Al repertorio di Donald Trump mancava solo l’aereo regalatogli dal Qatar

         Mentre in Italia ci stiamo, anzi si stanno scontrando maggioranza e opposizioni sul diritto del presidente del Senato Ignazio La Russa di sentirsi ancora militante politico, sino a sostenere pure lui il diritto conclamato di tutti i cittadini di votare ma anche di non votare per un referendum abrogativo, dall’altra parte dell’Atlantico, negli Stati Uniti, mi pare che sia passata come una notizia normale, di ordinaria amministrazione, quella di un lussuoso palazzo volante -un Boeing 747 8- che il Qatar ha deciso di donare al presidente Donald Trump. Il quale potrà adattarlo, a spese degli Stati Uniti, ad aereo presidenziale e trattenere poi per sé, regalandolo ad una propria fondazione o “Libreria”, quando non sarà più presidente. Magari, allora, non per volare, dati i costi, ma solo per salirci sopra ogni tanto, ricordare i bei tempi andati, organizzare convegni o riunioni conviviali, godersi visioni cinematografiche e quant’altro.

         Le decisioni, le iniziative, gli scherzi che Trump si concede, travestendosi anche da papa in fotomontaggi e anticipando -con i glutei che ha- l’elezione di uno statunitense davvero a Pontefice, producono abitualmente il finimondo. Questa volta l’annuncio delle “trattative” in corso fra gli Stati Uniti e il Qatar per la consegna del regalo al presidente Trump ha solo sorpreso. E forse più al qua che al di là dell’Atlantico, magari per non disattendere l’appello di Papa Leone XIV a disarmare almeno le parole, visto che non si riesce a disarmare gli eserciti.  Buon viaggio e buon divertimento, signor presidente.

Il caso di Ignazio La Russa conforme ai precedenti del Senato

Se non si tratta di malafede, dalla quale è inutile difendere o difendersi per la evidenza del pregiudizio, ma di ignoranza intesa come non conoscenza di fatti e uomini, mi permetto di raccontare da questa modesta postazione a quanti stanno contestando al presidente del Senato Ignazio La Russa la sua militanza politica ciò che accadeva fra maggio e giugno di 52 anni fa a Roma. Ne fui allora cronista e testimone diretto. Ma ve ne ripropongo il racconto al presente.

         E’ in carica il governo della cosiddetta “centralità” realizzato da Giulio Andreotti e Giovanni Malagodi dopo le elezioni anticipate del 1972, provocate dalla rottura del Psi guidato da Francesco De Martino con la Dc guidata da Arnaldo Forlani dopo l’ascesa di Giovanni Leone al Quirinale con i voti determinanti della destra.

         I repubblicani di Ugo La Malfa, insofferenti del ritorno alla “centralità”, variante forlaniana del “centro”,   delle vecchie coalizioni di governo di Alcide De Gasperi e successori, si ritirano dalla maggioranza col pretesto dei contrasti sulla scelta del sistema con cui introdurre anche in Italia la televisione a colori, peraltro non considerata dal Pri una esigenza prioritaria.

         In una situazione di pre-crisi di governo si svolgono e si concludono a livello provinciale e regionale i preparativi del tredicesimo congresso nazionale della Dc, convocato a Roma per il 6 giugno e destinato a concludersi il 10.

         Pur ad elezione ormai avvenuta dei delegati pronti a confermare Forlani a Piazza del Gesù e Andreotti a Palazzo Chigi, il presidente del Senato Amintore Fanfani invita, o convoca, a Palazzo Giustiniani i colleghi capicorrente della Dc. Viene raggiunto un patto che prende il nome della sede dell’incontro che il congresso scudocrociato dopo qualche giorno ratificherà con un documento che praticamente rovescia le indicazioni dei precongressi.

         In  esecuzione di quel patto Forlani, cresciuto come delfino politico di Fanfani, viene sostituito alla segreteria del partito dallo stesso Fanfani per guidare lo scudocrociato l’anno dopo nella clamorosa sconfitta referendaria contro il divorzio.  Andreotti viene sostituito da Mariano Rumor a Palazzo Chigi. Aldo Moro, destinato alla presidenza della Camera, è bloccato dal rifiuto rumorosamente opposto nel suo ufficio di Montecitorio dal   socialista Sandro Pertini alla richiesta di De Martino di dimettersi per liberare il posto.

         E Andreotti e Forlani, in ordine rigorosamente alfabetico? Si arrendono, o allineano, a loro modo. Il primo aggiornando silenziosamente i suoi diari e mettendosi nell’attesa non lunga di un ritorno a Palazzo Chigi. Dove riprenderà a lavorare dopo tre anni, stavolta con l’appoggio anche dei comunisti. Forlani si accomiata dal congresso democristiano con un discorso di replica in cui discetta del “trasformismo del diavolo”. Fanfani, cereo mentre lo ascolta, non glielo perdonerà mai, ma non per questo Forlani lo ostacolerà nel ritorno alla Presidenza del Senato per altre due volte, sino al 1987. Quando sarà lo stesso Fanfani a rinunciarvi per fare il suo ultimo governo, elettorale, voluto da Ciriaco De Mita per liberarsi di Bettino Craxi a Palazzo Chigi.

         Ora Ignazio La Russa, colpevole di condividere in modo trasparente l’astensione scelta dal suo partito per fronteggiare, cioè vanificare, i referendum di giugno su lavoro e cittadinanza praticamente prodotti dalle gare interne al Pd e alla improbabile coalizione alternativa al centrodestra, è alla sua prima Presidenza del Senato. Potrebbe aspirare ad altre due, dati i precedenti di Fanfani che furono accettati dalla sinistra perché funzionali, a quei tempi, al suo interesse politico.

         Fanfani arrivò alla sua prima esperienza di presidente del Senato a soli 60 anni. La Russa ne ha 78. Ma la vita, si sa, si è allungata. Auguri, signor presidente.

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