Un affare per il Papa statunitense l’anatema di Steave Bennon

         Smentito e rimosso dallo staff di Donald Trump all’epoca della sua prima esperienza alla Casa Bianca, per quanto poi generosamente graziato nelle vicende giudiziarie, Steave Bennon ha visto e denunciato come “la scelta peggiore” l’elezione del connazionale Robert Prevost a Papa. Che invece Trump si era affrettato ad apprezzare, pronto a baciare l’anello al dito di Leone XIV. E forse anche qualcosa d’altro vista l’immaginazione che si scatena nel linguaggio del presidente americano quando incontra o solo sente, o interpreta persone del suo livello istituzionale, diciamo così.

         “La scelta peggiore”, ha detto Bannon di Prevost perché -ha spiegato Laura Loomer sulla scia del suo ispiratore o modello-  il nuovo Papa altro non sarebbe che una “marionetta marxista”, per quanto vestito di bianco nei panni di Leone XIV. Ma completato di rosso -potrebbe replicare la scatenata bannoniana, o bannista- per i paramenti di questo colore che il nuovo Pontefice, diversamente dal predecessore argentino, ha voluto sovrapporre alla tonaca pontificia.       

I giornali, forse più quelli al di qua che al di là dell’Atlantico, hanno voluto dare al giudizio di Bannon un rilievo obiettivamente sproporzionato a quello che meritava e merita. O che meriterebbe al contrario, considerando l’anatema di Bannon dopo la prima reazione invece entusiasta di Trump un segno incoraggiante di ottimismo di fronte alla rappresentazione diabolica del presidente americano e, più in generale, del trumpismo. Nei panni del diavolo Trump ha forse smesso di riconoscersi.

         Lo Spirito Santo è sceso, a suo modo, anche su Bannon per fargli dare un contributo ad una più realistica rappresentazione della presidenza americana in corso, dopo l’elezione di Prevost a Papa. E la benedizione che Trump gli ha praticamente chiesto.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Lo Spirito Santo a stelle e strisce ha spiazzato Trump

Oltre che Santo, con la maiuscola dovutagli per fede, lo Spirito del Conclave per la successione a Papa Francesco è stato sarcastico. O quanto meno spiritoso, come d’altronde Francesco raccomandava a tutti di essere cercando spesso di dare il buon esempio, anche a costo di qualche gaffe, a dire il vero. Come quella volta in cui, contraddicendo le sue stesse aperture agli omosessuali dubitando di poterli giudicare, si lamentò con i vescovi della “troppa frociaggine” che anche lui aveva avvertito nei seminari.

         Il primo Papa americano -o statunitense, come precisano quanti hanno considerato e considerano come primo il sudamericano Josè Bergoglio- ha già fatto da vivo il miracolo di fare ridere di Donald Trump, e non solo indignare o temere. Ridere per la rapidità con la quale dalla Casa Bianca, o ovunque fosse in quel momento, il presidente degli Usa ha annunciato la sua soddisfazione per il connazionale salito al vertice della Chiesa, dove lui si era goffamemte immaginato con quel fotomontaggio visto in tutto il mondo. E apparso a molti come una provocazione al Conclave non ancora cominciato, oltre che al buon gusto.

         Ma la soddisfazione, il compiacimento, persino l’entusiasmo, come tutte le cose di Trump, hanno rotto il muro del suono con la sostanziale richiesta al Papa di un incontro che non gli sarà di certo negato. Ma durante il quale Leone XIV -il nome europeo in cui Robert Francis Pivot ha voluto avvolgersi e riconoscersi- vorrà e potrà lasciare baciare dall’ospite non più dell’anello pontificio al dito. Umiliazioni di quelle che Trump attribuisce spesso ai suoi interlocutori reali o immaginari, addirittura in fila per baciargli i glutei, sono escluse.

         Penso fiduciosamente che questo Papa, primo o secondo americano che voglia o debba essere considerato, si farà gradire da fedeli e non credenti.  E a chi lo teme per il vantaggio che potrà ricavarne il meno o per niente apprezzato Trump vorrei ricordare l’incidente in cui incorse la buonanima di Giancarlo Pajetta nei corridoi della Camera commentando nel 1978 con i cronisti parlamentari l’elezione a Papa appena avvenuta del primo e sinora unico polacco: Karol Jozef Wojthyla. Il famoso e sempre urticante deputato del Pci lo segnalò sarcasticamente, diciamo così, come un rompi…scatole per chi in Vaticano avrebbe dovuto subirne la guida. Giovanni Paolo II ruppe in realtà   qualcosa, ma di tutt’altro genere e dimensione come il comunismo sovietico.

         Pur costretto a compiacersene e ad offrirsi, ripeto, una volta tanto lui alla devozione del bacio, Trump ha finalmente trovato -o di già, visto che è tornato alla Casa Bianca da meno di quattro mesi- un americano, oltre che un Papa, a dir poco problematico per le ambizioni sinora coltivate o minacciate dall’inquilino di quella magione.  Un Papa che gli potrebbe tuttavia essergli utile nel perseguimento di quella “pace disarmata e disarmante” – ha detto Leone XIV- che il presidente americano si è accorto di non potere costruire da solo, avendo dato francamene la sensazione di perseguirla solo negli interessi degli Stati Uniti, se non addirittura personali nel mondo pur globalizzato degli affari.

Pubblicato sul Dubbio

La politica italiana si è ormai abituata al Papa straniero

La buonanima di Giovanni Spadolini prendeva le misure del Tevere ad ogni cambiamento di Papa per valutare le distanze fra il Vaticano e la politica italiana. Le aveva prese da storico e continuò a prenderle anche da politico, arrivato a Palazzo Chigi al secondo anno del Pontificato del primo e unico polacco giunto al vertice della Chiesa. Due anni nei quali anche per effetto del clima cambiato con Karol Wojthyla nella concezione della forza del comunismo-   passando dalla rassegnazione alla resistenza e alla vittoria- era andata esaurendosi la politica italiana della cosiddetta solidarietà nazionale. Che era peraltro costata la vita ad Aldo Moro, uno dei suoi artefici, ucciso il 9 maggio di 47 anni fa dalle brigate rosse

         Testimone non indifferente, pur dopo la caduta del comunismo, con quei gesti pubblici a favore di Giulio Andreotti, della fine della cosiddetta prima Repubblica italiana, Giovanni Paolo II permise al cardinale Camillo Ruini di sottrarsi al boicottaggio della seconda Repubblica che aveva esordito con l’arrivo di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, su designazione quasi diretta degli elettori. Fu proprio Ruini infatti, secondo rivelazioni fatte poi da lui stesso, che rifiutò l’aiuto chiestogli dall’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro per fare cadere il primo governo di centrodestra, quasi strozzandolo nella culla.

         Benedetto XVI, come volle chiamarsi il tedesco Joseph Ratzinger succedendo al polacco nominatosi Giovanni Paolo II, fu eletto nel 2005 mentre Berlusconi, tornato a Palazzo Chigi dopo l’interruzione della sua prima avventura di governo, cercava appunto di governare fra ostacoli interni ed esterni alla coalizione.

         Il Papa non gli fu di certo ostile, noto per le sue frequentazioni da cardinale, partecipe anche di incontri, dibattiti, convegni promossi da protagonisti dell’area conservatrice di centrodestra: per esempio, Gaetano Rebecchini, Giuliano Ferrara, Marcello Pera.

         All’arrivo dell’argentino Josè Bergoglio, chiamatosi Francesco nel 2013 succedendo al dimissionario Benedetto XVI, la politica italiana era un po’ nella palude della transizione fra il centrodestra originario a trazione berlusconiana a un centrodestra a trazione prima salviniana e poi meloniana. Una palude nella quale la sinistra tentò inutilmente di intrufolarsi scambiando per compagni, ad esempio, persino quei qualunquisti, non di più, che hanno finito per dimostrarsi i grillini. Che pur di resistere con Giuseppe Conte a Palazzo Chigi fra il 2018 e il 2021 hanno cambiato maggioranze con una disinvoltura pitonesca.

         Il compianto Papa Francesco, che aveva visto anche di peggio nella sua Argentina, ha seguito al suo modo l’evoluzione del centrodestra dalla trazione berlusconiana a quella meloniana. E non si è lasciato certamente intimidire o paralizzare dalle campagne più o meno professionali dell’antifascismo e simili manifestando le sue simpatie per la prima donna italiana, e di destra, alla guida del governo.  

         Ho già intravisto nei soliti salotti televisivi, e fra le righe e le allusioni di certe analisi sulla carta stampata, segni di sofferenza, a dir poco, per l’elezione del primo americano -o nordamericano, come preferite- a Papa a meno di tre mesi dal ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, affettatosi a chiedergli praticamente, e con un misto di orgoglio e di umiltà,udienza a Roma. Che Gorgia Meloni intanto ha restituito alla centralità addirittura dei tempi, in cui lei non era neppure nata, della firma dei trattati europei.

         Lo so. Gli ossessionati dell’antimelonismo -per niente tentati da uno sguardo oltre il loro naso, pur  mentre cambia la geopolitica, e si fa fatica a creare quella “pace disarmata e disarmante” appena predicata da Leone XIV, come ha scelto di chiamarsi Robert Francis Prevost- non si daranno pace. E vedranno mostri dappertutto. Ma dovranno darsene e farsene una ragione.

Pubblicato su Libero

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