Il ponte della Meloni a Palazzo Chigi fra Usa e Unione Europea

         Nel giorno dell’abbraccio del nuovo Papa col mondo in Eurovisione dal sagrato della Basilica di San Pietro, e della sua scelta -di grande significato politico in questa congiuntura internazionale- di dedicare al presidente ucraino Zelensky la prima udienza da intronizzato, la premier italiana Giorgia Meloni ha voluto e saputo concretizzare materialmente a Palazzo Chigi il ruolo impostosi -e anch’esso di rilievo in questa congiuntura internazionale- di ponte fra gli Stati Uniti di Donald Trump e l’Unione Europea di Ursula von der Leyen.

         Con quest’ultima e con Vance, il vice di Trump venuto a Roma per rappresentare il suo paese alla cerimonia di intronizzazione del connazionale Leone XIV, la premier italiana ha presieduto un vertice dedicato non solo alle questioni bilaterali di Europa e Stati Uniti ma anche alle altre, comprese le guerre che continuano pur tra accenni o parvenze di trattative.

         Ciò non è bastato naturalmente alle opposizioni per rinunciare alle “parole armate”, lamentate a livello ancora più ampio dal Papa, e proseguire nella demonizzazione del governo italiano. La segretaria del Pd Elly Schlein è corsa nel salotto televisivo di Luca Fazio per continuare ad accusare la Meloni di avere isolato il Paese. Matteo Renzi sul Foglio ha annunciato che “l’’incantesimo è finito” e che le cancellerie di tutto il mondo, a cominciare evidentemente  dalla Casa Bianca per finire al Cremlino e forse anche a Pechino, hanno scoperto che “Giorgia Meloni non è stabile ma immobile”.

         L’ex presidente del Consiglio ed ex commissario europeo Paolo Gentiloni, che qualcuno sogna prima o poi al Nazareno al posto della Schlein, si è adeguato a suo modo all’”asse anti Meloni” sparato dalla Stampa nel titolo di prima pagina. Egli ha riconosciuto su Repubblica, testualmente e diversamente dai suoi compagni di parte o di area, che “la postura di politica estera fin qui era stata un punto di forza della presidente del Consiglio, capace di rassicurare il tradizionale sistema di alleanze del nostro Paese”. “Ma ora, come d’improvviso, rischia di essere un  suo serio punto di debolezza”, ha aggiunto Gentiloni, non so se riuscendo a farsi perdonare dalla Schlein, Pier Luigi Bersani, Renzi, Conte, Fratoianni, Bonelli e “campisti” vari, di maggiore o minore larghezza, l’immagine di un rischi temuto al posto di una realtà o catastrofe certa, assoluta. Anche quell’”improvviso”, al posto di continuo e simili, potrebbe non rispondere ai canoni dei soprannominati campisti, ripeto. Chissà.

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Torna, anzi continua il rapporto “strategico” fra Germania e Italia

Preceduto da una smentita opposta dal vice cancelliere socialdemocratico Lars Klingbeil al giornale Die Welt, che aveva attribuito alla sua parte politica una esclusione dell’Italia, negli accordi sul nuovo governo di Berlino, dalla rosa degli alleati “strategici” della Germania, l’incontro del cancelliere Friederich Merz con la premier Giorgia Meloni a Palazzo Chigi ha chiuso del tutto la questione.

         “L’Italia è per noi un partner strategico irrinunciabile nella politica europea ed estera”, ha dichiarato il cancelliere tedesco. Dell’incontro la premier italiana ha detto che “è stato molto operativo, la smentita più efficace alla presunta assenza di interesse del governo tedesco a un rapporto con l’Italia”.

         Resta da chiarire in quale trappola sia caduto nei giorni scorsi il giornale tedesco autore del falso scoop. Se in una trappola di dissidenti socialdemocratici o di dissidenti del partito popolare, interessati entrambi a creare difficoltà al governo. Ma più in particolare a Merz, non a caso eletto dal Parlamento a cancelliere nella seconda votazione, dopo la maggioranza mancata nella prima.

         Nell’incontro fra la Meloni e Merz, favorito come altri avvenuti ieri a Palazzo Chigi, dall’arrivo di capi di Stato e di governo a Roma per la Messa odierna di intronizzazione di Papa Leone XIV, si è avuta anche la conferma -ma non nella chiave polemica usata nei riguardi della Meloni dal presidente francese Emmanuel Macron- che i cosiddetti “volenterosi” dell’Europa non pensino più di mandare un contingente militare in Ucraina a sostegno di Zelensky. Ipotesi dalla quale la premier italiana si è sempre dissociata, ritenendo che la competenza di un simile intervento possa essere solo dell’Onu ed evitando quindi di partecipare al recente vertice dei “volenterosi” in Albania. Peraltro mentre in Turchia si avviavano incontri diretti, pur in un clima di confusione e ambiguità, fra russi e ucraini.

         Se, come hanno precisato insieme Macron e Mez, sia pure con spirito diverso verso la premier italiana, in Albania i “volenterosi” di Francia, Germania, Polonia e Gran Bretagna non hanno più parlato di invio di truppe in Ucraina significa che evidentemente vi hanno rinunciato. Dopo che in questa direzione si era ripetutamente pronunciato proprio Macron.

         Si vedrà ora se le opposizioni al governo Meloni continueranno o rinunceranno anch’esse alle polemiche sull’isolamento che la premier avrebbe procurato all’Italia non unendosi ai “volenterosi” in Albania, o non procurandosi l’invito a partecipare all’incontro. Una rinuncia, quella delle opposizioni, improbabile visto anche l’attacco nuovamente sferrato alla Meloni oggi da Giuseppe Conte sul Corriere della Sera. Eppure il Papa ha recentemente raccomandato, parlandone più in generale, di “disarmare le parole”.

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Bettino Craxi nelle analisi e nei ricordi di Spenser Di Scala

Con Spenser Di Scala, morto a 84 anni, di origini italiane ravvivate da frequenti ritorni nel nostro Paese, è scomparso negli Stati Uniti lo storico americano che ha saputo conoscere, analizzare e raccontare meglio oltre Oceano i 18 anni, all’incirca, del potere di Bettino Craxi in Italia, fra il 1976, quando assunse la segreteria del partito socialista al minimo storico cui l’aveva portato Francesco De Martino, al 1994. Governando nel frattempo direttamente l’Italia da Palazzo Chigi fra il 1983 e il 1987. E vincendo, fra l’altro, lo storico referendum contro i tagli anti-inflazionistici alla scala mobile dei salari promosso dalla Cgil su commissione del Pci di Enrico Berlinguer, morto in tempo per non viverne personalmente la sconfitta.

Quella sconfitta della Cgil a trazione comunista segnò, prima ancora del successo di Craxi, la ripresa del primato della politica nei rapporti col sindacato. Esattamente l’opposto di quello che vorrebbe ora la sinistra, e più in particolare la Cgil, sempre quella, con i referendum dell’8 e 9 giugno prossimo su lavoro e cittadinanza.  

Giuseppe Scanni ha voluto ricordare su Facebook l’amico riproponendo una bella intervista concessa da Spenser Di Scala a Fabio Ranucci nel decimo anniversario della morte di Bettino Craxi in terra tunisina. Che fu anche l’occasione colta dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per testimoniare alla vedova i meriti politici del marito e “la durezza senza uguali”, e perciò ingiusta, subita nelle indagini e nei processi giudiziari e mediatici per la cosiddetta Tangentopoli. Frequentata da tutti come città e pratica delle tangenti illegalmente usate dai partiti per il loro finanziamento ma alla fine identificata soprattutto nel partito socialista craxiano. Il tutto -avvertì onestamente Napolitano- in un rapporto fra la giustizia e la politica improvvisamente e “bruscamente cambiato”.

Quel riconoscimento e monito di Napolitano, a lungo leader dell’ala riformista del Pci, cadde purtroppo nel vuoto a sinistra. Neppure ai tempi della segreteria di Matteo Renzi, che preferì esplicitamente la memoria di Enrico Berlinguer a quella di Bettino Craxi, il Pd è riuscito a rileggere con la decenza di una chiara autocritica gli anni della demonizzazione suicida del Psi autonomista e anticomunista.

Un solo o principale “errore” fu contestato a Craxi, a dieci anni dalla morte, da Spencer Di Scala. “Aver personalizzato -disse- eccessivamente la politica del partito più vecchio e glorioso d’Italia. Fino ad arrivare alla implosione. Ciò a prescindere dalle inchieste di Tangentopoli. In questo Paese, tra l’altro, c’è il problema che non si riesce a scindere la politica e le istituzioni dal personaggio”. Solo in Italia? Ci sarebbe da chiedere a Spenser Di Scala se fosse ancora vivo, pensando a presidenti americani di segno politico opposto come Obama e ancor più Trump. Che si spera contenibile anche con la felicemente imprevista elezione del papa americano Robert Prevost.

I benefici effetti del Papa portato dallo Spirito Santo…americano

Più passano i giorni, più Papa Prevost chiamatosi Leone XIV si fa conoscere ed apprezzare, rivelandosi peraltro un uomo di grandissima comunicazione, più viene la voglia pur blasfemica di chiedersi se lo Spirito Santo sceso sul Conclave che lo ha eletto in quattro votazioni, o tre fumate, e in un giorno non sia o non sia diventato pure lui americano.

         Questo Papa è arrivato in tempo, con tutti i suoi paramenti sacri, anche quelli dismessi dal predecessore argentino chiamatosi Francesco volendone assumerne e rappresentarne l’umiltà, per mettere l’America -come la chiamiamo generalmente parlando degli Stati Uniti- al riparo dallo shoc procurato dalla seconda elezione Di Donald Trump. E dai primi mesi, o settimane, di esercizio del suo mandato quadriennale.

         E’ in fondo sempre frutto dello Spirito Santo americano anche il fatto che una volta tanto, pur essendosi lasciato travestire da Papa durante la cosiddetta Sede Vacante, il presidente Trump si sia contenuto nella reazione all’evento nella Cappella Sistina. Non facendo travestire dai suoi vignettisti o simili il Papa da Trump, con un ciuffetto giallo magari sporgente dallo zucchetto bianco, ma compiacendosi della sua elezione e chiedendogli un po’ la benedizione, con quell’incontro auspicato per conoscersi direttamente e felicemente.

         Quanto darei per sapere cosa abbia davvero pensato, e magari detto il Papa al suo segretario peruviano Edgar Rimaycuna della reazione di Trump alla sua elezione, o almeno di quella manifestata in pubblico.

         Mi permetto comunque di credere che ci sta stato lo zampino del Papa nel rapido e sapiente recupero mediatico del suo pensiero, pubblicamente espresso, all’epoca dell’avvio della cosiddetta “operazione speciale” ordinata da Putin al Cremlino più di tre anni fa per “denazificare” l’Ucraina. E normalizzarla in una quindicina di giorni come una sostanziale appendice della Russia, dopo essersi già presa la Crimea. Il non ancora Papa né cardinale Prevot vide in quella operazione ciò che effettivamente era: una ripresa dell’imperialismo sovietico. Che d’altronde era già stato servito  da Putin quando faceva carriera nei servizi segreti dell’Urss, poi dissoltasi tra le rovine del muro di Berlino.

         Trump invece vi ha visto ancora di recente, e da presidente degli Stati Uniti, un’aggressione o quasi dell’Ucraina ad una Russia giustamente preoccupata delle aspirazioni di Zelensky all’adesione alla Nato. Evocata purtroppo anche dal compianto Papa Francesco parlando del “cane” che abbaiava alla Russia.

         Ora le cose sono state rimesse, diciamo così, al loro posto in Vaticano. Forse è la volta che tornino ad essere rimesse al loro posto anche alla Casa Bianca. E non per fare entrare l’Ucraina nella Nato, viste le condizioni o precondizioni delle trattative più o meno in corso per chiudere questa guerra, ma almeno per restituirle il diritto alla vita, protetto ormai anche dalla compartecipazione americana all’estrazione e gestione delle cosiddette “terre rare”. Una circostanza, questa, di sicurezza per l’Ucraina forse ancora migliore della Nato, coi tempi che corrono anche per l’alleanza atlantica.

Pubblicato sul Dubbio

In attesa dell’incontro di Meloni con Merz sui rapporti fra Germania e Italia

Nel quadro geopolitico scosso da guerre, militari e commerciali, e dalla imprevedibilità, a dir poco, delle decisioni, iniziative e quant’altro del presidente americano Donald Trump, deciso a cambiare gli assetti internazionali a vantaggio almeno dei suoi interessi, visto che quelli degli Stati Uniti potrebbero non coincidere oltre il suo secondo e ultimo mandato alla Casa Bianca, l’esclusione dell’Italia, insieme con la Cechia, dai paesi, anzi alleati, “strategici” per la Germania potrebbe anche essere considerata una notizia minore. Qualcosa di interno al cortile, piuttosto che all’Unione Europea di cui Germania e Italia sono fondatrici.

         L’esclusione, rivelata dal giornale tedesco Die Welt, è stata strappata al nuovo cancelliere Friederich Merz dai socialdemcratici, pur ridimensionati elettoralmente, nelle 144 pagine del programma prodotte in 62 giorni di trattative. Probabilmente, anzi auspicabilmente, la premier italiana Giorgia Meloni troverà il modo di parlare anche di questo con Mez in arrivo a Roma per   la messa di insediamento di Papa Leone XIV, domenica a San Pietro.

         Il ministro degli Esteri d’Italia, e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, uno dei vice presidenti del partito popolare europeo di cui fa parte il cancelliere tedesco, ha definito “sciocchezza colossale” quella compiuta nei riguardi dell’Italia, addebitandone tuttavia la responsabilità ai socialdemocratici e chiedendo, sfidando eccetera la sinistra italiana, in particolare il Pd della Schlein, a dissociarsene.

         Ma questo, francamente, appartiene all’abitudine di gettare la palla fuori dal campo in cui si gioca. Prima ancora della critica, certamente auspicabile, della Schlein ai socialdemocratici tedeschi, viene l’esigenza che Tajani, anche per la sua militanza politica comune con l’amico Merz, e il governo nel suo complesso chiedano chiarimenti e se la prendano col cancelliere che pur di fare il suo primo  governo ha ritenuto di poter rinunciare alla natura “strategica” dei  rapporti di amicizia e di alleanza con l’Italia.  

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Autorete del fantasma alla Camera nella partita contro la premier

         I radicali, francamente, hanno dato di meglio e di più anche nelle iniziative più dirompenti, come quando l’indimenticabile Marco Pannella si imbavagliava davanti alle telecamere per protestare contro lo spazio che gli lesinavano la Rai e i partiti che praticamente la gestivano. Riccardo Magi forse ha pensato di imitarlo, e persino superarlo, travestendosi nell’aula di Montecitorio da fantasma, e procurandosi l’espulsione, per protestare contro lo spazio informativo che sarebbe, secondo lui, negato ai referendum di giugno su lavoro e cittadinanza. E anche contro il boicottaggio che sarebbe l’incoraggiamento all’astensione da parte del centrodestra persino nella persona del presidente del Senato Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato e tutto il resto che segue abitualmente a questo rinfaccio, chiamiamolo così.

         Ma al povero Magi è sfuggito il contesto politico nel quale egli ha deciso di fare irruzione come un fantasma, guastando la festa alle opposizioni che ritenevamo di poter mettere in difficoltà la premier Giorgia Meloni, in una seduta di cosiddetta “question time”, addebitandole le liste di attesa negli ospedali e i massacri a Gaza compiuti da Israele pur in reazione al pogrom del 7 ottobre 2023, da cui è cominciata, o ripresa,  l’ennesima guerra in corso da quelle parti.

         Quel telo infilatosi addosso da Magi, per le circostanze appunto della protesta, ha materializzato anche agli occhi di chi ha avuto l’occasione di vederlo nei telegiornali e altrove un altro fantasma: quello dell’alternativa al centrodestra perseguita da opposizioni che non trovano un tema su cui essere davvero d’accordo: divise fra di loro, e all’interno di ciascuno dei partiti del campo a larghezza variabile.

         Sino a quando le opposizioni continueranno a fare quello che fanno, per sostanza e metodo, La Meloni potrà dormire tranquilla, almeno per la sopravvivenza del suo governo e della sua maggioranza, pur con tutti gli scricchiolii, per carità, che si avvertono. Lo riconoscono ogni tanto anche esponenti qualificati, in particolare, del Pd persino rischiando di finire nell’agenda nera che la segretaria sfoglierà quando potrà o dovrà stilare le liste dei candidati del Nazareno alle elezioni. Che in mancanza del voto di preferenza risulteranno eletti nell’ordine in cui sono stati proposti nelle liste. O nei collegi uninominali secondo la loro consistenza elettorale largamente valutabile in anticipo, con pochi imprevisti.

         Le opposizioni sono state sfortunate nello scontro di ieri alla Camera con la premier anche per la circostanza a lei favorevole dello spread -il famoso “signor Spread”, che misura la febbre dei mercati e la salute finanziaria del Paese- sceso per la prima volta dal 2021 sotto la rassicurante quota 100.

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L’alternativa a trazione Landini, non Schlein nè Conte

Due parole, o annotazioni, sul raduno referendario promosso per lunedì prossimo a Roma, in Piazza Vittorio, dalla Cgil di Maurizio Landini. Cui hanno annunciato la loro adesione il Pd di Elly Schlein, il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, la sinistra rossoverde di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli e + Europa di Benedetto Della Vedova. Uniti nel sostegno ai referendum dell’8 giugno su lavoro e cittadinanza minacciati dall’astensione preferita dal centrodestra, con la sola eccezione di Maurizio Lupi, per vanificarlo, essendo prescritta la partecipazione del quorum della maggioranza più uno degli aventi diritto al voto per renderne valido il risultato.

         La prima annotazione è proprio nella provenienza sindacale della proposta di mobilitazione in piazza, per cui i partiti del sì all’abrogazione risultano subalterni, volenti o nolenti. E non è uno spettacolo consolante per la politica. O per il primato assegnatole dalla Costituzione con maggiore evidenza dell’antifascismo evocato pur senza una esplicitazione nei 139 articoli che la compongono. “Tutti i cittadini -dice invece l’articolo 49- hanno il diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Anche in materia, naturalmente, di lavoro e cittadinanza.

         La seconda annotazione è sull’occasione mancata anche questa volta per elevare sopra la dimensione di qualche elezione locale una convergenza delle opposizioni per delineare davvero il fronte di un’alternativa realistica al centrodestra. Ci sono Schlein e Conte, e Fratoianni, Bonelli e Della Vedova, ma non la gamba moderata. Né di Carlo Calenda, ormai scambiato dai suoi peggiori avversari per una riserva del centrodestra, né di Matteo Renzi. Che pur di guadagnarsi il pedrigree, diciamo così, dell’opposizione cerca di scavalcare tutti nelle offensive di carattere personale dei giorni pari e dispari contro la premier Giorgia Meloni. Si è metaforicamente intrufolato, con interrogazioni dei suoi parlamentari, anche nei regali da lei ricevuti in due anni e mezzo di governo per cercare di coglierla in fallo su qualcuno di oltre 300 euro di valore non devoluti allo Stato.

         Vedo che anche il generalmente fiducioso o ottimista Pier Luigi Bersani, reduce da una fatica letteraria che gli ha procurato un aumento delle già abbondanti partecipazioni ai salotti televisivi, ha cominciato a preoccuparsi davvero -parlandone, per esempio, agli amici del Fatto Quotidiano– di un’alternativa più da sogno che da realtà.

Prima o dopo il simpatico ex segretario del Pd e mancato presidente del Consiglio di un suggestivo governo di “minoranza e combattimento”  troverà nel ricordo delle metafore del padre qualcuna -magari animalesca, come quella della mucca al Nazareno o del giaguaro smacchiabile sullo scoglio- da applicare all’alternativa.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 18 maggio

Il biscotto referendario di giugno immerso nella scaramanzia

         Debbono essere ben deboli, nonostante la loro diffusione mediatica e politica in funzione antigovernativa, gli argomenti contro il ricorso all’astensione nei referendum abrogativi del mese prossimo su lavoro e cittadinanza per vanifcarne il risultato con l’affluenza alle urne di metà degli elettori prescritta dalla Costituzione, se si sta facendo ricorso adesso più alla scaramanzia che alla ragione, o al diritto.

         La raccomandazione a preferire “il mare” al voto – si dice e si scrive- per vanificare il 9 giugno 1991 il referendum contro le preferenze plurime costò caro a Bettino Craxi. Corse alle urne il 62,50 per cento degli elettori e il sì all’abrogazione raccolse il 95,57 dei voti contro un misero  4,43 del no.  

Dopo meno di tre anni il leader socialista, che pensava di potere tornare a Palazzo Chigi, fu politicamente decapitato con la cosiddetta prima Repubblica e costretto a rifugiarsi da esule- o da latitante, secondo gli avversari in toga e senza- nella sua casa di Hammamet, in Tunisia, per scampare all’arresto per Tangentopoli.

         Ma Craxi in quel referendum non fu il solo a consigliare il mare alle urne. Gli fece compagnia il leader emergente della Lega Umberto Bossi, che nel 1994 avrebbe vinto le elezioni con Silvio Berlusconi e portato al governo, dove tuttora è con Matteo Salvini, il suo partito pur in odore, o puzza, allora di tentazioni scissioniste, col Nord chiuso nella sua ricchezza e il Sud nella sua povertà. “Forza Etna”, scrivevano con la vernice nera i leghisti sui ponti delle autostrade.

         Scaramanzia per scaramanzia, scommessa per scommessa, guferia per guferia, diciamo così, la sponsorizzazione dell’astensione in quel referendum di 34 anni fa non è quindi di lettura unica.

         Più che la sconfitta referendaria costò carissima politicamente, umanamente, fisicamente a Craxi la scelta degli avversari comunisti, con la sostanziale complicità anche di una parte dei suoi alleati di governo, e persino compagni di partito, di liberarsene cavalcando indagini e processi per il finanziamento illegale della politica, e altri reati presuntivamente annessi. Una decisione che la sinistra a sua volta ha pagato caramente perdendo la sua identità, almeno quella generosamente garantista che le era stata prima attribuita, e vivendo ora praticamente di espedienti, come i referendum di giugno. Che sono stati prodotti da in conflitto interno al Pd, fra massimalismo e riformismo, ed estesosi fuori.  

Ripreso da http://www.startmag.it il 17 maggio

Al repertorio di Donald Trump mancava solo l’aereo regalatogli dal Qatar

         Mentre in Italia ci stiamo, anzi si stanno scontrando maggioranza e opposizioni sul diritto del presidente del Senato Ignazio La Russa di sentirsi ancora militante politico, sino a sostenere pure lui il diritto conclamato di tutti i cittadini di votare ma anche di non votare per un referendum abrogativo, dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti, mi pare che sia passata come una notizia normale, di ordinaria amministrazione, quella di un lussuoso palazzo volante -un Boeing 747 8- che il Qatar ha deciso di donare al presidente Donald Trump. Il quale potrà adattarlo, a spese degli Stati Uniti, ad aereo presidenziale e trattenere poi per sé, regalandolo ad una propria fondazione o “Libreria”, quando non sarà più presidente. Magari, allora, non per volare, dati i costi, ma solo per salirci sopra ogni tanto, ricordare i bei tempi andati, organizzare convegni o riunioni conviviali, godersi visioni cinematografiche e quant’altro.

         Le decisioni, le iniziative, gli scherzi che Trump si concede, travestendosi anche da papa in fotomontaggi e anticipando -con i glutei che ha- l’elezione di uno statunitense davvero a Pontefice, producono abitualmente il finimondo. Questa volta l’annuncio delle “trattative” in corso fra gli Stati Uniti e il Qatar per la consegna del regalo al presidente Trump ha solo sorpreso. E forse più al qua che al di là dell’Atlantico, magari per non disattendere l’appello di Papa Leone XIV a disarmare almeno le parole, visto che non si riesce a disarmare gli eserciti.  Buon viaggio e buon divertimento, signor presidente.

Il caso di Ignazio La Russa conforme ai precedenti del Senato

Se non si tratta di malafede, dalla quale è inutile difendere o difendersi per la evidenza del pregiudizio, ma di ignoranza intesa come non conoscenza di fatti e uomini, mi permetto di raccontare da questa modesta postazione a quanti stanno contestando al presidente del Senato Ignazio La Russa la sua militanza politica ciò che accadeva fra maggio e giugno di 52 anni fa a Roma. Ne fui allora cronista e testimone diretto. Ma ve ne ripropongo il racconto al presente.

         E’ in carica il governo della cosiddetta “centralità” realizzato da Giulio Andreotti e Giovanni Malagodi dopo le elezioni anticipate del 1972, provocate dalla rottura del Psi guidato da Francesco De Martino con la Dc guidata da Arnaldo Forlani dopo l’ascesa di Giovanni Leone al Quirinale con i voti determinanti della destra.

         I repubblicani di Ugo La Malfa, insofferenti del ritorno alla “centralità”, variante forlaniana del “centro”,   delle vecchie coalizioni di governo di Alcide De Gasperi e successori, si ritirano dalla maggioranza col pretesto dei contrasti sulla scelta del sistema con cui introdurre anche in Italia la televisione a colori, peraltro non considerata dal Pri una esigenza prioritaria.

         In una situazione di pre-crisi di governo si svolgono e si concludono a livello provinciale e regionale i preparativi del tredicesimo congresso nazionale della Dc, convocato a Roma per il 6 giugno e destinato a concludersi il 10.

         Pur ad elezione ormai avvenuta dei delegati pronti a confermare Forlani a Piazza del Gesù e Andreotti a Palazzo Chigi, il presidente del Senato Amintore Fanfani invita, o convoca, a Palazzo Giustiniani i colleghi capicorrente della Dc. Viene raggiunto un patto che prende il nome della sede dell’incontro che il congresso scudocrociato dopo qualche giorno ratificherà con un documento che praticamente rovescia le indicazioni dei precongressi.

         In  esecuzione di quel patto Forlani, cresciuto come delfino politico di Fanfani, viene sostituito alla segreteria del partito dallo stesso Fanfani per guidare lo scudocrociato l’anno dopo nella clamorosa sconfitta referendaria contro il divorzio.  Andreotti viene sostituito da Mariano Rumor a Palazzo Chigi. Aldo Moro, destinato alla presidenza della Camera, è bloccato dal rifiuto rumorosamente opposto nel suo ufficio di Montecitorio dal   socialista Sandro Pertini alla richiesta di De Martino di dimettersi per liberare il posto.

         E Andreotti e Forlani, in ordine rigorosamente alfabetico? Si arrendono, o allineano, a loro modo. Il primo aggiornando silenziosamente i suoi diari e mettendosi nell’attesa non lunga di un ritorno a Palazzo Chigi. Dove riprenderà a lavorare dopo tre anni, stavolta con l’appoggio anche dei comunisti. Forlani si accomiata dal congresso democristiano con un discorso di replica in cui discetta del “trasformismo del diavolo”. Fanfani, cereo mentre lo ascolta, non glielo perdonerà mai, ma non per questo Forlani lo ostacolerà nel ritorno alla Presidenza del Senato per altre due volte, sino al 1987. Quando sarà lo stesso Fanfani a rinunciarvi per fare il suo ultimo governo, elettorale, voluto da Ciriaco De Mita per liberarsi di Bettino Craxi a Palazzo Chigi.

         Ora Ignazio La Russa, colpevole di condividere in modo trasparente l’astensione scelta dal suo partito per fronteggiare, cioè vanificare, i referendum di giugno su lavoro e cittadinanza praticamente prodotti dalle gare interne al Pd e alla improbabile coalizione alternativa al centrodestra, è alla sua prima Presidenza del Senato. Potrebbe aspirare ad altre due, dati i precedenti di Fanfani che furono accettati dalla sinistra perché funzionali, a quei tempi, al suo interesse politico.

         Fanfani arrivò alla sua prima esperienza di presidente del Senato a soli 60 anni. La Russa ne ha 78. Ma la vita, si sa, si è allungata. Auguri, signor presidente.

Pubblicato su Libero

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