Il masochismo parlamentare delle opposizioni nel solito ordine sparso

         Poi dicono, protestano, sproloquiano in politichese e persino in giuridichese sul Parlamento ormai svuotato dal governo. Ma dove le opposizioni un po’ autolesionisticamente reclamano ad ogni stormir di foglie, e tanto più ad ogni guerra,  il solito dibattito. Per uscirne però peggio di come vi fossero entrate confermando le loro divisioni, più chiare ed evidenti di quelle che esse intravedono, denunciano e quant’altro nella maggioranza e nella stessa compagine ministeriale: fra i soliti vice presidenti del Consiglio Matteo Salvini e Antonio Tajani, in ordine alfabetico, o  fra il ministro della Difesa Guido Crosetto e la premier  Giorgia Meloni, che pure l’ha adottato come padre da quando si lasciò sollevare da lui su un palco e dondolare come una figlia.

         Alla Camera la maggioranza è tornata a votare compatta dopo la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra di Israele all’Iran a vocazione nucleare e gli effetti che ne potrebbero derivare.  Le opposizioni sono tornate a votare divise rendendo non di cartone o di carta ma di polvere la loro aspirazione a costituirsi in alternativa al governo di centrodestra.

Più in particolare, la segretaria del Pd Elly Schlein e il presidente del Movimento ancora chiamato 5 Stelle, Giuseppe Conte, hanno votato ciascuno un proprio documento. Ma soprattutto si sono preparati al dibattito, fra lanci di agenzie e di missili, l’una telefonando alla premier e l’altro scaricando come “criminale” il presidente americano Donald Trump. Che pure nel suo primo passaggio alla Casa Bianca lo aveva gratificato di un Giuseppi, al plurale, scambiato per concessione di amicizia e simpatia. Ma forse oggi interpretabile come preveggenza di Trump di fronte alla capacità appena dimostrata allora da Conte di cambiare maggioranza, dal giorno alla notte, pur di restare a Palazzo Chigi. Dove l’ex premier, allontanato da Mario Draghi nel 2021, vorrebbe notoriamente tornare.   

Quelle Schlein e Meloni cartonate insieme in piazza, ma non solo

Quel diavolo di Tramp, con la a ineguagliabilmente applicatagli da Federico Rampini parlandone al di là e al di qua dell’Atlantico, è riuscito con i tempi scelti per l’intervento americano nella guerra di Israele all’Iran a sorpassare anche le piazze di sabato scorso a Roma.  Dove da quella “insalata russa” ricavata polemicamente dal deputato del Pd Emanuele Fiano osservando da casa le immagini combinate dei dimostranti contro il riarmo europeo e di quelli a favore della Palestina libera dal fiume al mare erano emerse incartonate in tenute militari insanguinate, da sinistra a destra, la segretaria del Nazareno Elly Schlein, la presidente tedesca della Commissione europea Ursula von der Leyen e la premier italiana Giorgia Meloni.

         Sembrava una riedizione ristretta, a livello europeo, del fantomatico Stato imperialista mondiale immaginato negli anni Settanta dalle brigate rosse coinvolgendovi anche il “pacifico e mite” Aldo Moro, nella famosa definizione del Papa e amico Paolo VI, sequestrandolo fra il sangue della scorta e infine uccidendolo. Quei fantasiosi terroristi avrebbero dovuto fare altrettanto anche col segretario del Pci Enrico Berlinguer, imborghesitosi secondo loro nel perseguimento del famoso “compromesso storico” con la Dc, ma lo risparmiarono per lasciargli un’occasione di riscatto. Che a suo modo l’interessato colse ritirandosi spontaneamente dopo la morte di Moro, appunto, dalla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale a sostegno esterno di due governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti.

         Il governo immaginario e guerrafondaio delle incartonate Schlein, von der Leyen e Meloni, funzionale all’ambizione di Giuseppe Conte di tornare a Palazzo Chigi cavalcando pacifismo, qualunquismo, antiamericanismo e altri ismi  che si espliciteranno strada facendo, è sembrato prendere corpo quando la segretaria del Pd, peraltro tenutasi già prudentemente lontana dalle strade e piazze romane di sabato scorso ha preferito chiamare la Meloni e conversare con lei per una ventina di minuti sugli sviluppi della situazione internazionale. Piuttosto che accodarsi al “criminale” gridato da Conte al Tramp edizione 2025, così diverso da quello che gli aveva dato amichevolmente del “Giuseppi”, al plurale, nella sua prima esperienza alla Casa Bianca. Quando Conte era appena rimasto a Palazzo Chigi cambiando maggioranza alla fine della crisi del suo primo governo gialloverde.

         Le piazze, a pensarci bene, sono una brutta bestia a cavalcarle. Possono produrre di tutto. Quelle italiane degli anni Settanta furono sopravanzate dal piombo delle già citate brigate rosse impegnate contro l’altrettanto già citato Stato imperialista mondiale.

         Quelle del mitico Sessantotto, inteso come 1968, erano state in Italia e altrove, a Parigi per esempio, tanto gioiose e spavalde nel reclamare la fantasia al potere, piuttosto che i partiti, le burocrazie e le banche, quanto cieche e pusillanimi davanti alle sopraffazioni e al sangue reali. Nessun corteo era riuscito a formarsi allora per solidarizzare con la Cecoslovacchia normalizzata dalle truppe sovietiche e affini dopo la prima ancora nominalmente primavera comunista di Alexander Dubcek. Così come ora, ahimè, nessun corteo o manifestazione di teatro s’intravvede a sostegno dell’Ucraina. Della quale ormai Putin parla di cosa sua, o nostra nel senso plurale della sua esperienza post-comunista e post-zarista.

         Sì, un’ombra di sostegno all’Ucraina sotto il ferro e il fuoco di Putin, almeno da tre anni e più, se non vogliamo risalire ancora più indietro, sembrò profilarsi a Milano, in antitesi con una manifestazione a Roma per Gaza promossa da Conte e Schelin insieme, per iniziativa di quel fantasma del terzo polo che ogni tanto viene evocato tra il serio e il faceto.  Ma fu un disguido. Poi si precisò e prese corpo in pochi giorni una manifestazione solo concorrente con quella di Roma per Gaza. Solo per Gaza.

Pubblicato su Libero

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