Il Corriere della Sera corregge il tiro sulla guerra di Israele all’Iran

         Al Corriere della Sera, nella Sala Albertini e dintorni, nei piani alti e bassi di via Solferino ci sono voluti tre giorni di cronache di guerra dal Medio Oriente, e i supplementi di notizie più o meno diplomatiche sulla possibilità di una fuga dell’ayatollah Kamenei a Mosca, come quella del dittatore siriano Assad, per porsi il problema di una correzione di linea dopo il monito del due volte ex direttore Paolo Mieli a Israele a non illudersi di potere rovesciare il regime a Teheran con la forza. Il compito è stato affidato ad Angelo Panebianco con un editoriale scritto in punta di penna, come si diceva prima dell’uso del computer. Contestando l’ex direttore con l’aria di proseguirne il ragionamento e attenuarne in senso pessimistico la conclusione. Come se fosse preferibile tentare il rovesciamento o l’implosione di un pericoloso regime aspirante peraltro alla bomba atomica riempiendo di proteste le piazze romane. Dove peraltro non si è riusciti di recente a strappare ai promotori di una manifestazione a sostegno di Gaza il consenso a cartelli e documenti di condanna esplicita dell’antisemitismo.   

         “Se è assai dubbio -ha scritto Panebianco pensando anche a Mieli senza nominarlo- che l’azione militare di Israele possa provocare da sola il crollo del regime iraniano (a memo di divisioni forti entro la sua classe dirigente), può invece provocare un pesante ridimensionamento del suo ruolo internazionale, può comprometterne lo status di potenza regionale. Non è detto che ci riesca ma forse può impedire all’Iran di diventare in tempi rapidi una potenza nucleare. Può inoltre indebolire la sua capacità di sostenere gruppi armati esterni”. E indebolire anche “la capacità dell’Iran -ha ricordato Panebianco allungando lo sguardo ben oltre il Medio Oriente- di continuare a rifornire la Russia dei droni che le servono per colpire l’Ucraina”. Vi pare poco, coi tempi che corrono?

         Se “occorre comunque diffidare della semplicistica idea secondo cui sia sufficiente un intervento militare esterno per provocare un mutamento di regime”, è sembrato concedere Panebianco al suo ex direttore, occorre anche diffidare dell’altrettanto semplicistica idea di risparmiarsi la forza per difendersi dal malintenzionato di turno, scommettendo sulla sua stanchezza o sul suo ravvedimento.

         Bentornato al Corriere della Sera, direi, alla realtà. E buon viaggio a Kamenei a Mosca, se davvero Putin è disposto ad accogliere pure lui, magari d’accordo col solitamente imprevedibile Trump.

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Il pessimismo della ragione di Paolo Mieli e l’ottimismo della volontà di Israele

Le sorprese si inseguono e si sommano come bambole in una gigantesca matrioska di fronte al disordine delle guerre a pezzi sempre più ravvicinati. Che Papa Francesco, morendo in tempo, si è risparmiato di vedere nei loro sviluppi e di denunciare con quel poco di forza e di voce che gli erano rimaste. La sorpresa, per esempio, del presidente americano Donald Trump che, pur non essendo riuscito a strappare davvero a Putin una rinuncia alla guerra all’Ucraina, neppure dopo averne rovesciato il ruolo da aggressore ad aggredito, ha mostrato di prenderlo sul serio come mediatore fra Israele e Iran in guerra. Anzi, nella fase più diretta e trasparente, direi, di una guerra che si trascina da tempo. Sarei tentato di dire “finalmente trasparente” se non vi fossi umanamente e decentemente trattenuto dalle dimensioni del conflitto, dalla quantità dei morti e delle distruzioni e dalla imprevedibilità da brividi dei suoi effetti.

         La sorpresa, per rientrare nei confini del nostro disordine interno, cioè nei confini della polemica e del dibattito di casa nostra, e più in particolare a livello mediatico, dell’insospettabile amico Paolo Mieli, due volte direttore del Corriere della Sera, col suo passato familiare e personale di sostenitore della causa israeliana. Egli è passato dal disagio procuratogli da Israele, appunto, per le dimensioni della guerra a Gaza, provocata dal pogrom del 7 ottobre 2023, all’attacco alla dichiarata volontà di Netanyahu di impedire la bomba atomica all’Iran e insieme determinare la caduta di un regime che ha promosso a religione l’odio per gli ebrei.

         Il discorso cominciato sul Corriere della Sera da Paolo Mieli è stato portato avanti sullo stesso giornale da Lorenzo Cremonesi per aggiungere ai ricordi delle esportazioni della democrazia fallite in Irak, in Afghanistan, in Libia quello che ha coinvolto più direttamente Israele in Libano. Dal quale dovette a suo tempo fuggire Arafat e dove poi gli iraniani hanno potuto a lungo disporre del loro braccio armato contro Israele. Ma nella stessa Gaza, ha praticamente ricordato Cremonesi, gli israeliani hanno preferito Hamas alla cosiddetta Autorità Palestinese, con tutte le maiuscole al loro posto, per trovarsi alla fine nella situazione del peggiore isolamento nel tentativo di venirne a capo.

         Tutto logico e purtroppo anche vero, per carità.  Le ricostruzioni sono perfette. Le analisi forse un po’ meno se la loro conclusione è praticamente la rassegnazione. O persino la resa al pessimismo della ragione, direbbe forse la buonanima di Antonio Gramsci, che preferiva notoriamente l’ottimismo della volontà. La resa cioè al male per paura di scongiurarne uno ancora peggiore. Neppure Giacomo Leopardi riuscirebbe a tradurre in versi la disperazione derivante da una simile contemplazione, ripeto, del male. Mettiamogli pure la maiuscola usata dagli ayatollah a Teheran e dintorni per indicare quello israeliano che intendono sradicare, con o senza l’atomica.

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Un incredibile racconto italiano della guerra in corso fra Israele e Iran

         Poiché ho avuto l’occasione di conoscerne il carattere irruente, la franchezza persino spietata, il velluto mai sufficiente a contenerne il pugno fisico e metaforico, penso che debba essere costato molto a Giuliano Ferrara nel numero preconfezionato di lunedì del suo Foglio lasciare nell’anonimato, e persino mescolarvisi in un plurale melenso, “gli impudenti, lenti, esitanti, pacifisti accucciati nel benessere” e altro ancora alle prese con la guerra che nella sua solita, straordinaria “solitudine”, Israele sta conducendo contro l’Iran. Che è deciso ad arricchire della bomba atomica il suo arsenale già molto fornito da usare direttamente o indirettamente, con i terrorismi islamisti alle sue dipendenze, contro gli  ebrei.

         Dev’essere costato molto, ripeto, a Ferrara non fare nessun nome per non farne soprattutto uno distintosi fra un editoriale sul Corriere della Sera e il solito salotto televisivo di complemento, l’amico Paolo Mieli. Non accodatosi ma messosi subito alla testa dei contestatori di questa guerra all’Iran condotta da Israele col dichiarato proposito di provocare anche un cambiamento di regime a Teheran. Dove, anche secondo l’insospettabile e più volte ex direttore del maggiore giornale italiano, si rischierebbe di avere come successore di Khamenei uno peggiore di lui. Che si farebbe rimpiangere come Gheddafi in Libia, Saddam Hussein in Irak e persino Stalin a Mosca, dove ora recita la parte di Pietro il Grande, addirittura, un Putin offertosi a mediare fra Israele e Iran, o viceversa, al presidente americano Donald Trump. Disposto magari, quest’ultimo a scaricare del tutto l’Ucraina per salvare Nethanyau a Tel Aviv e Gerusalemme.

         Scusate se non proseguo ma ho il voltastomaco. Spero di stare meglio domani.   

Tutta la comprensione della sinistra per l’Iran, naturalmente

All’arrivo delle prime notizie sulla guerra ormai diretta fra Israele deciso a vivere e l’Iran deciso ad annientarlo ben prima e ben oltre il fiume e il mare, come gridano nelle piazze quanti giustificano, se non esaltano  i terroristi che hanno sequestrato ai palestinesi i loro diritti, facendo credere di volerli difendere; all’arrivo, dicevo, delle prime notizie sulla guerra ormai diretta fra Israele e Iran mi sono chiesto se le opposizioni che in Italia hanno a loro volta sequestrato il concetto, la parola e altro ancora della sinistra sarebbero state capaci, una volta tanto, di comprendere le ragioni della sopravvivenza dello Stato ebraico.

Comprendere, ripeto, almeno come Aldo Moro alla guida dei primi governi organici di centrosinistra in Italia si presentava puntualmente alle Camere a parlare del conflitto in Vietnam per esprimere questo sentimento verso gli americani che vi erano impegnati. E combattevano lì quella che il primo socialista al Quirinale, Giuseppe Saragat, ben prima che arrivasse Sandro Pertini alla Presidenza della Repubblica, definiva una “guerra di civiltà”. Persa purtroppo dalla civiltà, come spero che non si ripeta in Medio Oriente, con tutto quello che potrebbe derivarne all’Europa e, più in generale, all’Occidente.

Riflettevo, dicevo, su queste cose quando le opposizioni sono riuscite a sorprendermi anche stavolta  ingaggiando col governo la solita polemica da asilo Mariuccia. Hanno cominciato col dargli letteralmente la “sveglia” ed hanno insistito quando il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani si è permesso di ricordare ironicamente che lui già stava lavorando sugli sviluppi della guerra in Medio Oriente dalle 3 di notte. Non l’avesse mai fatto. Ne è nato uno scontro a più voci, col coinvolgimento di quasi tutte le componenti del campo di dimensioni variabili dell’aspirante alternativa al centrodestra, su chi dorme di più e di meno, su chi si sveglia prima, di notte e di giorno. E quindi sulla solita irrilevanza e simili dell’Italia, del suo governo, della sua politica estera. O sulla solita, presunta corsa della Meloni nell’inseguimento dell’altrettanto solito Trump, comprensivo delle ragioni di Israele, per tornare al linguaggio moroteo. Comprensivo a tal punto da definire “eccellente” l“operazione” contro l’Iran deciso a perseguire la bomba atomica, con tutto ciò che ne deriverebbe in Medio Oriente e oltre, fingendo di trattare per rispiarmiarsela e risparmiarcela.

Non c’è purtroppo più un’occasione che la sedicente sinistra italiana si lasci scappare per dimostrare la crisi nella quale si dibatte sempre di più da quando perse l’anima nel fango del giustizialismo e poi nel progressivo arretramento, sul piano sociale, in quella che qualche giorno fa Luciana Castellina, ironizzando sulla fila incontrata al suo seggio  nelle votazioni sui referendum intestati al lavoro e alla cittadinanza, ha convenuto nel definire la sinistra delle zone centrali a traffico limitato. Lasciando le periferie o alla destra, nel migliore dei casi, o alla rabbia qualunquistica nel peggiore, dove cerca di affacciarsi adesso anche Giuseppe Conte senza cravatta e fazzoletto nel taschino della giacca.

La Castellina ne ha già viste tante nella sua vita appassionata a sinistra, compresa la radiazione nel lontano 1970  dal Pci di Pietro Longo e di Enrico Berlinguer con i compagni del manifesto contrari alla “normalizzazione“ di Praga dopo la primavera di Dubcek finita nel sangue. Le è toccato vedere anche questa sinistra delle ztl   prima di compiere 96 anni il 9 agosto. Auguri, sinceramente.

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Esercizi di terrorismo mediatico in Italia per la guerra fra Israele e Iran

         Più sconfortante, desolante, preoccupante delle immagini e delle notizie che arrivano dal Medio Oriente, dove non è scoppiata “un’altra guerra”, come ha titolato qualcuno, ma più semplicemente e drammaticamente è diventata più diretta, più centrata la stessa guerra, che è quella fra Iran e Israele; più sconfortante ed altro, dicevo, è lo spettacolo della politica interna italiana alle prese con gli sviluppi della situazione. Che stanno portando alla composizione di quei pezzi dell’unica guerra mondiale avvertita dal compianto Papa Francesco, e in qualche modo ereditata dal successore Leone quattordicesimo.

         L’accusa di Elly Schlein a Giorgia Meloni di essere “appesa agli umori di Trump”, che ha definito una “operazione eccellente” quella intrapresa da Israele contro l’Iran decisa a nuclearizzarsi militarmente pur fingendo di trattare in senso contrario con gli americani, si è intrecciata con “l’afonìa” rinproverata alla premier italiana da Giuseppe Conte. Ma anche dalle componenti che vorrebbero essere considerate moderate del campo a dimensioni variabili dell’alternativa al governo.

         La ciliegina su questa torta è la polemica provocata dal vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani  sul ritardo orario, diciamo così, col quale la Schlein e soci si sono accorti degli attacchi israeliani all’Iran reclamando e ottenendo l’informativa di oggi dello stesso Tajani alle commissioni Esteri e Difesa congiunte della Camera e del Senato. E’ la polemica su chi si è svegliato e, più in generale, si sveglia prima o di più nella notte, ma anche durante il giorno, fra il governo e gli avversari o critici.

         Ma ancor più delle reazioni politiche delle opposizioni, stavolta meno divise del solito se non proprio ridottesi al singolare, appaiono prevenute e scomposte quelle dei loro consiglieri mediatici.

         Massino Giannini, per esempio, sulla sua Repubblica di carta, pur riconoscendo una volta tanto che “sarebbe sbagliato gettare la croce addosso a Meloni”, la coinvolge comunque nella denuncia di “questo capolavoro di beata irrilevanza” di “un’Italia assente dal gioco, muta ininfluente”, nonostante il traffico fisico e telefonico a Palazzo Chigi e alla Farnesina.

         Marco Travaglio, poi, come per farsi perdonare la libertà presasi dissociandosi dalla vittoria cantata dalla parte più radicale dell’opposizione che ha clamorosamente perduto i referendum promossi e cavalcati su lavoro e cittadinanza, ha addirittura accusato il governo di essersi praticamente allineato tanto a Israele e a Trump da esporre l’Italia al pericolo di una ritorsione del “terrorismo islamista”. Meloni e Tajani, in particolare, “disegnano un bersaglio sulla schiena di tutti noi cittadini”. Testuale, dall’editoriale odierno del Fatto Quotidiano.

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Persino Marco Travaglio scende dalla giostra dei referendum

         Tanto è stato prevedibile l’ultimo naufragio referendario, al punto che gli stessi promotori avevano finito per cercare di fissare la soglia di una onorevole sconfitta, quanto è stato imprevedibile l’effetto dirompente nell’area dell’opposizione generosamente considerata al singolare. Che occupa notoriamente un campo di dimensioni variabili e di un obbiettivo tanto unico quanto improbabile. Il campo dell’alternativa, disse una polta in televisione l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani con sorriso inconsapevolmente beffardo, preso però sul serio il giorno dopo dalla segretaria in carica Elly Schlein. Che di suo aggiunse la promessa di perseguire l’obbiettivo con spirito “testardamente unitario”.

         Dopo un primo momento di euforia d’ufficio, diciamo così, in cui la matematica è diventata un’opinione e le somme non coincidevano con i totali mescolando dati diversi, e persino confrontando elezioni politiche e referendarie per intravvedere dal buco della serratura di Palazzo Chigi lo sfratto a Giorgia Meloni, la parte più insospettabilmente dura dell’opposizione è riuscita a recuperare un certo realismo. Fausto Bertinotti, per esempio, ha fatto le bucce sia all’opposizione politica sia a quella sindacale, peraltro limitata alla Cgil guidata con la solita spavalderia da un Maurizio Landini cementatosi nella sua carica con l’annuncio che a dimettersi per la sconfitta “non ci penso proprio”. La Cisl intanto è andata è al governo con la nomina dell’ex segretario Luigi Sbarra a sottosegretario.

         Poi è arrivato sul Fatto Quotidiano un Marco Travaglio tanto imprevedibile da ignorare le invettive contro la Meloni di quel presidente del Consiglio migliore nella storia d’Italia dopo Camillo Benso di Cavour che sarebbe Giuseppe Conte, e da ammonire anche qualche collaboratore del suo giornale che “alle prossime elezioni”, quelle politiche e non referendarie, “è inutile partecipare” essendo scontata la sconfitta.

         Conte, dal canto suo, ha proposto una riforma del referendum abrogativo per abbassare il quorum della partecipazione al 33 per cento degli aventi diritto al voto: superiore, bontà sua, al 29 e rotti della tornata di questo giugno. Bontà sua, perché ha avuto il buon gusto di non identificarvisi. Conte ha inoltre prospettato di introdurre nella Costituzione anche un referendum propositivo, evidentemente andando oltre l’articolo 71 che già riconosce al popolo di “esercitare l’iniziativa delle leggi mediante la proposta, da parte di cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”. No, andrebbe fatto tutto in cabina elettorale: proporre, emendare e approvare. Il Paese dei campanelli.

Il soccorso… meccanico di Dario Franceschini alla segretaria del Pd

In un partito come il Pd, nei cui 18 anni di vita l’unico o maggiore elemento costante è stato il ruolo di Dario Franceschini nella scomposizione e ricomposizione delle maggioranze, come diceva Aldo Moro nella sua Democrazia Cristiana, è naturale che si cerchi di intercettarne opinioni, umori, tendenze, gesti all’indomani dopo il turno fallito dei referendum su lavoro e cittadinanza.

         Carmelo Caruso ha riferito sul Foglio l’esito dell’esplorazione metaforica compiuta a questo riguardo attorno all’officina romana, all’Esquilino, dove l’ex ministro della Cultura ha aperto ormai da tempo il suo ufficio per usare meglio gli attrezzi necessari allo smontaggio e rimontaggio dei pezzi del Pd, appunto. L’impressione che ha ricavato Caruso osservando il traffico, raccogliendo dichiarazioni virgolettate dei frequentatori e alcune attribuite allo stesso Franceschini, che tuttavia non si è lasciato prudentemente intervistare; l’impressione, dicevo, è che l’ex ministro ritenga la segretaria del partito non imputabile dell’insuccesso referendario. Anche senza spingersi a condividere la soddisfazione della Schlein. O il riconoscimento fattole sull’Unità da Goffredo Bettini di avere restituito  al Pd “l’anima” di sinistra perduta o compromessa da Matteo Renzi ai tempi della sua segreteria e del suo governo. Anche col jobs act contestato referendariamente più dalla Cgil di Maurizio Landini – sostiene Franceschini- che dai partiti che l’hanno fiancheggiato. Sarebbe insomma Landini più della Schlein a doverne ora rispondere. Ma sono affari, appunto, del sindacato storico della sinistra.

         Fra le curiosità, a dir poco, osservate dall’esploratore del Foglio c’è la partecipazione di Franceschini, forse raggiungendo l’amico in moto, alla festa dell’ottantesimo compleanno di Pierluigi Castagnetti, anche lui proveniente dalla Dc e da tutte le altre tappe del percorso di formazione del Pd. Un democristiano che passa, a torto o a ragione, per avere i rapporti più amichevoli e diretti col presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Rapporti che un po’ frenano o limitano l’esposizione mediatica e politica di Castagnetti, nel timore di mettere in imbarazzo il Presidente, con la maiuscola, ma non la eliminano. Un po’ come accadeva al compianto Emanuele Macaluso -rimasto peraltro prudentemente fuori dal Pd non condividendone l’elezione del segretario condizionata dagli esterni, cioè dai non iscritti- ai tempi in cui al Quirinale c’era Giorgio Napolitano. Detto anche “Re Giorgio” da noi cronisti senza infastidirlo più di tanto, carico com’era di capacità ironica, oltre che di maniacale precisione-

         Ebbene, Castagnetti arrivato agli 80 anni proprio nel secondo e ultimo giorno dei referendum, lunedì 9 giugno, ne ha così commentato il naufragio, intercettato via internet dal Corriere della Sera: “Qualcuno dica a Schlein, anche solo privatamente, che così si va a sbattere. Posto che da quelle parti dove sembra prevalere l’arroganza ci sia ancora qualcuno interessato a tornare a vincere, per il bene del Paese e delle sue più giovani generazioni”.  Un commento che, a sua volta, ha fornito ad un altro ex parlamentare democristiano, Maurizio Eufemi, questa replica, intercettata sempre navigando in internet: “Qualcuno dica a Castagnetti che era un epilogo scontato con un fronte camaleontico che cancella la storia del popolarismo”. Siamo un po’ ai materassi. O alla rottamazione, per tornare a immagini meccaniche.

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Quando Berlusconi si divideva nelle urne fra la Dc e Craxi

         Come votava Silvio Berlusconi prima di fondare e votare, naturalmente, Forza Italia arrivando in poche settimane a Palazzo Chigi?  Inutilmente contrastato da quella “gioiosa macchina da guerra” contro di lui guidata dall’ultimo segretario del Pci e primo del Pds Achille Occhetto? “Entrambi eravamo per la Democrazia Cristiana”, ha risposto il senatore Adriano Galliani in una intervista al Corriere della Sera nel secondo anniversario, che ricorre oggi, della morte dell’amico, socio, dipendente quale gli è stato dal 1979, quando fu chiamato ad Arcore e cominciò una loro comune avventura, anzi cavalcata, durata ininterrottamente sino alla morte del “dottore”, “cavaliere” e poi “presidente”, come via via Berlusconi venne chiamato nelle sue scalate al successo.

         “In quegli anni non c’erano troppe correnti. Si era per l’America oppure per la Russia”, ha aggiunto Galliani alludendo non tanto alle correnti della Dc, che in verità erano parecchie, quanto alle aree politiche in generale. Che in effetti potevano essere ricondotte a due, filo-americana e filo -russa, con tutte le sfaccettature prodotte dalla evoluzione della politica interna, e anche internazionale. Nel 1976, tre anni prima che Galliani entrasse nel cerchio magico di Berlusconi e diciotto prima della fondazione di Forza Italia già il segretario del Pci Enrico Berlinguer, sostenitore dall’esterno di governi monocolori democristiani guidati da Giulio Andreotti diceva pubblicamente di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato.

         Galliani, per carità, avrà avuto i suoi motivi per parlare al plurale del voto alla Dc, insieme con Berlusconi, prima della fondazione di Forza Italia. Ma io ho ricordi o cognizioni diverse. Pur con un’infanzia e un’adolescenza familiarmente democristiane, sino a rischiare le botte affliggendo sui muri di Milano nel 1948, a soli dodici anni, i manifesti elettorali della Dc, Berlusconi aveva interrotto già da qualche tempo, prima di vitare per se stesso, di votare per lo scudo crociato. O di votare solo per lo scudo crociato.

A me personalmente, dopo la svolta autonomista del Psi e l’arrivo dell’ormai amico Bettino Craxi a Palazzo Chigi, nel 1983, Berlusconi confidò di sdoppiarsi nelle urne, diciamo così. Al Senato, col sistema uninominale, egli continuò a votare per la Dc, sperando che il candidato nel suo collegio fosse magari un simpatizzante di Arnaldo Forlani piuttosto che di Ciriaco De Mita, ma alla Camera votava per i socialisti grazie anche alla fortuna di poter dare la preferenza a Craxi in persona.

         Caduta la cosiddetta prima Repubblica sotto la ghigliottina giudiziaria, che poi gli avversari avrebbero tentato di montare anche contro di lui, Berlusconi non a caso fu in grado di dirottare verso la sua Forza Italia una parte significativa dell’elettorato socialista, oltre a quello personale di Craxi. Perché nascondere o solo minimizzare questa parte del lavoro, dell’esperienza, della genialità, diciamo pure, di Berlusconi?, chiedo al mio amico Adriano.

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La giornata particolare di Pierluigi Castagnetti sbottato contro la Schlein

Lunedì scorso 9 giugno è stata una giornata particolare, molto particolare, particolarissima, eccezionale per Pierluigi Castagnetti, il più democristiano del Pd per origini e convinzioni, da qualche tempo in sofferenza per la marginalità crescente, o qualcosa di simile, della sua area nel partito sempre più movimentista guidato da Elly Schlein. Dalla quale si aspetta, non so ancora quanto fiduciosa, di sapere quale sarà l’anno in cui deciderà di stampare sulla tessera d’iscrizione al Pd il volto o, più in particolare, gli occhi di Alcide De Gasperi, come ha fatto l’ultima volta con Enrico Berlinguer.

         Lunedì scorso 9 giugno, dicevo, il buon Castagnetti ha festeggiato il compimento dei suoi 80 anni: esattamente il doppio della Schlein, che il 4 maggio ne aveva fatti 40. Fra gli auguri ho motivo di ritenere che gli saranno arrivati anche quelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, col quale è così nota l’amicizia che Castagnetti spesso, quasi di solito, si contiene nelle sue esternazioni per non vederle arbitrariamente e soprattutto scomodamente attribuire ai reconditi pensieri, umori e quant’altro del Capo dello Stato. Che tiene particolarmente, e giustamente, a gestire da solo la propria riservatezza.

         Lunedì scorso 9 giugno, dicevo, il buon Castagnetti ha seguito con la solita curiosità, a dir poco, del politico le notizie provenienti dai seggi elettorali dove si era finito di  votare per i cinque referendum abrogativi promossi, sostenuti eccetera eccetera anche dalla Schlein col dichiarato proposito di sapere e volere dimostrare la capacità del Pd di riconoscere l’errore, per esempio, del cosiddetto jobs act voluto a suo tempo dall’allora  presidente del Consiglio e contemporaneamente segretario del partito Matteo Renzi.

         Più ancora, temo, dei risultati dei referendum, preferiti dalla Schlein ad un congresso per segnare su un tema così delicato la discontinuità, la svolta e quant’altro del suo partito rispetto a dieci anni fa, Castagnetti dev’essere rimasto colpito dalla soddisfazione espressa dalla segretaria del Pd per il loro pur clamoroso fallimento da quorum. Che aveva trasformato in coriandoli i sì e i no che uscivano dai conteggi degli scrutatori. I sì, peraltro, contrapposti cervelloticamente dalla Schlein ed emuli ai voti raccolti dal centrodestra nelle elezioni politiche del 2022 per gridare vittoria.

         Dopo essersi un po’ trattenuto per la solita preoccupazione, già ricordata, di vedere coinvolgere ingiustamente l’amico presidente della Repubblica, che aveva tenuto peraltro a partecipare al voto referendario, ripreso al suo arrivo e alla sua uscita dal seggio elettorale della sua Palermo, il buon o povero Castagnetti, come preferite o immaginate, è sbottato. E ha affidato questo suo messaggio a facebook: “Qualcuno dica a Schlein, anche solo privatamente, che così si va a sbattere. Posto che da quelle parti, dove sembra prevalere l’arroganza, ci sia ancora qualcuno interessato a tornare a vincere, per il bene del Paese e delle sue più giovani generazioni”.

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I guai dell’anima che il Pd avrebbe ritrovato con la Schlein

         Ho la sensazione che si mettano davvero male le cose per la segretaria del Pd Elly Schlein dopo la sconfitta nei referendum abrogativi da lei sostenuti, anzi promossi. E naufragati nella indifferenza, se non nella protesta del più del 70 per cento degli elettori che hanno disertato le urne vanificandone i risultati.  

         A mettere nei guai la segretaria del Nazareno, oltre e forse ancora più della sconfitta referendaria da lei scambiata per il decollo del suo testardo progetto “unitario” dell’alternativa al governo di centrodestra, è la medaglia sul petto che le ha applicato il sempre incontenibile Goffredo Bettini, scrivendone sull’Unità di Piero Sansonetti, per avere “ridato l’anima al Pd”. Che evidentemente l’aveva perduta nel 2014 con Matteo Renzi contemporaneamente segretario del partito e presidente del Consiglio, grazie al quale il Pd era arrivato al 40 per cento dei voti. Ora è a poco più della metà.

         Adesso la Schlein dovrebbe “allargare”, ha aggiunto, consigliato, intimato e quant’altro Bettini contraddicendosi clamorosamente perché anche lui riconosce così che il Pd avrà pure ritrovato un’anima, come dice lui pensando a sinistra, ma insufficiente alla vittoria del progetto di alternativa. L’allargamento tuttavia, essendosi lo schieramento referendario spinto a sinistra comprendendola tutta, dovrebbe avvenire al centro e a destra. Cioè spostandosi verso quel Renzi, fra gli altri, che aveva fatto perdere “l’anima” al Pd.

         E’ evidente la contorsione, la contraddittorietà, la velleità di questo ragionamento. Proposto peraltro mentre cronache e retroscena si dividono fra  “l’avviso di sfratto” che l’ala riformista, cioè moderata, del Pd vorrebbe dare alla Schlein e il proposito  attribuito alla segretaria di prendere di contropiede i critici, persino sfidandoli a quel congresso anticipato o straordinario che vaga come un fantasma al Nazareno da mesi, pur su temi estranei a quelli dei referendum perduti su lavoro e cittadinanza. Sono i problemi  della politica estera in mezzo a guerre che non sono cessate neppure su ordine di Trump dalla Casa Bianca.

         Grande, come si vede, è la confusione nella terra del Pd. E Bettini non ì certamente il Mao di turno nel Cielo.  

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