L’enclave…monarchica di Giorgio Napolitano nella storia della Repubblica

         Un centenario dopo d’altro. Da Giovanni Spadolini a Giorgio Napolitano, nati cento anni fa, rispettivamente, il 21 e il 29 giugno. L’uno mancò per un pelo il Quirinale nel 1992, pur da presidente supplente della Repubblica come presidente del Senato, e dopo essere stato il primo presidente del Consiglio non democristiano nella storia della Repubblica. L’altro lo centrò due volte: nel 2006 succedendo a Carlo Azeglio Ciampi e nel 2013 venendo rieletto dal Parlamento. Ma dopo due anni, quando gliene mancavano altri cinque alla scadenza, si dimise per stanchezza dichiarata e per delusione nascosta. La stanchezza naturale di un uomo di 90 anni, la delusione per un sistema resistente alle sue sollecitazioni riformistiche da lui rinnovate con un vigoroso, sferzante discorso dopo la rielezione.

         Di Napolitano al Quirinale già durante il primo mandato la stampa nazionale e persino quella internazionale coniò l’affettuoso, più che rispettoso, soprannome di Re Giorgio. Che un po’ lo lusingò, pur nell’imbarazzo di sentirsi considerato una specie di enclave monarchica di una Repubblica che peraltro aveva avuto come primi presidenti due elettori monarchici come Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.

Di quest’ultimo, nell’esercizio delle sue funzioni presidenziali, Napolitano  raccolse  la raccomandazione, diciamo così, di lasciarne intatte le prerogative ai successori. Lo fece, in particolare, nel 2012 ricorrendo alla Corte Costituzionale, attraverso l’Avvocatura Generale dello Stato per conflitto di poteri, contro i tentativi negati ma evidenti della Procura di Palermo di coinvolgerlo con alcune intercettazioni telefoniche, e con la loro gestione, nel processo poi perduto dall’accusa sulle presunte, controverse trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi.

         Personalmente considero quella decisione di ricorrere alla Corte Costituzionale la più importante dei nove anni (sette più due) di Napolitano al Quirinale. Una decisione in difesa degli equilibri nei rapporti fra i poteri regolati dalla Costituzione, e non di volta in volta dalla Procura o dal tribunale di turno. Rapporti di cui in un altro, precedente momento qualificante del suo primo mandato Napolitano aveva sottolineato il “brusco cambiamento” intervenuto negli anni delle cosiddette “mani pulite”. Lo aveva severamente rilevato scrivendo ad Anna Craxi una lettera pubblica, diffusa dal Quirinale, nel decimo anniversario della morte del marito Bettino. Che era stato trattato “con durezza senza uguali” -aveva scritto Napolitano sul piano giudiziario e mediatico- nelle indagini e nei processi contro la pratica generalizzata del finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica.

         Già dirigente, non a caso minoritario con i suoi compagni riformisti, o “miglioristi”, del partito comunista, Napolitano fu al Quirinale qualcosa ancora  più di Re Giorgio. Fu un galantuomo.

Lo scacco matto della Cassazione alla Corte Costituzionale

Presi, distratti e quant’altro dai cortili dei partiti, di opposizione e un po’ anche della maggioranza, diciamocelo pure, con quelle distinzioni pur tattiche più che strategiche tra forze che si contendono nel centrodestra qualche decimale di punto nei sondaggi, ho paura che ci stia sfuggendo, se non ci è già sfuggito, ciò che avviene nelle Corti, al maiuscolo. Mi riferisco, in particolare, alla Corte di Cassazione ospitata nel Palazzaccio -nomen homini, verrebbe voglia di dire- sotto lo sguardo del povero Camillo Benso di Cavour che le contende il dominio dell’omonima piazza romana- e della Corte Costituzionale dirimpettaia del Quirinale.

         La Corte Costituzionale, nota anche come Consulta per l’omonimo palazzo che la ospita, dovrebbe sentirsi in una botte di ferro, presidiata dall’articolo 134 della Costituzione. Che le conferisce l’esclusiva del giudizio -testuale, e inappellabile- “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi fora di legge, dello Stato e delle Regioni”. Nonché “sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni”. E infine “sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica”: l’unico imputato eccellente rimastole peraltro dopo la riforma del 1989 che affidò i ministri agli omonimi tribunali della magistratura ordinaria.

         La Corte di Cassazione depositaria del terzo grado di giudizio nei processi civili e penali  dispone, fra gli altri, di un ufficio chiamato “Massimario”, dove si avvicendano 37 giudici che saremmo autorizzati a considerare degli eccellenti archivisti, essendo il loro compito quello – si legge nei testi ufficiali- dell’”analisi sistematica della giurisprudenza per creare le condizioni di un’utile e diffusa informazione (interna ed esterna alla Corte) necessaria per il migliore esercizio della funzione nomofilattica della Corte”. Vi risparmio altri riferimenti testuali anche per esigenze e considerazioni climatiche, non essendo umano sfidare la vostra pazienza col caldo che fa.

         Ebbene, questo ufficio -ripeto- del Massimario della Cassazione, sfidando anche la capacità di comprensione e di fede del ministro della Giustizia Carlo Nordio, dichiaratosi “incredulo” fra le proteste solite dei suoi ex colleghi magistrati e della loro associazione, ha emesso un documento di ben 139 pagine di esame critico, cioè contrario, della legge sulla sicurezza appena approvata dalle Camere convertendo un decreto sventolato nelle piazze dalle opposizioni come una specie di manifesto del governo autoritario, parafascista e simili in carica.

         Di questa legge sono state contestate nel documento della Cassazione  sia la necessità e l’urgenza richieste dalla Costituzione per percorrere il sentiero abbreviato del decreto-legge, sia una trentina di “contenuti”, diciamo così. Cioè di norme che nella loro presunzione di garantire di più l’ordine e i diritti dei cittadini. magari privati della loro abitazione o della loro mobilità, creerebbero solo disordine, ingiustizia e prepotenza.

         Per i timbri che l’accompagnano, per la carta intestata sulla quale è stato scritto e per la diffusione avuta anche grazie alla incompetenza -perché negarcelo fra di noi?- di una certa informazione che ha annunciato la “bocciatura” della legge, il documento della Cassazione è diventato la bandiera delle opposizioni. Come un altro, diffuso attraverso il manifesto, contro i noti accordi con l’Albania in tema di immigrazione.

         Dalla Corte Costituzionale, cortili interni e adiacenze, non ho sentito levarsi neppure un sospiro non dico di protesta ma almeno di disagio.  Niente. Un colpo di sole, del resto stagionale, sembra avere colpito tutti. Il sistema sembra entrato in ferie anticipate, non potendo le opposizioni, anche per tornaconto politico, scommettere sulle elezioni anticipate.

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Ripreso da http://www.startmag.it il 1° luglio

Le reazioni di Nordio e Piantedosi alla Cassazione del Massimario

         Dei due ministri, della Giustizia e dell’Interno, in qualche modo “cassati” dal Massimario della Suprema Corte per il disegno di legge sulla sicurezza poi tradotto in decreto legge e infine approvato dalle Camere, il primo – Carlo Nordio- si è notoriamente dichiarato “incredulo”. L’altro, Matteo Piantedosi, intervistato dalla Stampa, ha avvertito e lamentato nelle 129 pagine di critiche al provvedimento “una forte impostazione ideologica”. Che non piacerà neppure essa, come la incredulità del Guardasigilli, ai magistrati associati nel loro sindacato, pur gratificati dal ministro e prefetto Piantedosi di una “ideologia” che meriterebbe forse di essere chiamata diversamente.

         Di ideologico vedo poco nel documento del Massimario della Cassazione. Vedo molto invece di pratico. Inteso come pratica del potere. Di un potere, quello della giustizia ordinaria, prevaricante anche su quello della giustizia straordinaria e costituzionale: l’unica che con la Corte Costituzionale, appunto, è legittimata ad esprimersi sulla legittimità, a sua volta, delle norme approvate dal Parlamento, comprese quelle sulla sicurezza strapazzate da una quarantina di giudici della Cassazione. Quanti sono quelli dell’ufficio del Massimario che hanno steso un documento di analisi, studio, eccetera sulla legge chiamata sicurezza scommettendo -credo- sulla ignoranza mediatica e politica, a dir poco, che lo avrebbe scambiato per una sentenza. Per una “bocciatura”, uno “schiaffo”, una “sepoltura” e altre amenità che si sono lette e scritte fra ieri e oggi.

         Con fiducia, spero ben riposta, nei giudici davvero investiti del potere di bocciatura, il ministro Piantedosi si è detto “certo che, allorquando le questioni in argomento dovessero essere sollevate in veri e propri procedimenti giudiziari, saranno ben altre le valutazioni che verranno espresse”.

         Nel frattempo avremo assistito al solito spettacolo della giustizia, rigorosamente al minuscolo, capace di autodelegittimarsi con invasioni di campo che la pubblica opinione avverte da tempo. Non a caso da un recente rivelamento Eurispes la sfiducia nella magistratura è risultata maggiore della sfiducia. Il 46,5 contro il 43,9 per cento. E in un contesto del genere l’associazione dei magistrati scommette ancora sulla disponibilità degli italiani a bocciare nel referendum cosiddetto confermativo la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e altro della riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario all’esame del Parlamento.

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Bersani prospetta Riarmopoli contro l’aumento delle spese militari

Giusto per non rimanere nella gabbia della solita ironia nella quale si infila di solito con le sue metafore, l’ultima delle quali coniata chiedendo alla premier Giorgia Meloni se non disponga, naturalmente al Colle Oppio, di una miniera di diamanti per finanziare la partecipazione alle maggiori spese concordate per la partecipazione alla Nato, Pier Luigi Bersani l’ha buttata sul piano moralistico. Il solito, anch’esso, di una certa sinistra tanto priva di idee e di coraggio quanto piena di paure, ossessioni, incubi.

         A spaventare l’ex segretario del Pd, uscito e rientrato al Nazareno con Massimo D’Alema e altri vecchi compagni del Pci, sono non solo i miliardi di euro che il governo della Meloni e quelli successivi dovranno trovare in una decina d’anni per aumentare le spese militari, ma anche quelli che guadagneranno sulle commesse d’armi e simili i soliti corruttori, in uscita e in entrata.

         L’Italia rischierebbe insomma non uno ma dieci, cento, mille scandali Lookeed, come quello a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta per la fornitura al Ministero della Difesa di aerei di trasporto militare di quell’industria americana. Una fornitura trattata, esattamente fra il 1968 e il 1971, da cinque governi: uno di Giovanni Leone, tre di Mariano Rumor e uno, l’unico, di Emilio Colombo.

         A evocare la vicenda Lookheed nel salotto televisivo di cui lui era ospite l’altra sera non è stato, in verità Bersani. E’ stato a sorpresa il mio amico Luca Josi, l’ultimo segretario della federazione socialista degli anni di Bettino Craxi. A sorpresa, dicevo, perché Luca sa bene quanto scivoloso sia il terreno del moralismo in politica. Un terreno sul quale Bersani è fiondato come un falco per prospettare i soliti scenari da mani pulite, diciamo così, al quadrato, al cubo e oltre.

         Se non vogliamo farlo insomma per la pace, sempre in pericolo quando si fanno affari con le armi, evitiamo il cosiddetto riarmo, come si continua a chiamarlo nonostante tutti i tentativi di dargli un altro nome, per non indurre in tentazione corruttori e corrotti. O non lasciarli indurre in tentazione, come dice il testo aggiornato della più celebre preghiera cristiana che è il padre nostro.

         Rinunciamovi preventivamente, come viene chiesto, sempre da quelle parti, supportate persino da indagini giudiziarie, intercettazioni e simili, per il ponte sullo stretto di Messina. Che peraltro fra i vari inconvenienti di potenziale corruzione, persino mafiosa, ha dovuto registrare in questi giorni anche quello dell’inserimento del progetto tra le infrastrutture finalizzateanche al rafforzamento della difesa militare. Una ciliegia, si sa, tira l’altra.

         Non vorrei esagerare nella pratica andreottiana di pensare male azzeccandoci, ma in questo ricorso a scenari di corruzione vedo anche qualcosa di intimidatorio, come in certe forme esasperate di antifascismo, anch’esso preventivo. Si prefigura una Meloni a rischio di finire, a torto a ragione, in qualche giro malavitoso, oltre che guerrafondaio, genocida e via sproloquiando.

         Proprio in questi giorni, sia pure ai margini di eventi celebrativi di altri protagonisti della storia repubblicana, ho visto, anzi rivisto trascinare quel galantuomo di Giovanni Leone nello scandalo Lookheed. Che gli sarebbe costato anche il Quirinale, costretto alle dimissioni sei mesi prima della scadenza del suo mandato, nel 1978, su pressioni combinate del suo stesso partito, la Dc, e del Pci. Pentitisi entrambi, con i radicali di Marco Pannella che li avevano paradossalmente fiancheggiati, col solito ritardo.

         Ancora una volta si è fatto e si fa un torto al povero Leone. Costretto alle dimissioni non per la faccenda degli aerei sui quali aveva trattato il suo secondo governo, nel 1968, ma per la paura che avevano democristiani e comunisti ch’egli si lamentasse pubblicamente, e non solo privatamente, di come fosse stata gestita dal governo e dalla maggioranza, comprensiva dei comunisti, il sequestro di Aldo Moro e il suo orribile epilogo.

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Il missile di carta della Cassazione contro la legge sulla sicurezza

         Ciascuno spara i suoi missili. Ne ha, per quanto di carta, anche la Corte di Cassazione, che ne ha sparato uno dal suo Ufficio del Massimario non solo e non tanto contro il “decreto sicurezza”, come continuano in molti a chiamarlo anche ora che è stato approvato e convertito in legge dalle Camere, quanto contro il presidente della Repubblica. Che magari farà finta di niente per quieto vivere, ma si è visto bocciare anche lui, come il Parlamento e il Governo nelle loro competenze, e con le dovute maiuscole, per avere riconosciuto i requisiti “straordinari di necessità e urgenza” quando firmò il decreto. Requisiti contestati in Parlamento e nelle piazze dalle opposizioni e ora anche dalla Cassazione. O dal suo Ufficio del Massimario, ripeto, che da un complesso archivio come ci eravamo abituati a considerarlo è stato promosso in diretta televisiva da Pier Luigi Bersani, solito ospite dell’altrettanto solito salotto televisivo di Lilli Gruber, in “sala macchine” della Suprema Corte.

         Raccolte in 139 pagine diffuse alla stampa, di cui il dichiaratamente “incredulo” ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto l’acquisizione anche per valutarne le modalità di diffusione, le osservazioni critiche dei 37 giudici che dovrebbero comporre l’ufficio della Cassazione in due rami, civile e penale, le osservazioni critiche del Massimario riguardano una trentina di punti della legge. E costituiscono oggettivamente un incentivo a promuovere cause nelle quali sollevare contestazioni da tradurre in interventi presso la Corte Costituzionale. Che rimane ancora, grazie a Dio, l’unica a poter giudicare, come dice l’articolo 134 della Costituzione, “sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi, o degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. E a poter “dichiarare -secondo l’articolo 136- l’illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge” che “cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”,

         Più che un archivio di sentenze, di loro analisi e di studi per “individuare -come si legge nel siti ufficiali- i principi di natura nomofilattica affermati nelle decisioni della Corte di Cassazione allo scopo di creare le condizioni necessarie per consentire la più ampia e diffusa informazione”, questo ufficio del Massimario mi sembra essere, o diventato, un sommergibile. Dotato della “sala macchine” apprezzata dal già citato Bersani e in continua navigazione non difensiva ma offensiva, di supporto alla guerra sistemica, almeno nelle abitudini italiane, dell’opposizione al governo. Non mi sembra francamente uno spettacolo rassicurante. Come non è giustamente sembrato al Guardasigilli. E come spero che prima o dopo scappi finalmente di dire al Capo dello Stato.

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Quanta bile di carta per le nozze veneziane di Bezos e Sanchez

         Si possono dunque scalare e conquistare le prime pagine dei maggiori giornali senza sparare un missile, solo decidendo, organizzando e realizzando il suo matrimonio, peraltro non il primo, a Venezia. E invaderla di ospiti più o meno eccellenti e di soldi, sino a farne un tappeto sulla laguna, come nella vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera. Sistemata graficamente sul “Caffè” servito quotidianamente da Massimo Gramellini. Che ha degradato lo sposo a “povero” chiamandolo per none -Jeff- e risparmiandogli il cognome -Bezos- e cercandogli di spiegare come realizzare una festa nuziale meno cara e clamorosa, esposta a minori critiche, e più felice. Una festa, diciamo, sobria. Non ostentata con tanto poco gusto sociale, diciamo così, e altri inconvenienti delle stesse dimensioni di Amazon, l’impresa più famosa e riuscita di questo ingegnere di 61 anni e mezzo riuscito a sorprendere e a conquistare persino il presidente americano Donald Tramp: mi raccomando, con l’a più aperta possibile, come riesce a pronunciarla, non ancora a scriverla al posto della u, Federico Rampini. Che ne sta facendo una fortuna con le imitazioni di Maurizio Crozza.

         Superiore alla scoperta, all’attenzione, alla simpatia di Trump per il collezionista di miliardi Bezos è naturalmente solo quella di Lauren Sanchez, 55 anni molto ben portati, come i 61 di Jeff. Diavolo, potrò ben chiamarlo col solo nome anch’io, pur non essendo Gramellini e non scrivendo per il Corriere della Sera.

         Lascio ai politici, alcuni dei quali hanno voluto partecipare al dibattito e alle polemiche sull’evento veneziano, agli antropologi, ai sociologi, agli psichiatri eccetera eccetera il compito che si sono assunti di fare le pulci alla coppia di fuggevole e ben remunerata adozione veneziana. Per quanto ridotta ad una tartina o a un cappuccino dagli esperti di finanza consultati nei soliti salotti televisivi. Io mi prendo solo il lusso, il permesso e quant’altro di classificare come bile di carta lo scandalo che si sta cecando di fare di queste nozze. Bile e invidia: non so se più dei soldi dello sposo o dell’avvenenza della sposa. Ai quali auguro almeno un bon viaggio di nozze, che credo non vorranno ridurre, con i mezzi di cui dispongono, alla sola trasferta veneziana.

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Torna nei radar la guerra lunga e ostinata di Putin all’Ucraina

         Storico nell’accezione comune per il riarmo che deriverà anche dal livello del 5 per cento delle spese militari cui i paesi membri si sono impegnati ad arrivare in dieci anni, il vertice della Nato all’Aja è stato decisivo nell’immediato per il paragrafo dedicato nel documento finale all’Ucraina. “La cui sicurezza – vi si legge- contribuisce alla nostra”. “A tal fine -continua il testo concordato- includiamo i contributi diretti alla difesa dell’Ucraina e alla sua industria della difesa nel calcolo delle spese per la difesa per gli alleati”. Putin non avrà gradito a Mosca, dove da più di tre anni ordina azioni di guerra contro il paese limitrofo riuscendo a sfibrare anche Trump. Che pur di invogliarlo a farla finita gli aveva disinvoltamente concesso di considerarsi l’aggredito anziché l’aggressore.

         I 50 minuti dell’incontro che lo stesso Trump ha avuto al vertice Nato con l’ospite Zelensky e il riconoscimento fatto alla sua “battaglia coraggiosa”, offuscata invece nel famoso incontro alla Casa Bianca dove poco mancò che i due venissero anche alle mani, completano il quadro del Consiglio Atlantico sul versante ucraino. Che è tornato ad emergere nella sua drammaticità dopo i “dodici giorni” di prevalenza della guerra di Israele all’Iran, alla quale Trump ha voluto associarsi bombardando nella profondità che gli israeliani non potevano raggiungere per colpire gli impianti nucleari.

         Ora c’è Gaza, naturalmente, cui provvedere, come ha chiesto anche l’Italia, considerando le condizioni di maggiore sicurezza in cui può sentirsi Israele. Ma soprattutto c’è l’Ucraina, da mettere ora anch’essa in sicurezza, su un fronte peraltro che investe direttamente l’Europa.

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Quell’ermo colle che fu il Quirinale per Giovanni Spadolini

Anche Fabrizio Tomada, che ne fu il consigliere e segretario nell’esperienza politica, ha voluto partecipare, scrivendone sul Messaggero, alle meritate celebrazioni di Giovanni Spadolini nel centenario della nascita. E a 31 anni dalla morte, a 44 dall’approdo a Palazzo Chigi come il primo presidente del Consiglio non democristiano nella storia della Repubblica italiana. Fu due anni dopo di lui, nel 1983, che vi arrivò il leader socialista Bettino Craxi, boccato quattro anni prima, per quanto incaricato dal  dal presidente della Repubblica e compagno di partito Sandro Pertini, dalla Dc. Dove, a parte Arnaldo Forlani che si astenne, la direzione democristiano non gradì. Poi Forlani ne sarebbe diventato il vice presidente a Palazzo Chigi, e Spadolini ministro della Difesa, quando un infelice risultato elettorale costrinse persino l’anticraxiano segretario della Dc Ciriaco De Mita ad accettare il segretario del Psi alla guida di un governo di coalizione. Ponendo una sola condizione compensativa: che i ministri scudocrociati fossero destinati alla metà dei posti complessivi di governo.

         “Ma questa è storia passata”, tornerebbe a scrivere Tomada, che ha usato queste parole per chiudere il clamoroso, impietoso inciso che ha voluto mettere nell’articolo in memoria di Spadolini per ricordarne  la mancata elezione al Quirinale nel 1992. Mentre peraltro lo stesso Spadolini svolgeva come presidente del Senato le funzioni di presidente supplente della Repubblica sostituendo Francesco Cossiga. Che si era dimesso con qualche settimana di anticipo rispetto alla scadenza del mandato, in quella che fu col solito compiacimento l’ultima “picconata” di Cossiga da capo dello Stato.

         In particolare, Tomada ha ricordato quando, nel 1992 appunto, Spadolini volle “financo volgere lo sguardo al più alto colle della Repubblica, ma -inutile negare i fatti o girarvi intorno con miseri arzigogoli- ci fu qualcuno nelle file di quel partito al quale fu sempre fedele che non lo appoggiò”. Quel partito era naturalmente il Pri, dove Spadolini era stato portato personalmente, dopo avere perduto la direzione del Corriere della Sera, da Ugo La Malfa. Morto nel 1979, senza poter vedere il suo amico ed estimatore arrivare a Palazzo Chigi e “volgere lo sguardo” -ripeto- al Quirinale.

         Pur partecipe del ristretto “ambito istituzionale” cui la successione a Cossiga era finita per il trauma della strage di Capaci, dove la mafia con metodi terroristici aveva sterminato Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutta la scorta; pur partecipe, dicevo di quell’ambito ristretto, con Oscar Luigi Scalfaro presidente della Camera e Giulio Andreotti presidente del Consiglio, Spadolini non potette contare né sui democristiani, interessati alla candidatura di Scalfaro , né sui comunisti, che potevano ricavare dalla elezione di Scalfaro il ritorno alla presidenza della Camera, né -ahimè- sui suoi, o su tutti i suoi amici di partito, come ha rivelato, lamentato e quant’altro il suo segretario e consigliere Tomada. Che vorrei comunque consolare raccontandogli che, mentre le Camere e i delegati regionali si accingevano ad eleggere Scalfaro, lo stesso Spadolini rispondeva ad una mia telefonata di rammarico facendomi notare che dopo sette anni egli avrebbe avuto la stessa età di Scalfaro in quel momento.  Insomma già pensava alla volta successiva.

         Grandissimo Spadolini, che magari aveva già steso, come si vociferava nei corridoi parlamentari e anche altrove, il discorso di insediamento pensando di passare da presidente supplente a presidente effettivo. Uno Spadolini che penso di sapere con chi si sarebbe oggi schierato nel mezzo del disordine mondiale nel quale siamo entrati alla ricerca di un nuovo ordine. Si sarebbe schierato con Trump pur così lontano da lui sotto tanti aspetti, con Nethanyau, con Zelensky e, penso, anche con la Meloni. Sì, Gorgia Meloni. La prima donna arrivata alla guida del governo nella storia intera d’Italia, e non solo della Repubblica.

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Quella foto di Meloni e Trump insieme andata di traverso a qualcuno….

         Dev’essere andata molto di traverso al Fatto Quotidiano di rito sempre più contiano -da Giuseppe Conte, l’ex presidente del Consiglio italiano migliore dopo il compianto Camillo Benso Conte di Cavour, secondo Marco Travaglio- quella foto di Trump e Meloni insieme a tavola. “Il presidente Usa -si legge nel titolo del Fatto- tiene accanto a sé la premier al gala prima del vertice dell’Alleanza atlantica” in Olanda. Dove Conte, sempre lui, era corso per dimostrare contro il riarmo e l’economia di guerra che il rapporto con la Nato imporrebbe all’Europa, a scapito di sanità, pensioni, lotta alla povertà, sopravvissuta in Italia alla sconfitta vantata dai grillini al governo, e tutto il resto della solita propaganda. Un’economia di guerra, verbalmente, come quella effettiva, ma sfuggita a Conte, che Putin ha imposto alla Russia con la guerra ancora in corso all’Ucraina.

         Di questa guerra di Putin alla “martoriata Ucraina”, come diceva la buonanima di Papa Francesco pur lamentando “l’abbaiare della Nato” alla Russia, si dovrebbe ora attendere un ritorno almeno sulle prime pagine dei giornali, non solo italiani, ora che l’altra guerra che le aveva strappato la scena, fra Israele e Iran con la partecipazione degli Stati Uniti, sembra entrata in una tregua vera, dopo quella falsa o fallita delle prime ore dopo l’annuncio di Trump.

         Il presidente ucraino Zelensky è corso anche lui al vertice della Nato, accolto molto calorosamente dal segretario generale. Spero che se ne potranno vedere risultati tangibili, non solo verbali o fotografici.

Le guerre di carta prodotte dalle guerre vere sul campo

Le guerre e persino le tregue che ogni tanto si annunciano e si praticano dividono anche i giornali, fra dioro e al loro interno. Sta accadendo a Repubblica, per esempio, fra le analisi o i “punti” di Stefano Folli, ai quali mancano ormai solo i richiami al “parere diverso” che la buonanima di Eugenio Scalfari metteva sugli articoli di Alberto Ronchey nella stagione della loro collaborazione, e quelli di Massimo Giannini. Che sono maggiormente amplificati per i salotti televisivi dove l’altro non compare. O, se vi approda, ciò avviene in canali che sfuggono almeno al mio telecomando.

         Ma più ancora della Repubblica è il Corriere della Sera che sta soffrendo questa confusa congiuntura internazionale, fatta di disordine più che di ordine. Le sue grandi firme, pur col garbo di non citarsi e tanto meno attaccarsi fra di loro, hanno visioni assai diverse di ciò che accade.

         Il mio amico Paolo Mieli, per esempio, pizzicò subito e impietosamente  Trump in violazione del diritto internazionale con l’annuncio del suo intervento nella guerra di Israele all’Iran, rivelatosi peraltro decisivo per strappare in breve tempo a Nethanyau non solo i ringraziamenti ma anche la rinuncia a proseguire le sue operazioni sino al ventilato, auspicato rovesciamento del regime degli ayatollah.

         Subito sotto Mieli, in ordine tipografico e alfabetico, nello stesso giorno si poteva leggere sul Corriere Antonio Polito convinto, in parole povere, che gli Stati Uniti, anche quelli di Trump, non potessero e dovessero sottrarsi all’intervento. Ma convinto pure che il presidente, “altalenante e improvvisato” avesse, come al solito, sbagliato modalità e tempi. Che a volte, si sa, vanificano anche le migliori intenzioni.

         Ieri Ernesto Galli della Loggia si è a lungo soffermato ad analizzare il diritto internazionale evocato dall’ex direttore Mieli per arrivare alla conclusione ch’esso sia ormai qualcosa più di effimero che di concreto. Incerto persino negli organismi internazionali preposti alla sua difesa e applicazione: dalle Nazioni Unite, paralizzate insieme dal diritto -anche quello- di veto di cui dispongono i protagonisti del Consiglio di Sicurezza e dalla maggioranza di cui dispongono ormai nell’Assemblea generale i paesi più disinvolti, diciamo così, nella loro condotta interna e internazionale.

         “Gli oltre cinquanta Stati islamici sommati a Russia e a Cina e ai Paesi del cosiddetto “Sud globale”, genericamente “antisionisti” e ostili a tutto quanto sappia troppo di Occidente, hanno una prevalenza schiacciante”, ha scritto impietosamente Galli della Loggia chiedendosi poi “che immagine si possa o si debba avere del diritto internazionale se sono questi i criteri di valutazione che ispirano l’Onu”. Criteri per niente ispirati alla “’imparzialità”,  elemento “costitutivo per antonomasia di ogni diritto e di ogni etica”. Senza il quale lo stesso diritto internazionale può “diventare qualcosa d’altro”. Di incerto e indefinibile.

Pubblicato sul Dubbio

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