Un centenario dopo d’altro. Da Giovanni Spadolini a Giorgio Napolitano, nati cento anni fa, rispettivamente, il 21 e il 29 giugno. L’uno mancò per un pelo il Quirinale nel 1992, pur da presidente supplente della Repubblica come presidente del Senato, e dopo essere stato il primo presidente del Consiglio non democristiano nella storia della Repubblica. L’altro lo centrò due volte: nel 2006 succedendo a Carlo Azeglio Ciampi e nel 2013 venendo rieletto dal Parlamento. Ma dopo due anni, quando gliene mancavano altri cinque alla scadenza, si dimise per stanchezza dichiarata e per delusione nascosta. La stanchezza naturale di un uomo di 90 anni, la delusione per un sistema resistente alle sue sollecitazioni riformistiche da lui rinnovate con un vigoroso, sferzante discorso dopo la rielezione.
Di Napolitano al Quirinale già durante il primo mandato la stampa nazionale e persino quella internazionale coniò l’affettuoso, più che rispettoso, soprannome di Re Giorgio. Che un po’ lo lusingò, pur nell’imbarazzo di sentirsi considerato una specie di enclave monarchica di una Repubblica che peraltro aveva avuto come primi presidenti due elettori monarchici come Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.
Di quest’ultimo, nell’esercizio delle sue funzioni presidenziali, Napolitano raccolse la raccomandazione, diciamo così, di lasciarne intatte le prerogative ai successori. Lo fece, in particolare, nel 2012 ricorrendo alla Corte Costituzionale, attraverso l’Avvocatura Generale dello Stato per conflitto di poteri, contro i tentativi negati ma evidenti della Procura di Palermo di coinvolgerlo con alcune intercettazioni telefoniche, e con la loro gestione, nel processo poi perduto dall’accusa sulle presunte, controverse trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi.
Personalmente considero quella decisione di ricorrere alla Corte Costituzionale la più importante dei nove anni (sette più due) di Napolitano al Quirinale. Una decisione in difesa degli equilibri nei rapporti fra i poteri regolati dalla Costituzione, e non di volta in volta dalla Procura o dal tribunale di turno. Rapporti di cui in un altro, precedente momento qualificante del suo primo mandato Napolitano aveva sottolineato il “brusco cambiamento” intervenuto negli anni delle cosiddette “mani pulite”. Lo aveva severamente rilevato scrivendo ad Anna Craxi una lettera pubblica, diffusa dal Quirinale, nel decimo anniversario della morte del marito Bettino. Che era stato trattato “con durezza senza uguali” -aveva scritto Napolitano sul piano giudiziario e mediatico- nelle indagini e nei processi contro la pratica generalizzata del finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica.
Già dirigente, non a caso minoritario con i suoi compagni riformisti, o “miglioristi”, del partito comunista, Napolitano fu al Quirinale qualcosa ancora più di Re Giorgio. Fu un galantuomo.