aja, ma rilasciato dalla Corte d’Appello per irregolarità nella documentazione rilevate, nella sua competenza, dal ministro della Giustizia.

         La separazione delle responsabilità fra quelle escluse dalle indagini a carico della premier e quelle invece ancora attribuite agli altri tre esponenti del governo, giudicabili dal cosiddetto tribunale dei ministri su autorizzazione parlamentare, ha fornito a Giorgia Meloni l’occasione, che l’interessata non si è lasciata giustamente scappare, di ripristinare un costume politico e morale alquanto travolto, a dir poco, da anni di confusione. Se non vogliamo dire di più.

         La Meloni non ha accettato di essere scambiata per quella che lei stessa ha definito “Alice nel paese delle meraviglie”, o un presidente del Consiglio al suo posto in modo inconsapevole.

         Ogni allusione -resa poi esplicita dal vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini con pubbliche dichiarazioni- era naturalmente voluta, anch’essa, a Giuseppe Conte. Che da presidente del Consiglio nel 2019, diversamente da un’analoga vicenda precedente, volle dissociarsi dallo stesso Salvini, anche allora vice presidente del Consiglio ma pure ministro dell’Interno, nella gestione dello sbarco di immigrati clandestini soccorsi dalla nave spagnola Open arms decisa a scaricarli solo in un porto italiano.  Ne derivò un lunghissimo processo, autorizzato in Parlamento col voto determinante delle 5 Stelle di Conte, non vinto ma stravinto da Salvini in primo grado con formula piena di assoluzione. 

         La difesa che la premier ha voluto fare del suo ruolo sul piano istituzionale e politico schierandosi a favore dei due ministri e del sottosegretario -che la magistratura ha voluto separare da lei, forse nella consapevolezza dell’impatto autolesionistico di un processo anche a carico del presidente del Consiglio- può segnare un punto di svolta nei rapporti fra magistratura e politica in senso lato, e fra magistratura e governo nel contesto dell’attuale quadro politico. Anzi, deve segnare un punto di svolta. E credo che la premier abbia voluto, giustamente, puntare soprattutto su questo con la sua vigorosa protesta.

         E’ ora che non solo la magistratura si assegni un limite, o si contenga, come diceva la buonanima di Silvio Berlusconi. E’ ora anche che la politica finisca di giocare da sponda in una partita cominciata sotto traccia una quarantina d’anni fa ma esplosa nel 1992 con le “mani pulite” assunte come slogan dalla Procura di Milano. Una partita diventata talmente perversa che ad un certo punto è stata la stessa politica a indurre in tentazione la magistratura. Non solo da sinistra, usandone le iniziative contro chi stava vincendo un’altra grande partita che era quella contro il comunismo. Ma paradossalmente anche da destra.

         Penso, per esempio, al Berlusconi che di fronte alle proteste da pronunciamento della Procura di Milano nel 1994 rinunciò alla conversione di un decreto legge contro le manette facili. O al vanto fattosi in questi giorni da Gabriele Abertini, che pure stimo molto, di avere governato il Comune di Milano in un rapporto “simbiotico” con la procura della Repubblica.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 9 agosto

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