Tafazzi veste ora di rosso assaltando e denigrando la sicurezza

         Tafazzi, il campione immaginario, sinonimo dell’autolesionismo, non dovrebbe vestire più in nero, con la sospensione in bianco della calzamaglia. Nella situazione politica italiana, con la destra al governo da più di due anni e mezzo e i “fratelli d’Italia” della Meloni in vantaggio sul Pd di Elly Schlein, avventuratosi sulla strada referendaria anche per liberarsi degli errori contestati alla passata conduzione renziana del Nazareno, Tafazzi dovrebbe vestire di rosso. E riservarsi il nero, magari, per la sospensione a protezione degli zebedei colpiti non più da una bottiglia vuota di plastica, come nel repertorio originario, ma da una pietra sempre più appuntita.

         L’offensiva parlamentare e di piazza contro il decreto chiamato “sicurezza”, e appena approvato con la conversione definitiva in legge al Senato a larga maggioranza, fatta di 109 sì e 69 no, produrrà più vantaggi che svantaggi elettorali al governo, secondo una linea di tendenza ormai consolidata. E non solo in Italia, come ha riconosciuto e ammonito ieri sera Beppe Severgnini a Otto e mezzo, nel silenzio una volta tanto della conduttrice Lilli Gruber partecipe e per niente moderatrice della formula “tutti contro uno” di quel salotto televisivo dell’opposizione.   

         Un tafazzismo, quello delle opposizioni politiche, che è aggravato dai fiancheggiatori che ne amplificano mediaticamente la propaganda con i numeri e le derisioni. I numeri, per esempio, di Repubblica e del Fatto Quotidiano sui 14 nuovi reati che sarebbero stati introdotti con l’ultimo decreto, o forse penultimo temendone ancora altri, e avrebbero portato a 62 il bilancio complessivo. Attribuito al governo in generale e al ministro della Giustizia in particolare. Ministro del quale è stato arricchito il nome dal solito Marco Travaglio chiamandolo Carletto Mezzolitro Nordio. Testuale. La prossima volta, magari, il ministro sarà sfottuto come Carlo Litro Nordio. O Carlo Fiasco Nordio.

         In giapponese chiamano questa pratica harakiri. In inglese e francese suicide. In italiano si dice suicidio. Ma anche tafazzismo, per tornare all’inizio di questo racconto, più che commento.

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Il quorum del referendum abrogativo come il dito puntato verso la luna

La campagna per i cinque referendum abrogativi di domenica e lunedì prossimo su lavoro e cittadinanza va concludendosi come al solito più sul cosiddetto quorum di partecipazione al voto che sui loro contenuti. Al solito, perché è da una quarantina d’anni che accade più o meno così.

         Già nel 1985, quindici anni dopo l’approvazione della legge di disciplina dei referendum abrogativi, undici dopo la battaglia storica sul divorzio, l’insospettabile referendarista Marco Pannella, non condividendo l’abrogazione dei tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari contestati dalla Cgil su commissione del Pci, propose l’obiettivo di fare mancare il quorum della partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto.

         Ne fu tentato anche l’allora presidente socialista del Consiglio Bettino Craxi. Che però, una volta intuito o informato che una vittoria del sì sarebbe stata utilizzata dal segretario della Dc Ciriaco De Mita per promuovere la crisi di un governo durato già troppo rispetto alle abitudini e ai tempi dello scudo crociato e delle sue correnti, alzò coraggiosamente la posta. O prese di contropiede l’alleato insofferente e annunciò, pochi giorni prima del voto, che si sarebbe dimesso “un attimo dopo” l’eventuale sconfitta referendaria. Il risultato fu che il sì all’abrogazione prevalse nella Nusco di De Mita e altrove, ma vinse largamente il no a livello generale. E con un’alta affluenza alle urne.

         Sei anni dopo, nel 1991, da segretario socialista soltanto, e non più presidente del Consiglio, ancora fiducioso tuttavia di potere tornare ad esserlo, egli preferì puntare sulla mancanza del quorum per difendere dall’abrogazione il voto plurimo di preferenza alla Camera. E perse, firmando praticamente da solo la sconfitta pur avendovi partecipato il nascente leader leghista Umberto Bossi.

         Ciò dovrebbe indurre alla prudenza chi punta alla mancanza del quorum domenica e lunedì prossimo, compresa naturalmente la premier Giorgia Meloni. Che ha dato appuntamento ai fotografi per riprenderla nell’attimo in cui, varcata la soglia del suo seggio elettorale, non ritirerà le schede per votare. Cioè le rifiuterà per raddoppiare il senso della sua astensione. Ma, diversamente da Craxi nel 1991, la Meloni può contare adesso sull’abitudine ormai presa dagli elettori in una trentina d’anni di disertare le urne referendarie, ancor più delle urne per il rinnovo delle Camere e delle amministrazioni locali.

         E’ un’abitudine favorita un po’ da un certo abuso dell’arma referendaria, anche a grappoli, e un po’ anche da una curiosa, paradossale, difesa contro-tendenza delle prerogative del Parlamento. A sostegno delle quali i costituenti nel 1947 introdussero sì l’istituto del referendum abrogativo, non condiviso dal Pci di Palmiro Togliatti, ma stabilendo appunto il quorum della partecipazione, non potendo né dovendo risultare facile all’elettorato sostituirsi alle Camere nel disfare le leggi da esse approvate, o lasciate invariate nei testi ereditati dalle precedenti.

Pubblicato sul Dubbio

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