Il masochismo parlamentare delle opposizioni nel solito ordine sparso

         Poi dicono, protestano, sproloquiano in politichese e persino in giuridichese sul Parlamento ormai svuotato dal governo. Ma dove le opposizioni un po’ autolesionisticamente reclamano ad ogni stormir di foglie, e tanto più ad ogni guerra,  il solito dibattito. Per uscirne però peggio di come vi fossero entrate confermando le loro divisioni, più chiare ed evidenti di quelle che esse intravedono, denunciano e quant’altro nella maggioranza e nella stessa compagine ministeriale: fra i soliti vice presidenti del Consiglio Matteo Salvini e Antonio Tajani, in ordine alfabetico, o  fra il ministro della Difesa Guido Crosetto e la premier  Giorgia Meloni, che pure l’ha adottato come padre da quando si lasciò sollevare da lui su un palco e dondolare come una figlia.

         Alla Camera la maggioranza è tornata a votare compatta dopo la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra di Israele all’Iran a vocazione nucleare e gli effetti che ne potrebbero derivare.  Le opposizioni sono tornate a votare divise rendendo non di cartone o di carta ma di polvere la loro aspirazione a costituirsi in alternativa al governo di centrodestra.

Più in particolare, la segretaria del Pd Elly Schlein e il presidente del Movimento ancora chiamato 5 Stelle, Giuseppe Conte, hanno votato ciascuno un proprio documento. Ma soprattutto si sono preparati al dibattito, fra lanci di agenzie e di missili, l’una telefonando alla premier e l’altro scaricando come “criminale” il presidente americano Donald Trump. Che pure nel suo primo passaggio alla Casa Bianca lo aveva gratificato di un Giuseppi, al plurale, scambiato per concessione di amicizia e simpatia. Ma forse oggi interpretabile come preveggenza di Trump di fronte alla capacità appena dimostrata allora da Conte di cambiare maggioranza, dal giorno alla notte, pur di restare a Palazzo Chigi. Dove l’ex premier, allontanato da Mario Draghi nel 2021, vorrebbe notoriamente tornare.   

Quelle Schlein e Meloni cartonate insieme in piazza, ma non solo

Quel diavolo di Tramp, con la a ineguagliabilmente applicatagli da Federico Rampini parlandone al di là e al di qua dell’Atlantico, è riuscito con i tempi scelti per l’intervento americano nella guerra di Israele all’Iran a sorpassare anche le piazze di sabato scorso a Roma.  Dove da quella “insalata russa” ricavata polemicamente dal deputato del Pd Emanuele Fiano osservando da casa le immagini combinate dei dimostranti contro il riarmo europeo e di quelli a favore della Palestina libera dal fiume al mare erano emerse incartonate in tenute militari insanguinate, da sinistra a destra, la segretaria del Nazareno Elly Schlein, la presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen e la premier italiana Giorgia Meloni.

         Sembrava una riedizione ristretta, a livello europeo, del fantomatico Stato imperialista mondiale immaginato negli anni Settanta dalle brigate rosse coinvolgendovi anche il “pacifico e mite” Aldo Moro, nella famosa definizione del Papa e amico Paolo VI, sequestrandolo fra il sangue della scorta e infine uccidendolo. Quei fantasiosi terroristi avrebbero dovuto fare altrettanto anche col segretario del Pci Enrico Berlinguer, imborghesitosi secondo loro nel perseguimento del famoso “compromesso storico” con la Dc, ma lo risparmiarono per lasciargli un’occasione di riscatto. Che a suo modo l’interessato colse ritirandosi spontaneamente dopo la morte di Moro, appunto, dalla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale a sostegno esterno di due governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti.

         Il governo immaginario e guerrafondaio delle incartonate Schlein, von der Leyen e Meloni, funzionale all’ambizione di Giuseppe Conte di tornare a Palazzo Chigi cavalcando pacifismo, qualunquismo, antiamericanismo e altri ismi  che si espliciteranno strada facendo, è sembrato prendere corpo quando la segretaria del Pd, peraltro tenutasi già prudentemente lontana dalle strade e piazze romane di sabato scorso ha preferito chiamare la Meloni e conversare con lei per una ventina di minuti sugli sviluppi della situazione internazionale. Piuttosto che accodarsi al “criminale” gridato da Conte al Tramp edizione 2025, così diverso da quello che gli aveva dato amichevolmente del “Giuseppi”, al plurale, nella sua prima esperienza alla Casa Bianca. Quando Conte era appena rimasto a Palazzo Chigi cambiando maggioranza alla fine della crisi del suo primo governo gialloverde.

         Le piazze, a pensarci bene, sono una brutta bestia a cavalcarle. Possono produrre di tutto. Quelle italiane degli anni Settanta furono sopravanzate dal piombo delle già citate brigate rosse impegnate contro l’altrettanto già citato Stato imperialista mondiale.

         Quelle del mitico Sessantotto, inteso come 1968, erano state in Italia e altrove, a Parigi per esempio, tanto gioiose e spavalde nel reclamare la fantasia al potere, piuttosto che i partiti, le burocrazie e le banche, quanto cieche e pusillanimi davanti alle sopraffazioni e al sangue reali. Nessun corteo era riuscito a formarsi allora per solidarizzare con la Cecoslovacchia normalizzata dalle truppe sovietiche e affini dopo la prima ancora nominalmente primavera comunista di Alexander Dubcek. Così come ora, ahimè, nessun corteo o manifestazione di teatro s’intravvede a sostegno dell’Ucraina. Della quale ormai Putin parla di cosa sua, o nostra nel senso plurale della sua esperienza post-comunista e post-zarista.

         Sì, un’ombra di sostegno all’Ucraina sotto il ferro e il fuoco di Putin, almeno da tre anni e più, se non vogliamo risalire ancora più indietro, sembrò profilarsi a Milano, in antitesi con una manifestazione a Roma per Gaza promossa da Conte e Schelin insieme, per iniziativa di quel fantasma del terzo polo che ogni tanto viene evocato tra il serio e il faceto.  Ma fu un disguido. Poi si precisò e prese corpo in pochi giorni una manifestazione solo concorrente con quella di Roma per Gaza. Solo per Gaza.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 28 giugno

Il processo sommario a Donald Trump di Giuseppe Conte e Paolo Mieli

         Era largamente prevedibile che Giuseppe Conte in Italia, dimentico dei tempi in cui si vantava di una certa simpatia manifestatagli dal già allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump, si mettesse alla testa delle proteste dandogli del “criminale” per l’intervento nella guerra in corso di Israele all’Iran con tipi di bombardamenti che solo gli americani sono in condizioni tecniche di fare sulle caverne nucleari degli ayatollah. La corsa a Palazzo Chigi che Conte persegue da quando si sentì ingiustamente estromesso per lasciarlo a Mario Draghi val bene una messa, come Parigi, secondo le celebri parole che riportano a  re Enrico IV di Francia.

         Altrettanto prevedibile era che il solito Marco Travaglio, sempre convinto -credo- dell’eredità cavouriana di Conte, gli andasse dietro anche questa volta declassando Trump ad un criminale di rimorchio, diciamo così. A rimorchio, in particolare, di quel “vero padrone del mondo” che sarebbe il premier israeliano Nethanyahu, che di criminale ha peraltro anche l’aspetto giudiziario con quel mandato di cattura emesso contro di lui dalla Corte Internazionale eccetera eccetera. Come un qualsiasi Almasri, il generale libico catturato e liberato dall’Italia in un’operazione al vaglio del tribunale dei ministri di Roma.

Anche Putin, in verità,  è un criminale di guerra ricercato per quello che sta facendo in Ucraina da più di tre anni,  ma questo è un particolare che solo a un ingenuo o rincitrullito come me poteva venire in testa di ricordare.

         Tutto prevedibile, anzi previsto, ripeto. Ma francamente non mi aspettavo che, per quanto già espostosi con una mezza invettiva contro la pretesa anche di Trump, e non solo di Nethanyau, di provocare in Iran un cambiamento di regime, Paolo Mieli presiedendo una sezione speciale di carta della Corte Internazionale dell’Aja a Milano, in via Solferino, giudicasse e condannasse Trump per “aperta violazione della legalità internazionale”, per niente compromessa evidentemente dalla regia iraniana del terrorismo islamista. E indicasse il presidente americano,  nell’editoriale odierno del giornale già diretto due volte,  come un irresponsabile che “spinge il mondo intero sull’orlo di una guerra mondiale” Che, in verità, era stata già avvertita “a pezzi” da Papa Francesco prima ancora che Trump tornasse alla Casa Bianca per la sua seconda avventura presidenziale.

Più comprensivo era apparso a prima vista, sempre sul Corriere, Antonio Polito scrivendo che “il problema non è se l’America debba impegnarsi nel mondo perché deve”. Ma -ha aggiunto Polito- come lo fa. E sul “come” altalenante e improvvisato di Trump è lecito avere molti, molti dubbi”. Sino a ritrovarsi con Mieli, e persino con Conte?

Ripreso da http://www.startmag.it

Ai margini, ma non tanto, delle strade e piazze romane del pacifismo

         Il cardinale Pietro Parolin, il mancato Papa Francesco II, forse, o Giovanni XXIV, o chissà chi altro, confermato tuttavia per ora da Papa Leone XIV nella carica di Segretario di Stato, non si è fatto mancare le parole -e come avrebbe potuto con quel cognome che porta- per apprezzare ieri la “mobilitazione” contro il riarmo e per la pace, lungo le strade e le piazze di Roma. A consolazione, incoraggiamento e quant’altro dei promotori politici e mediatici.

         Ebbene, vorrà pur dire qualcosa il fatto che sulla prima pagina di Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, peraltro diretto sino a due anni fa da Marco Tarquinio, ora eurodeputato eletto come indipendente nelle liste del Pd, non abbiano trovato il modo, la voglia, l’interesse, l’ispirazione per riportare le parole di Parolin col rilievo dovuto al suo incarico, quanto meno.  E abbiano relegato i centomila manifestanti contati a Roma dal manifesto in un richiamo che credo significativo per un certo distacco politico: “A Roma una piazza piena (e piuttosto assortita) per il no al riarmo”. Tutto qui.  Non una parola in più e neppure in meno.

         Sul fronte delle cronache di guerra i giornali politicizzati, nel senso di influenzati da qualche partito o area, o loro ispiratori, sono divisi oggi fra chi è forse compiaciuto, come il solito Fatto Quotidiano, che Israele stia “finendo i missili” da lanciare contro l’Iran, e chi, forse con compiacimento uguale ma di segno opposto, come la Repubblica, informa sui “bombardieri Usa in volo”. Che in effetti durante la notte hanno compiuto una prima “spettacolare operazione”, come l’ha definita Trump, contro le caverne dove gli ayatollah hanno fatto sistemare gli impianti di costruzione della bomba atomica. Ne basterebbe forse anche una sola per cancellare Israele dalla carta geografica, com’è negli obiettivi dichiarati, direi esistenziali dell’attuale regime iraniano.  Ma di questo riarmo, chiamiamolo così, dell’Iran i centomila pacifisti raccoltisi a Roma, tra bandiere bruciate di Israele e dell’Unione Europea in qualcuno dei percorsi di strade e piazze, si sono disinteressati. A dir poco. 

Cronache sull’Ucraina abbandonata al nuovo ordine perseguito da Putin

In un’autocelebrazione camuffata da “forum economico” internazionale nella sua San Pietroburgo, dove nacque poco meno di 73 anni fa, Putin ha detto, testualmente: “Mi chiedete quali regioni ucraine considero nostre. Ma io ritengo che quello russo e quello ucraino sono un solo popolo. In questo senso l’Ucraina è nostra”. E poi: “C’è una vecchia regola: il terreno che viene calpestato dal piede di un soldato russo è nostro”. E poi ancora invettive contro “il regime nazista” di Kiev che si oppone all’unica prospettiva sovranista, diciamo così, dell’Ucraina costituita da un paese “non allineato” ad altri se non alla Russia.

         Più chiaro di così lo zar di turno al Cremlino non poteva essere, tra un ordine e l’altro che impartisce quotidianamente per bonbardare obiettivi anche civili in Ucraina, come ospedali e scuole, che i suoi generali promuovo di volta in volta alla categoria militare per giustificarli.

         I politici taliani dichiaratamente di sinistra hanno fatto finta di non sentire e di non capire, tutti presi dalle manifestazioni di piazza e simili, compresi raduni di scioperanti metalmeccanici e ferrovieri, per il disarmo, per Gaza, contro Israele e naturalmente contro il governo Meloni autoritario, al solito, e ininfluente a livello internazionale, nonostante i tanti viaggi della premier all’estero e le tante udienze a Palazzo Chigi. Dove non c’è giorno che passi senza che Meloni, quando non è in trasferta, non riceva qualche omologo o altri ospiti di riguardo.

         Nei pochi titoli di prima pagina dei giornali italiani in cui si trova un riferimento alle parole di Putin sull’Ucraina, e sul modo col quale essa dovrebbe partecipare al “nuovo ordine” internazionale che lui sta cercando di costruire districandosi fra americani, cinesi e arabi, non si va oltre un inciso. Quasi un fastidio, un intralcio, una distrazione dalla guerra di Israele all’Iran e dintorni. Fra i quali quella della Russia all’Ucraina in corso da più di tre anni dall’inizio della cosiddetta “operazione speciale”, è il dintorno più lontano, più periferico.

Non ho parole di fronte a tanto cinismo.

La fortuna di Goffredo Bettini di essere figlio di un buon avvocato….

Ah, la fortuna di Goffredo Bettini – “discendente della famiglia aristocratica marchigiana Rocchi Bettini Camerata Passionei Mazzoleni”, si legge sulla biografia di Wikipedia– di avere avuto un avvocato come padre. E  che avvocato, Vittorio, elettore e anche di più del Partito Repubblicano di Ugo La Malfa e di Oronzo Reale, che ne frequentavano studio e casa, come ha raccontato lo stesso figlio sul Foglio per spiegare l’aria, diciamo così, in cui è cresciuto. Fra “stanze in cui si parlava di diritto e libertà, ma non come slogan: come destino delle persone”. Oronzo Reale peraltro fu ripetutamente anche ministro della Giustizia.  

         “Da bambino -ha raccontato ancora Goffredo Bettini come per spiegare ai suoi compagni di partito che sapeva di sorprendere, spiazzare e quant’altro rivelando di essere d’accordo sulla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri- ascoltavo, curioso, i racconti degli avvocati del tempo” e il papà che gli “ripeteva spesso una frase che allora sembrava paradossale e oggi mi pare una lezione altissima di civiltà: meglio dieci colpevoli fuori dalla galera che un innocente dentro”. Diceva anche, il padre, che “il potere giudiziario è sempre un potere, e come tutti i poteri ha bisogno di contrappesi, di cautele, di consapevolezza dei propri limiti”. “Il giudice nel processo -ha scritto ancora Goffredo Bettini, non so però se riportando ancora le parole del padre o scrivendone di proprie- rappresenta lo Stato. L’imputato è solo. La sproporzione di forza è immensa”. E non c’è avvocato difensore, per quanto bravo, autorevole e famoso, che possa bastare da sola a compensare questa sproporzione.

         Pertanto – scusatemi se mi dilungo nella citazione dell’articolo di Goffredo Bettini- “non si tratta di fare la guerra ai magistrati, come troppo spesso avviene nella polemica pubblica” anche sulla separazione delle carriere, “ma di rimettere al centro il principio di equilibrio, come nella nostra Costituzione, come nella grande lezione del liberalismo di sinistra”. Ma soprattutto “come ci ha insegnato Montesquieu, il quale teneva un potere giudiziario stabile, organizzato, chiuso, permanente. Lo voleva invece intermittente, aperto, invisibile”. Un aggettivo, quest’ultimo, che è francamente l’opposto della visibilità eccessiva di tanti magistrati, che appaiono forse più numerosi della realtà per la capacità che hanno di farsi sentire e vedere. Ma una visibilità sufficiente a suggerire spesso richiami da parte del capo dello Stato, e presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Non solo di quello in carica, ma anche dei predecessori, fatta eccezione – che io ricordi- per la buonanima di Oscar Luigi Scalfaro. Spintosi a impegnarsi pubblicamente con la magistratura, da cui proveniva, a non controfirmare una legge che ne separasse le carriere. E che infatti non arrivò mai sul suo tavolo, al Quirinale. Vi arriverà forse con Sergio Mattarella.

Pubblicato sul Dubbio

Il sarcasmo di D’Alema contro la Meloni nel solito salotto della Gruber

         Dichiaratamente e orgogliosamente impegnato a occuparsi “del mondo”, che peraltro gli ha imbiancato ancora di più i capelli, Massino D’Alema si è lasciato distrarre ieri sera dalla politica italiana nel salotto televisivo di Lilli Gruber. Che prima ha cercato, senza riuscirvi, di strappargli qualche giudizio critico sulla segretaria del Pd Elly Schlein, considerata dalla conduttrice de la 7 non abbastanza schierata contro Israele. Poi è riuscita invece a strappargli sarcasmo e quant’altro contro la premier Giorgia Meloni.

A quest’ultima D’Alema ha contrapposto il ricordo dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi, supportato da lui al Ministero degli Esteri, all’epoca della guerra di Israele al Libano, risoltasi -nella solita provvisorietà di quella regione del Medio Oriente, a dire il vero- con un presidio di caschi blu a guida italiana. Che però si lasciò costruire quasi sotto le sue postazioni, o nei dintorni, gli arsenali militari dei terroristi finanziati dall’Iran per bombardare il territorio israeliano. Sino a provocare una crisi recente che non dovrebbe essere sfuggita all’osservatorio dalemiano. Non proprio il massimo, diciamo, del risultato con tutto il rispetto per Massimo, al maiuscolo, come si chiama D’Alema.

         Continuo a ritenere, personalmente, che l’allora segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio Matteo Renzi avesse sbagliato a perseguire con tanta ostinazione, in parte riuscendovi, la rottamazione di D’Alema, consentendogli quanto meno di arruolarsi contro una riforma costituzionale che pure aveva convinto uno come Eugenio Scalfari. Ne derivò la nota sconfitta referendaria di Renzi, aggravata dal rifiuto opposto da Sergio Mattarella, pur arrivato al Quirinale grazie a lui, alla richiesta di elezioni anticipate per cercare di investire il pur rilevante 40 per cento dei voti raccolti dalla riforma nelle urne. Non ci fu verso. Renzi dovette accontentarsi di restare alla guida del Pd, rinunciando a Palazzo Chigi, per portare il partito l’anno dopo al 19 per cento.

         Ricordato tutto questo, trovo stucchevole a questo punto, con tutto ciò che sta accadendo nel mondo di cui lui vanta di occuparsi, l’ostinata ritorsione di D’Alema. Che peraltro si ritrova al seguito di Renzi, oggi, nel trattamento sarcastico riservato alla Meloni, già durata a Palazzo Chigi, con un solo governo, più di quanto fosse riuscito a D’Alema con due, fra il 21 ottobre 1998 e il 25 aprile del 2000, quando passò la campanella del Consiglio dei Ministri a Giuliano Amato.    

Ripreso da http://www.startmag.it

Bettini spiazza Pd e magistrati sostenendo la separazione delle carriere

         Colpo di scena. Quel profeta disarmato del Pd, della sinistra, del cosiddetto campo largo dell’alternativa al governo che Goffredo Bettini era considerato, o si lasciava considerare con un certo compiacimento, si è armato. E, per l’argomento che ha voluto trattare sul Foglio scrivendo della riforma costituzionale che ha ripreso il suo percorso nell’aula del Senato, comprensiva della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, si è armato di una bomba metaforicamente atomica. Lanciata sulla sua parte politica barricata all’’opposizione nella previsione di un disastro, con la magistratura indebolita nel suo complesso o, peggio ancora per i promotori, rafforzata proprio nella parte della pubblica accusa che il governo vorrebbe penalizzare e ridurre sotto il suo controllo.  Negato dal ministro della Giustizia ed ex pubblico ministero Carlo Nordio. O “mezzo litro” come viene sfottuto sul Fatto Quotidiano nella presunzione di offenderlo. Nordio invece ne sembra divertito, tanto più alto è il suo livello di cultura e di ironia rispetto a chi pensa forse di intimidirlo insultandolo.

         Ma torniamo a Bettini e al suo giudizio sulla separazione delle carriere giudiziarie maturato grazie ai suoi ricordi di infanzia e adolescenza del padre avvocato e degli amici che lo frequentavano a casa, compreso il repubblicano Oronzo Reale che fu anche più volte ministro della Giustizia. Rigorosamente astemio, credo. “Non si tratta -ha scritto Bettini- di fare la guerra ai magistrati, come troppo spesso avviene nella polemica pubblica. Ma di rimettere al centro il principio di equilibrio. Come nella nostra Costituzione. Come nella grande lezione del liberalismo di sinistra. Come ci ha insegnato Montesquieu, il quale temeva un potere giudiziario stabile, organizzato, chiuso, permanente. Lo voleva invece intermittente, aperto, invisibile”.

         A proposito di invisibilità e del suo opposto che è la visibilità, per giunta ostentata mediaticamente, politicamente e persino sindacalmente, con un ampio repertorio di manifestazioni comprensivo anche dello sciopero, non so francamente se la bomba di Goffredo Bettini sia caduta più clamorosamente sul suo partito o sull’associazione nazionale dei magistrati. Rispetto alla quale il Pd, ma non solo quello attualmente guidato dalla segretaria Elly Schlein, è una specie di sogliola. Un po’ come l’imputato nel processo in regime di carriera unica, come il padre di Bettini spiegava al figlio consentendogli oggi di scrivere: “Il potere giudiziario è sempre un potere, e come tutti i poteri ha bisogno di contrappesi, di cautele, di consapevolezza dei propri limiti. Il giudice nel processo rappresenta lo Stato. L’imputato è solo. La sproporzione di forza è immensa”.

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In ricordo di Emerenzio Barbieri, cresciuto alla scuola di Carlo Donat-Cattin

Di Emerenzio Barbieri, spentosi domenica scorsa nella sua Reggio Emilia a due mesi dal compimento dei 79 anni, si è scritto che sia morto d’infarto, all’improvviso, come gli sarebbe piaciuto, ha raccontato Gianfranco Rotondi. Ma che infarto e infarto, con tutto il rispetto per i medici che lo hanno certificato.

Emerenzio, il mio carissimo amico Emerenzio, che conobbi quando era il braccio destro, ma anche sinistro, di Carlo Donat-Cattin, l’indimenticabile leader della sinistra sociale della Democrazia Cristiana, anticomunista e perciò trattata peggio della destra perché considerata traditrice, quasi contro natura; Emerenzio, dicevo, è morto più semplicemente e drammaticamente di crepacuore. Come tanti altri della sua parte politica avendone vissuto la dispersione e il tradimento -esso sì- fra le macerie della Dc.   

         Pier Luigi Castagnetti -che ha recentemente mandato a dire, anzi ha detto alla segretaria del suo Pd Elly Schlein dopo la batosta referendaria su lavoro e cittadinanza al seguito della Cgil di Maurizio Landini, che “così va a sbattere”- si è vantato di avere a suo tempo iscritto lui Emerenzio alla Democrazia Cristiana. E di essergli rimasto amico anche dopo la rottura politica consumatasi quando i donat-cattiniani concorsero, anzi determinarono con un famoso  “preambolo” congressuale democristiano a chiudere a chiave in archivio la fase della cosiddetta solidarietà nazionale col Pci, seguita alle elezioni politiche anticipate del 1976. Chiudere a chiave, ripeto, perché la porta era stata già sbattuta alle proprie spalle dal segretario comunista Enrico Berlinguer, ritiratosi spontaneamente dalla maggioranza di sostegno a due governi monocolori democristiani presieduti da Giulio Andreotti. E ciò per sottrarsi non so se più ad una fase elettorale declinante per il suo partito o al passaggio del riarmo missilistico della Nato. Sotto il cui ombrello egli aveva pur annunciato di sentirsi “più sicuro” nei rapporti ormai tormentati fra le Botteghe Oscure e Mosca.

         Alla morte di Carlo Donat-Cattin, mentre tramontava ormai la cosiddetta prima Repubblica decapitata poi dalla magistratura di Mani pulite, Emerenzio non condivise la successione, decisa in famiglia, a favore di Franco Marini per la successione alla guida della corrente Forze nuove.  Ma non mosse un dito per contrastarla sapendo ch’essa era stata messa nel conto dallo stesso Donat-Cattin. Pur con tutto il rispetto e l’amicizia per Marini, Emerenzio ne avvertì e previde i condizionamenti che avrebbe subito nel gioco sempre complesso delle correnti scidocrociate, aggravato infine dalla diaspora democristiana che sarebbe seguita alla nascita del centrodestra. Dove Emerenzio, che scherzava per primo col suo nome definendosi Emerito, preferì rifugiarsi, al seguito di Pier Ferdinando Casini, entrando finalmente in Parlamento. Da cui uscì in tempo nel 2013 per risparmiarsi di vedere la deflagrazione del “guaio”, come lui lo chiamava, della confluenza di quel che rimaneva nominalmente della sinistra democristiana nel Pd, avvenuta proprio con Marini. Che ne fu ripagato con una candidatura sostanzialmente falsa al Quirinale per la successione a Giorgio Napolitano. Falsa, perché messa durò per una sola votazione, affondata dai franchi tiratori dello stesso Pd per lanciare poi quella vera di Romano Prodi. Che tuttavia fallì anch’essa in una tale confusione che si formò davanti alla porta di Napolitano una fila lunghissima e disperatissima di uomini e partiti che lo supplicavano di accettare una rielezione, poi esauritasi in un biennio troppo faticoso anche per un uomo della salute e dei nervi come il primo e unico ex o post-comunista salito al vertice dello Stato.

         “Glielo avevo detto io di non fidarsi di quella gente”, mi disse l’ormai ex deputato Barbieri parlando della mancata elezione di Marini al Quirinale. Sulla mancata elezione di Prodi non volle spendere neppure una parola, tanto non l’aveva mai appezzato ricordando il giudizio che aveva di lui Carlo Donat-Cattin in vita.

         Addio, Emerenzio, amico mio.

Pubblicato su Libero

Quella panchina galeotta al margine di un G7 ancora più marginale

         Più che di opportunità, come si dice delle immagini emblematiche, rappresentative di certi eventi o situazioni, quella foto della panchina d’albergo col presidente americano Donald Trump e la premier italiana insieme che parlano nel contesto del G7 in Canada rischia di diventare d’inopportunità per Giorgia Meloni. Alla quale vedrete che avversari e critici contesteranno per un bel po’ la marginalità, occasionalità, irrilevanza e quant’altro dell’incontro con Trump. Come fecero del resto in dicembre con la foto che li riprese a Parigi ai margini della cena offerta dal presidente francese Emmanuel Macron per la riapertura della cattedrale Notre Dame, quando l’ospite americano aveva vinto le elezioni negli Stati Uniti ma non si era ancora insediato alla Casa Bianca per il suo secondo mandato. E Joe Biden era ancora il presidente in carica.

         La lotta politica è fatta anche di questi espedienti da “Amici mei”, come titola ironicamente la Stampa.  Ma stavolta l’espediente è ancora più incongruo del solito perché, prima ancora di quel Trump e Meloni che si parlano sbrigativamente, pur senza avere bisogno dell’interprete perché la premier se la cava bene da sola anche con l’inglese, dovrebbe colpire un osservatore politico obiettivo la sostanziale inconsistenza del G7 canadese. La volatilità delle dichiarazioni pronunciate o scritte, col vento che ha impietosamente fatto volare i fogli che Trump cercava di esibire ai fotografi per testimoniare un’intesa sui temi trattati, prima di tornarsene negli Stati Uniti in anticipo per fare cose più serie e urgenti, evidentemente.

         Mai come questa volta in Canadà il proscenio di un vertice internazionale ha offuscato la scena. Intendendosi il proscenio per la guerra deflagrata fra Israele e Iran e la scena per un G7 impietosamente scavalcato, persino umiliato dagli sviluppi di una situazione internazionale impermeabile a ogni discussione, a ogni auspicio, a ogni comunicato e persino a ogni minaccia, come sono apparse certe parole pronunciate o attribuite a Trump contro l’Iran per il tempo che gli aveva fatto perdere nelle trattative sui liniti della nuclearizzazione di quella centrale dell’antisemitismo che è diventato il paese degli ayatollah.

         Il disordine mondiale nel quale qualche volenteroso, in buona o cattiva fede che sia, da protagonista o da comparsa, cerca di costruire un nuovo ordine svuota tutti gli organismi internazionali, a cominciare naturalmente dalle Nazioni Unite e le occasioni di confronto che non siano quelle estreme della guerra di turno. O della guerra mondiale a pezzetti in corso da tempo. Da troppo tempo. Appendersi a una panchina per fare polemiche, distrarsi e distrarre è alquanto penoso.

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