Il Corriere della Sera corregge il tiro sulla guerra di Israele all’Iran

         Al Corriere della Sera, nella Sala Albertini e dintorni, nei piani alti e bassi di via Solferino ci sono voluti tre giorni di cronache di guerra dal Medio Oriente, e i supplementi di notizie più o meno diplomatiche sulla possibilità di una fuga dell’ayatollah Kamenei a Mosca, come quella del dittatore siriano Assad, per porsi il problema di una correzione di linea dopo il monito del due volte ex direttore Paolo Mieli a Israele a non illudersi di potere rovesciare il regime a Teheran con la forza. Il compito è stato affidato ad Angelo Panebianco con un editoriale scritto in punta di penna, come si diceva prima dell’uso del computer. Contestando l’ex direttore con l’aria di proseguirne il ragionamento e attenuarne in senso pessimistico la conclusione. Come se fosse preferibile tentare il rovesciamento o l’implosione di un pericoloso regime aspirante peraltro alla bomba atomica riempiendo di proteste le piazze romane. Dove peraltro non si è riusciti di recente a strappare ai promotori di una manifestazione a sostegno di Gaza il consenso a cartelli e documenti di condanna esplicita dell’antisemitismo.   

         “Se è assai dubbio -ha scritto Panebianco pensando anche a Mieli senza nominarlo- che l’azione militare di Israele possa provocare da sola il crollo del regime iraniano (a memo di divisioni forti entro la sua classe dirigente), può invece provocare un pesante ridimensionamento del suo ruolo internazionale, può comprometterne lo status di potenza regionale. Non è detto che ci riesca ma forse può impedire all’Iran di diventare in tempi rapidi una potenza nucleare. Può inoltre indebolire la sua capacità di sostenere gruppi armati esterni”. E indebolire anche “la capacità dell’Iran -ha ricordato Panebianco allungando lo sguardo ben oltre il Medio Oriente- di continuare a rifornire la Russia dei droni che le servono per colpire l’Ucraina”. Vi pare poco, coi tempi che corrono?

         Se “occorre comunque diffidare della semplicistica idea secondo cui sia sufficiente un intervento militare esterno per provocare un mutamento di regime”, è sembrato concedere Panebianco al suo ex direttore, occorre anche diffidare dell’altrettanto semplicistica idea di risparmiarsi la forza per difendersi dal malintenzionato di turno, scommettendo sulla sua stanchezza o sul suo ravvedimento.

         Bentornato al Corriere della Sera, direi, alla realtà. E buon viaggio a Kamenei a Mosca, se davvero Putin è disposto ad accogliere pure lui, magari d’accordo col solitamente imprevedibile Trump.

Ripreso da http://www.startmag.it

Il pessimismo della ragione di Paolo Mieli e l’ottimismo della volontà di Israele

Le sorprese si inseguono e si sommano come bambole in una gigantesca matrioska di fronte al disordine delle guerre a pezzi sempre più ravvicinati. Che Papa Francesco, morendo in tempo, si è risparmiato di vedere nei loro sviluppi e di denunciare con quel poco di forza e di voce che gli erano rimaste. La sorpresa, per esempio, del presidente americano Donald Trump che, pur non essendo riuscito a strappare davvero a Putin una rinuncia alla guerra all’Ucraina, neppure dopo averne rovesciato il ruolo da aggressore ad aggredito, ha mostrato di prenderlo sul serio come mediatore fra Israele e Iran in guerra. Anzi, nella fase più diretta e trasparente, direi, di una guerra che si trascina da tempo. Sarei tentato di dire “finalmente trasparente” se non vi fossi umanamente e decentemente trattenuto dalle dimensioni del conflitto, dalla quantità dei morti e delle distruzioni e dalla imprevedibilità da brividi dei suoi effetti.

         La sorpresa, per rientrare nei confini del nostro disordine interno, cioè nei confini della polemica e del dibattito di casa nostra, e più in particolare a livello mediatico, dell’insospettabile amico Paolo Mieli, due volte direttore del Corriere della Sera, col suo passato familiare e personale di sostenitore della causa israeliana. Egli è passato dal disagio procuratogli da Israele, appunto, per le dimensioni della guerra a Gaza, provocata dal pogrom del 7 ottobre 2023, all’attacco alla dichiarata volontà di Netanyahu di impedire la bomba atomica all’Iran e insieme determinare la caduta di un regime che ha promosso a religione l’odio per gli ebrei.

         Il discorso cominciato sul Corriere della Sera da Paolo Mieli è stato portato avanti sullo stesso giornale da Lorenzo Cremonesi per aggiungere ai ricordi delle esportazioni della democrazia fallite in Irak, in Afghanistan, in Libia quello che ha coinvolto più direttamente Israele in Libano. Dal quale dovette a suo tempo fuggire Arafat e dove poi gli iraniani hanno potuto a lungo disporre del loro braccio armato contro Israele. Ma nella stessa Gaza, ha praticamente ricordato Cremonesi, gli israeliani hanno preferito Hamas alla cosiddetta Autorità Palestinese, con tutte le maiuscole al loro posto, per trovarsi alla fine nella situazione del peggiore isolamento nel tentativo di venirne a capo.

         Tutto logico e purtroppo anche vero, per carità.  Le ricostruzioni sono perfette. Le analisi forse un po’ meno se la loro conclusione è praticamente la rassegnazione. O persino la resa al pessimismo della ragione, direbbe forse la buonanima di Antonio Gramsci, che preferiva notoriamente l’ottimismo della volontà. La resa cioè al male per paura di scongiurarne uno ancora peggiore. Neppure Giacomo Leopardi riuscirebbe a tradurre in versi la disperazione derivante da una simile contemplazione, ripeto, del male. Mettiamogli pure la maiuscola usata dagli ayatollah a Teheran e dintorni per indicare quello israeliano che intendono sradicare, con o senza l’atomica.

Pubblicato sul Dubbio

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