Ed ecco a voi il “clerico melonismo” che toglie il sonno alla sinistra

Metti insieme tasselli come la giornata particolare di Matteo Salvini in Vaticano, preceduta da quella di Antonio Tajani, e prima ancora da quella di Giorgia Meloni, poi andata a fare i bagni a Rimini nelle acque  di Comunione e Liberazione  fra standing ovation di un pubblico prevalentemente giovanile, e uno come Marco Damilano, un giornalista di sinistra cresciuto in una famiglia democristiana di vecchio stampo, ne ricava un mosaico intitolato su Domani, il giornale col quale Carlo De Benedetti si consola della perdita di Repubblica, “clerico melonismo”.

         Che nelle prime reazioni della cattolica “adulta” Rosy Bindi è stato sospettato di attingere cultura, rapporti e quant’altro nel sottosegretario di maggiore fiducia della premier che è Alfredo Mantovano, ma che Damilano ha attribuito al vecchio ma sempre operativo, fra interviste, incontri e telefonate, cardinale Marcello Ruini. L’unico -deve avere pensato il giornalista forse non sbagliando, chissà- che può avere immerso il biscotto della Meloni nella storia dell’Azione Cattolica e delle sue divisioni sulla cosiddetta “scelta religiosa”, che avrebbe troppo ristretto le visioni e le scelte dei fedeli impegnati in politica, destinandoli per esempio nel 1974 , dopo molti ma inutili tentativi di evitarla, all’avventura referendaria contro il divorzio. Perduta  da un Fanfani saltato come un tappo dalla bottiglia di champagne della storica vignetta di Sergio Forattini su Paese sera.          Bindi ancor più di Damilano, scrivendone in una lettera ad Avvenire seguita a un’intervista alla Stampa, ha sofferto il ricordo di quelle divisioni nel mondo cattolico -o “clericale” nel lessico di Domani– ed esortato la stessa Meloni e i suoi consiglieri, ispiratori e quant’altro, laici o religiosi che siano, graduati e non, a resistere alla tentazione di riproporle e praticarle.

         Pensate un po’ di quanto sono capaci i moisaicisti -li chiamerei- del rosiconismo, terrorizzati dalla bravura della Meloni, e dei suoi alleati di governo, compreso il Salvini dei rosari e delle immaginette che tira fuori durante i comizi- nell’”occupare i vuoti”, come lo stesso Damilano ha scritto- creati in quello che una volta veniva chiamato e considerato l’elettorato cattolico. Ed ora è più semplicemente, ma più drammaticamente per la sinistra accasatasi nel Pd di Elly Schlein, l’elettorato nazionalpopolare, come l’allora presidente socialista della Rai Enrico Manca chiamava il pubblico del vitalissimo e già campione di ascolti Pippo Baudo.

La giornata particolare, molto particolare, di Salvini in Vaticano

         E’ più, molto di più di una foto di opportunità quella dell’udienza concessa in Vaticano dal Papa a Matteo Salvini, accompagnato dalla figlia Mirta, dal tesoriere della sua Lega Alberto Di Rubbia, e dal capo del suo ufficio di segreteria Daniele Bertana. Mancava solo il suo amico Stefano Beltrame, proprio in quelle ore -o quasi- nominato dal governo ambasciatore d’Italia a Mosca, dopo esserlo stato a Vienna e assistito da diplomatico il ministro, sempre leghista, dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Un giornata insomma che non poteva essere migliore per il leader leghista, vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, reduce da passì, iniziative e altro che avevano messo in serie difficoltà la premier, rimasta in silenzio anche di fronte alle proteste ufficiali della Francia per attacchi rivolti dallo stesso Salvini al presidente Emmanuel Macron. Che non intendeva e non intende  rimanere attaccato al tram, dove lo aveva sistemato a parole  il leader leghista per la sua smania di mandare truppe in Ucraina e rendere più visibile, più concreta, più efficace la difesa europea del paese da più di tre anni sotto invasione e fuoco della Russia di Putin.

         Già la decisione di Papa Leone XIV di riceverlo in Vaticano, sia pure dopo un’udienza ufficiale alla premier Giorgia Meloni e una privata al vice presidente forzista del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, è stata per Salvini gratificante, a dir poco, specie nel contesto già accennato della politica estera italiana. Che è di pertinenza della premier a Palazzo Chigi e di Tajani alla Farnesina, come rivendicato continuamente dallo stesso Tajani, ma di cui Salvini rivendica il diritto di occuparsi pure lui come leader di partito nella coalizione di maggioranza ed esponente del governo. Col quale non a caso il Papa si è soffermato a parlare anche, se non soprattutto di politica estera.

         Per sottolineare, questa volta nel contesto non di questa stagione politica ma della storia quasi ottantennale della Repubblica, l’importanza della nomina di un diplomatico di simpatie leghiste, a dir poco, a Mosca in piena guerra con l’Ucraina è forse il caso di ricordare la caldissima estate del 1964. C’era la “guerra fredda” fra la perdurante Unione Sovietica e un Occidente ancora guidato saldamente dagli Stati Uniti. Non un leader qualsiasi della maggioranza di centro-sinistra, ancora col trattino, guidata da Aldo Moro, e appena ricompostasi a chiusura di una crisi nella quale si erano sentiti i famosi “rumori di sciabola” riferiti dal vice presidente socialista del Consiglio Pietro Nenni, ma il presidente della Repubblica Antonio Segni non riusciva a fare nominare il suo amico Federico Sensi ambasciatore a Mosca. Se ne lamentò col ministro degli Esteri Giuseppe Saragat. Che, presente un Moro particolarmente imbarazzato, gli ripose tanto male, anche per come aveva gestito la crisi appena conclusa, da procurargli un ictus da quale il capo dello Stato non si riprese più. E fini sostituito in meno di sei mesi dallo stesso Saragat.

L’epilogo inconsapevole della storia democristiana nella destra di Meloni

Ad un libro commissionatomi  nel 1979 per le edizioni del Giornale –“Dc contro Dc”, come il Kramer contro Kramer di quell’anno nelle sale cinematografiche- Indro Montanelli appose una sola correzione. Nel sottotitolo, che da “Miserie e splendori di un partito di cera”, da me proposto pensando alla capacità che aveva lo scudo crociato di adattarsi alle situazioni e di interpretare la maggioranza sostanzialmente moderata dell’elettorato, pur in presenza di correnti di sinistra, Montanelli preferì la dizione di “partito di gomma”. Per la capacità che aveva avuto e aveva ancora la Democrazia Cristiana, anche con l’aiuto  del “voto a naso turato” da lui procuratole per proteggerla dal pericolo concreto del sorpasso comunista, di assorbire i colpi, di ammortizzarli.

         Non dimentichiamo che non più tardi di quattro anni prima, nel 1974, la Dc appena tornata nelle mani o nelle redini di Amintore Fanfani, dopo una lunga segreteria del suo ormai ex delfino Arnaldo Forlani, aveva subìto la pesantissima sconfitta referendaria sul divorzio. Che l’aveva resa debole anche a quella specie di assedio che le aveva posto Enrico Berlinguer con la proposta del “compromesso storico”. Passata nella modesta e provvisoria variante della cosiddetta maggioranza di “solidarietà nazionale”, comprensiva appunto del Pci, che consentì allo scudo crociato di governare fra il 1976 e l’inizio del 1979 con due monocolori, interamente composti cioè da democristiani, sotto la guida di Giulio Andreotti.

         Scomparsa la Dc a cavallo fra il 1993 e il 1994 con lo scioglimento telegrafico disposto dal suo ultimo segretario Mino Martinazzoli, illuso di poterla fare rivivere nel vecchio, quasi archeologico contenitore del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, mi è toccato di seguirne le tracce, a destra e a sinistra, ma in verità più a destra che a sinistra, almeno in termini elettorali. Le tracce, per esempio, nella Forza Italia, specie originaria, di Silvio Berlusconi, che esordì preferendo personale politico proveniente dalla Dc per guidare i primi gruppi parlamentari del suo partito. Contemporaneamente tracce anche nell’apparentemente lontana o opposta Lega di Umberto Bossi, che pescò in acque democristiane i suoi primi amministratori locali.

         Ora analisti politici anche di un certo peso ed equilibrio, come l’Antonio Polito del Corriere della Sera o il Claudio Cerasa del Foglio citati ieri nel suo editoriale da Mario Sechi, avvertono odore o sapore democristiano in Giorgia Meloni e, più in generale, nei suoi Fratelli d’Italia. Che si trovano peraltro nelle stesse dimensioni elettorali della Dc all’epilogo della sua vicenda, cioè nelle ultime elezioni politiche affrontate col proprio nome, nel 1992. Ma è ormai un’altra storia, anche perché, diciamo la verità, l’elettorato democristiano è ormai consunto per ragioni naturali, anagrafiche.

         Gli applausi raccolti a scena aperta dalla premier a Rimini -che hanno fatto strabuzzare occhi e altro ancora a Rosy Bindi, facendole dare  alla Meloni della “bella più che bugiarda”, come una volta Vittorio Sgarbi e Berlusconi diedero a lei, presidente del Pd, della “bella più che intelligente”- non sono giunti da un pubblico di anziani o di “anziani giovanotti”, come Amintore Fanfani chiamava e sfotteva i dirigenti del movimento nominalmente giovanile della Dc. Il pubblico ciellino di Rimini   raccoltosi in standing ovation attorno all’ospite giunta lì per la prima volta da presidente del Consiglio era davvero giovanile. Un pubblico che non ha fatto in tempo neppure a votare una volta per la Dc, 33 anni fa.

         Della Democrazia Cristiana, della sua cultura, della sua capacità di essere cera e gomma insieme, per tornare al mio vecchio, vecchissimo, antico libro sulla “Dc contro Dc” passato agli esami di Montanelli, che era alquanto esigente in materia, la Meloni ha ereditato di fatto quella “forza tranquilla” avvertita dalla maggioranza del Paese. Una forza capace di guidarlo, nell’assenza di un’opposizione realistica lamentata persino da un professore come Romano Prodi, “in mezzo ai barracuda e agli squali” segnalati, sempre ieri, da Mario Sechi.

Pubblicato su Libero

Le mine in Ucraina possono pur attendere, anzi aumentare

         Anche a costo, o forse proprio per ostacolare all’amico Donald Trump, nonostante tutta quella cordialità ostentata in Alaska da entrambi, la corsa al premio Nobel della pace proposto per lui, peraltro, da uno specialista di guerre com’è costretto dalle circostanze ad essere il premier israeliano Nethanyau, lo zar Putin di tutta la Russia, che però non gli basta, sta esercitando come più. e peggio, non poteva il suo “diritto all’offesa”. Come gli attribuito Stefano Rolli con sagacia nella vignetta di oggi sulla Stampa.

         Non passa giorno, forse neppure ora, senza che piovano bombe, a grappoli e non,  missili, droni e altro ancora sulla “martoriata” Ucraina, come diceva il compianto Papa Francesco, pur rimproverandole troppo interesse per la Nato,  e ripete Papa Leone XIX dal giorno della sua elezione.

         Gli obbiettivi, tutti definiti “militari”, anche ospedali e scuole, senza sotterranei trasformati in basi d’artiglieria come a Gaza, sono selezionati sempre con maggiore perfidia, come ieri a Kiev colpendo la sede di rappresentanza dell’Unione Europea, così impegnata a sostenere la resistenza di Zelensky all’invasione russa. Come per diffidarla a proseguire negli sforzi e a indurre Trump alla “tentazione” non dico di tornare al predecessore e odiato Biden, ma di riavvicinarsi davvero a Zelensky, non più limitandosi a riceverlo alla Casa Bianca, o altrove, senza insultarlo come a febbraio scorso, se non ricordo male.

         In questo quadro o scenario di esercizio del diritto all’offesa -ripeto- si allontana naturalmente anche la prospettiva di un contributo italiano, a conflitto terminato o quanto meno sospeso, a sminare l’immenso territorio ucraino disseminato di simili ordigni della stessa Ucraina e della Russia.

Perché non ci fossero dubbi si è esposta in senso negativo la stessa premier Meloni, anche a costo di smarcare questa volta non l’abituale presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini ma quello forzista, e ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Che, dal canto, si è subito adeguato osservando o scoprendo che c’è tempo per decidere. Sempre più tempo.

Rosy Bindi giocherella a fare Sgarbi…con ritardo a Giorgia Meloni

         Il tempo passa ormai così rapidamente che sembra archeologia parlare di 16 anni fa.  Quando Vittorio Sgarbi diede a Rosy Bindi, ancora sotto i 60, della “più bella che intelligente”. Che significava dubitare impietosamente sia dell’una che dell’altra.

         Rosy Bindi, allora presidente del Pd ma già ministra della Sanità del primo governo di Romano Prodi, proveniente naturalmente dalla sinistra democristiana, finse di stare allo scherzo. Ma quando la battuta fu ripetuta in televisione da Silvio Berlusconi  il bersaglio perse le staffe e si prese tanto sul serio anche sul piano fisico da definirsi “indisponibile”. Come se l’allora presidente del Consiglio l’avesse voluta corteggiare e arruolare fra le disponibilissime olgettine nelle allegre serate di Arcore e dintorni.

         Oggi Rosy Bindi ha 74 anni, peraltro ben portati, e ancora voglia di partecipare al cosiddetto dibattito politico fra interviste e passaggi per qualche salotto televisivo, fiera delle sue idee, sempre le stesse, e anche delle esclusioni, come dai raduni riminesi dei ciellini. Che evidentemente la considerano una cattolica troppo “adulta”- come disse di lei e di se stesso Prodi- per starle dietro. Ma, per quanto fiera di questa esclusione, sembra averle dato troppo fastidio l’accoglienza appena ricevuta a Rimini alla premier Giorgia Meloni, come se fosse “una figlia della balena” bianca, cioè della Dc, come si è divertito a scriverne sul Foglio il direttore Claudio Cerasa, e non una sorella dei più noti  fratelli d’Italia.

         Brava, tempestiva e quant’altro nel farsi piacere dal pubblico ciellino, la Bindi parlandone alla Stampa le ha dato della “più bella che bugiarda”. Una battuta, in verità, più che da Sgarbi, da Gigi Marzullo. Che in televisione si diverte a porre agli amici, spesso spiazzandoli, domande di una certa stravaganza e insieme complessità.

         La “bugiarda” praticamente data dalla Bindi alla Meloni sarebbe meritata perché la premier, a Rimini ha rispettato l’abitudine di “lisciare il pelo al pubblico a cui sta parlando”. E alla intervistatrice che le faceva notare che “questo lo fanno un po’ tutti i politici” ha risposto piccata: “No. Un bravo politico, una donna di governo, dice le stesse cose a tutti, trovando una sintesi in cui possa riconoscersi l’intero Paese”. O solo l’intero partito, se è un uomo o una donna non di governo ma solo di partito, appunto. Come la segretaria del Pd Elly Schlein.

A proposito di quest’ultima, la Bindi le ha ricordato abbastanza criticamente, fra l’altro, “che un partito che si candida a governare il Paese dovrebbe tenere i rapporti col mondo cattolico italiano, con la Cei e con il Vaticano. Nei grandi partiti del passato c’era un dirigente incaricato di quelle relazioni”. Che la Meloni ha forse l’inconveniente, agli occhi della Bindi, di tenere direttamente col Papa: prima l’argentino Francesco e ora l’americano Leone XIV.

Quella sintonia con Draghi che Meloni ha voluto preservare

Fra i “nuovi mattoni” con i quali continuare a costruire “la casa europea cominciate da altri” -ha detto la premier Giorgia Meloni nel suo applauditissimo discorso al raduno annuale dei ciellini- ci sono evidentemente anche quelli di Mario Draghi, suo predecessore a Palazzo Chigi. Dal quale raccolse quasi tre anni fa le consegne in modo oltremodo cordiale, direi compiaciuto da parte di entrambi. Un Draghi di cui la Meloni a Rimini ha condiviso anche l’analisi spietata di un’Europa “evaporata” nella presunzione di una forza derivante da un mercato di quasi cinquecento milioni di consumatori. Evaporata nel confronto col presidente americano Donald Trump e con le guerre che egli non riesce a spegnere né in Ucraina né in Medio Oriente, pur essendosi vantato di averne risolte altre. Difficilmente sufficienti -temo per lui- a garantirgli quel premio Nobel della pace cui aspira tanto, con la designazione da parte del governo israeliano, da essersi esposto in qualche intervento personale rimproveratogli dalla stampa internazionale.

         Eppure l’analisi spietata di Draghi davanti alla stessa platea della Meloni, ma qualche giorno prima, era sembrata poco affine alla linea tradizionale della premier italiana, non più “sovranista” come un tempo ma ancora abbastanza per preservare buona parte delle sue relazioni internazionali e l’alleanza di governo, in Italia, con quel sempre più ingombrante e insofferente Matteo Salvini.

Il fatto che la premier abbia tenuto pubblicamente a condividere il quasi funerale dell’Unione europea celebrato da Draghi è forse il più sorprendente, significativo, paradossale e quant’altro di questa stagione politica, in uscita da un’estate di fuoco e verso un altro autunno forse caldo, come altri della vecchia prima Repubblica e un po’ anche della seconda in corso.

L’unione, per quanto acrobatica, fra la delusione di Draghi e la speranza europeistica della Meloni si trova un po’ nella lettura che di Draghi ha appena dato, in una lunga intervista al Corriere della Sera, l’ex premier, pure lui, Mario Monti. “L’Europa ha detto il senatore a vita, già commissario italiano a Bruxelles su destinazione bipartisan, prima da destra e poi da sinistra- è già caduta nella irrilevanza ma non è condannata a restarci”.

Ecco il punto, il terreno, il sentiero, per quanto stretto, su cui la Meloni si ritrova con Draghi, e con lo stesso Monti. Un sentiero che potrebbe procurare ad un europeista dichiarato come Antonio Polito, del Corriere della Sera, gli stessi “brividi”, o qualcosa di simile, avvertiti e confessati scrivendo dell’accoglienza riservata dai ciellini alla Meloni dopo quelli a Draghi. Brividi non so se più di paura o di speranza. Un po’ come quelli che a distanza ha avvertito e sta avvertendo probabilmente un altro europeista come il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, appena rientrato pure lui dal suo ritiro dolomitico di estate.

Pubblicato sul Dubbio

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La premier Giorgia Meloni incoronata regina…di Rimini

         Solo il mio amico Piero Sansonetti, riportando la sua Unità molto indietro negli anni, anche a quelli che spesso egli  ha mostrato di non rimpiangere, ha liquidato il discorso pronunciato da Giorgia Meloni al raduno annuale  e riminese di Comunione e Liberazione – di ritorno da vacanze che non l’hanno mai allontanata in verità dall’attività politica, specie di natura internazionale- ha avvertito, lamentato, denunciato nelle sue parole, e negli applausi raccolti, una “Italia reazionaria, autoritaria e bigotta”.

         Magari, Piero avrà trovato una conferma al suo giudizio nei “brividi” avvertiti da Antonio Polito sul Corriere della Sera” riferendo dell’accoglienza riservata dai “ragazzi” ciellini ad una Meloni ormai avviata sulla strada di una sostanziale democristianizzazione, in una marcia di avvicinamento ai “popolari europei”. Con i quali non a caso si è ritrovata appoggiando la presidente della Commissione dell’Unione, Ursula von der Leyen, e instaurando con lei un rapporto privilegiato, un po’ come quello stabilito oltre Oceano col presidente americano Donald Trump.

         Ma fra tutte le reazioni politiche e mediatiche, che lui di solito riesce ad esprimere al massimo essendo fra i giornalisti il più politico per provenienza e quasi indole, quella più rilevante è di Giuliano Ferrara. Che sul Foglio fondato negli anni del berlusconismo, cui contribuì consigliando il Cavaliere, scrivendogli i discorsi, tentando rapporti dove non arrivava Gianni Letta, cioè a sinistra, ha riconosciuto nella Meloni di Rimini “la donna giusta al posto giusto”, specie nella politica estera italiana. Una donna “pragmatica”, ostinata, preparata, moderata più che conservatrice, proiettata verso una “egemonia” diversa naturalmente da quella teorizzata a sinistra dalla buonanima di Antonio Gramsci, ma pur sempre indicativa di una vera forza politica.

         “Non la voto ma mi adeguo”, ha concluso Giuliano, che temo preferisca nella cabina elettorale la segretaria del Pd Elly Schlein, perdonandole anche quella Europa “comunità hippy” che a lui non piace. O ne diffida. Ma alla Meloni, di cui hanno incuriosito il già ricordato Polito “i nuovi mattoni” con i quali ha raccontato a Rimini di volere costruire in Europa, compresa l’Italia, “una casa che non abbiamo iniziato noi” della destra; alla Meloni, dicevo,  quel Giuliano Ferrara che comunque si “adegua” potrebbe andare bene lo stesso. Forse anche meglio di quel suo vice presidente leghista del Consiglio, Matteo Salvini, che sotto sotto, nonostante le frenate che ogni tanto concede, si adegua meno, e le procura più danni o problemi.

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L’opposizione della Schlein che non c’è, e che Romano Prodi reclama

Giorgia Meloni, si sa, avvertì la sua vocazione politica ad appena 15 anni per la morte di Paolo Borsellino, un magistrato orgogliosamente di destra ucciso nel 1992 nella strage mafiosa di via d’Amelio a Palermo. Seguita a quella di Capaci, sempre di mafia, in cui era stato ucciso il collega ed amico Giovanni Falcone. 

         Elly Schlein, l’antagonista in concorrenza con l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nostalgico di Palazzo Chigi da quando dovette lasciarlo a Mario Draghi, è stata meno precoce di Giorgia Meloni. Non a 15 ma a 23 anni, già munita di tre passaporti,  s’invaghì della campagna elettorale di Barak Obama a Chicago, nel 2008, partecipando anche a quella successiva per la conferma del presidente americano.

         In Italia Elly, per gli amici, dovette accontentarsi di Romano Prodi. Che nel 2013, reduce da due governi di breve durata a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, e da un mandato consolatorio, rimediatogli da Massino D’Alema che lo aveva sostituito nel 1998 a Palazzo Chigi, di presidente della Commissione europea a Bruxelles, tentò con apparente distacco anche fisico, non ricordo più bene se dall’Africa o dalla Cina, la scalata al Quirinale. Per quanto candidato dall’allora segretario in persona del Pd Pier Luigi Bersani col rito abbreviato dell’acclamazione, Prodi fu tradito dai cosiddetti, immancabili “franchi tiratori”. In guerra lo chiamano “fuoco amico”.

         La Schlein, reduce a 28 anni dai fasti americani e ormai decisa a contenersi nei confini italiani, rimase basita. La delusione di Prodi, che fingeva rassegnazione e indifferenza, procurò la tarantola alla Schlein. Che lanciò una campagna di occupazione di protesta delle sezioni del Partito Democratico, con l’obiettivo forse anche di arrivare sino al Nazareno, la sede nazionale. Con quella vicinanza fisica al Quirinale che poteva rendere l’occupazione in qualche modo riparatrice, sul piano simbolico, del torto subito da Prodi.

         Paolo Borsellino dall’aldilà, cui credeva da buon cristiano, credo abbia  buone ragioni per essere soddisfatto di quella ragazza inconsapevolmente avviata alla politica e arrivata in soli 30 anni a Palazzo Chigi, la prima donna nella storia d’Italia, e di destra, dopo essere stata anche vice presidente della Camera e ministra, O ministro, come probabilmente preferirà leggere per la sua nota preferenza al genere maschile di queste cariche istituzionali.

         Non così Prodi, felicemente vivo e in salute a 86 anni compiuti il 9 agosto scorso, nei riguardi della “sua” Elly Schlein. Alla quale non può non avere pensato, con quella memoria peraltro di elefante che gli attribuiscono anche gli amici, dicendo non più tardi dell’altro ieri, in una intervista pubblicata il giorno dopo su Repubblica, che manca in Italia un’opposizione. “Il centrosinistra- gli ha chiesto Claudio Tito- che cosa dovrebbe fare in Italia per fermare questa deriva” appena lamentata da Prodi in senso e segno autoritario, sul modello trumpiano? Senza avere naturalmente, a livello italiano ed europeo, i soldi e tutto il resto di Trump. “Esistere, basterebbe esistere”, ha laconicamente, tragicamente risposto Prodi, immagino contorcendo il viso come solo lui sa fare quando è giù di corda e cerca di trascinarsi appresso nello sconforto l’interlocutore di turno.

         La povera Schlein salta da una piazza all’altra, da un corteo all’altro, da un convegno all’altro, da un microfono all’altro, da una telecamera all’altra, non cambiando mai soltanto la sua addetta ai colori del proprio abbigliamento, e quel distratto, ingrato di Prodi le dà praticamente del fantasma, come a tutti gli altri inutilmente aspiranti all’alternativa di cosiddetto centrosinistra. Che come definizione peraltro va troppo stretta o troppo larga, secondo i giorni e gli umori, al già ricordato Conte. Che vorrebbe una carovana di “progressisti indipendenti” l’uno dall’altro, dipendenti solo dal caso in una eventuale, improbabile vittoria elettorale.

Pubblicato su Libero

L’affollatissima festa…anche politica del cane

         Ciascuno ha partecipato ieri a suo modo, consapevole o non, alla giornata mondiale, cioè alla festa del cane. La deputata ed ex fidanzata, quasi moglie di Silvio Berlusconi diffondendone per internet una fotografia festosa con i suoi Dudù, chiamiamoli così tutti col nome del più celebre o fortunato. Che fu trattato giocosamente una volta a Roma persino da Putin, prima che l’ospite si scoprisse Pietro il Grande e facesse concorrenza anche a Stalin inghiottendo i vicini. E riuscendo per un po’ a convincere della loro pericolosità anche l’amico Berlusconi. Che cominciò a parlare pure lui del presidente ucraino Zelensky, tra l’imbarazzo di amici e alleati,  come di un “signore” troppo agitato che poteva essere sostituito rapidamente da “qualcun altro” , lasciato magari scegliere dallo stesso Putin risparmiandogli la fatica di una guerra di conquista troppo lunga e sanguinosa.

         Non so se Prodi  -Romano Prodi, 86 anni compiuti in questo agosto, due volte ex presidente del Consiglio  per breve tempo e una volta ex presidente della Commissione europea per  più tempo- abbia o abbia avuto un cane pure lui. Ma egli  ha partecipato alla festa con una intervista alla Repubblica, quella di carta, una volta tanto equanime considerando la sua abitudine di pensare, dire male e preoccuparsi solo o prevalentemente della destra. Una volta tanto, bontà sua, nel confermare la sensazione o, direttamente, “lo slittamento autoritario” del governo in carica in Italia-  ispirato anche a quello di Trump negli Stati Uniti, amico del resto della premier Giorgia Meloni sedutagli accanto, a sinistra, nel recente vertice euro-americano alla Casa Bianca sull’Ucraina- lo ha attribuito anche alla “inesistente opposizione”: non proprio un complimento per la segretaria del Pd Elly Schlein, il suo concorrente Giuseppe Conte alla guida dell’improbabile governo alternativo e tutti gli altri aspiranti a partecipare al cosiddetto “campo largo” del cosiddetto, pur esso, centrosinistra prenotando o conquistando un posto nella “tenda” offerta ai moderati dall’infaticabile, generoso, ispirato Goffredo Bettini.

         “Esistere, basterebbe questo”, ha laconicamente e tragicamente detto Prodi dell’opposizione, per niente incoraggiato -credo- dalla esistenza che contemporaneamente la Schlein riteneva invece di costruire concedendo a Conte per il suo amico pentastellato Roberto Fico, già presidente della Camera, la candidatura al vertice della regione Campania, prossima alle urne.  E promettendo in cambio al presidente uscente, resistente e compagno di partito Vincenzo De Luca l’insediamento del figlio Pietro, già pieno di incarichi e competenze, vere o presunte, alla segreteria regionale del Pd tanto agognata dal padre.

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Le scuse ormai insufficienti di Israele per i troppi morti a Gaza

         Per gli amici di Israele, quelli veri, che non hanno commesso l’errore di difenderne il nome e la causa della sopravvivenza ignorando in prima pagina sui giornali la notizia, quella di ieri è stata una giornata durissima. Sotto certi aspetti persino peggiore del 7 ottobre di ormai due anni fa, quando tutto in un certo senso cominciò, o ricominciò, col pogrom osceno rivendicato dai terroristi di Hamas, che uccidono in Israele, stuprano, seviziano, sequestrano persone  e difendono i palestinesi – pensate un po’- usandoli come scudi umani contro Israele che reagisce.

         Il doppio attacco israeliano di ieri contro un ospedale della striscia di Gaza, provocando una ventina di morti fra cui cinque giornalisti che non vi erano ricoverati ma stavano facendo il loro mestiere di vedere e raccontare una guerra, è stato semplicemente orrendo. Persino il premier israeliano Netanyau, dopo un iniziale tentativo di negare l’evidenza, ha dovuto alla fine ammettere l’errore e scusarsi.

         Ma le scuse, certamente preferibili a quelle che, per esempio, Putin non è neppure tentato di chiedere per quello che sta facendo in Ucraina- di chiedere anche al suo interlocutore principale, il presidente americano Donald Trump, nella ricerca di una soluzione del conflitto- non sono sufficienti. Non lo sono più in questa fase della guerra. Non lo sono più se non accompagnate con lo svelamento dei responsabili e la loro punizione. Altrimenti sono solo chiacchiere, utili solo a danneggiare ulteriormente la causa pur tragicamente giusta della sopravvivenza di Israele.

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